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La sesta estinzione di massa ed il progetto delle 8 “R”

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"Art" by Tiago Hoisel - (Surreal Capitalism)

“Art” by Tiago Hoisel – (Surreal Capitalism)

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Diventare atei della crescita

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L’essenza della domanda posta nel titolo del mio intervento* – “Crescita, Recessione, Decrescita, un cerchio che si chiude?” – può essere tradotta, in termini shakespeariani, come: crescere o non crescere? Una domanda che ne implica un’altra: credere o non credere? Perché, come ha spiegato bene papa Francesco, la crescita è diventata la religione del nostro tempo e noi dobbiamo diventare atei della crescita. Ma, a differenza di papa Francesco, nessun responsabile politico o economico l’ha compreso (o almeno fa finta di non averlo compreso).

Nel 2002, al convegno dei metereologi statunitensi a Silver Spring, Bush dichiarò che la crescita genera posti di lavoro, risorse pubbliche, benessere sociale, pace e anche le risorse per provvedere all’ambiente: «La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema». E se da Bush non ci si poteva aspettare altro, in realtà tutti, compreso Matteo Renzi, dicono la stessa cosa. Alla Conferenza del clima di Parigi, lo scorso dicembre, la parola proibita era “decrescita”. Quello che si doveva dire era che la battaglia contro il cambiamento climatico costituiva l’opportunità per una nuova crescita. Una crescita verde: un bell’ossimoro.

In questo quadro, non basta essere economisti; bisogna anche essere filosofi. E io partirei dall’osservazione di uno dei più grandi filosofi del nostro tempo, Woody Allen:

«Siamo arrivati all’incrocio di due strade: una porta alla scomparsa della specie, l’altra alla disperazione totale. Spero che l’umanità faccia la scelta giusta».

Sembra che il dilemma sia proprio questo.

La prima strada è quella di una società della crescita con crescita, quella su cui abbiamo camminato da due-tre secoli e soprattutto a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. È la strada che conduce a quella che gli scienziati hanno definito come sesta estinzione di massa. Rispetto alla quinta, quella dei dinosauri, risalente a sessantacinque milioni di anni fa, questa sesta estinzione presenta alcuni tratti specifici: si svolge a un’altissima velocità (ogni giorno spariscono tra le cinquanta e le duecento specie); è determinata dall’attività umana e potrebbe riguardare lo stesso essere umano.

La seconda strada, quella che conduce alla disperazione, è quella di una società della crescita senza crescita, una società in recessione. Sappiamo quale tragedia rappresenti. Ma non sono venuto qui per dire che la nostra unica scelta è tra la peste e il colera, tra la disperazione e l’estinzione. C’è, in realtà, una terza via, un piccolo sentiero che Woody Allen non ha visto e di cui pochi si sono accorti: la via della decrescita. La via dell‘uscita dal paradigma della società della crescita. Ma per capire in cosa consiste questo cammino bisogna prima analizzare e denunciare le illusioni della crescita. Un compito tutt’altro che facile, perché nessun argomento, per quanto razionale sia, può convincere qualcuno che ha fede, che ha fede nella crescita.

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COS’È LA CRESCITA?

Si pensa alla crescita, in primo luogo, come a un fenomeno biologico. E in effetti i termini “crescita” e “sviluppo” vengono dalla biologia, soprattutto evoluzionista. La crescita è la trasformazione quantitativa di un organismo nel tempo. Tutti gli organismi crescono e, nello stesso tempo in cui crescono, si trasformano. Un seme non diventa un seme gigantesco, diventa una pianta. E questo è lo sviluppo. Lo sviluppo è la trasformazione qualitativa di un fenomeno quantitativo. Lo sviluppo non è la crescita, ma non esiste uno sviluppo senza crescita. La crescita è la base dello sviluppo.

Quando gli economisti hanno preso in prestito questa metafora della crescita e dello sviluppo, si sono dimenticati però di due o tre cose. In primo luogo, l’economia non è un organismo. Si può pensare alla società umana nel suo rapporto con l’ambiente come a un organismo, come ha fatto il grande biologo britannico James Lovelock con l’ipotesi Gaia, ma l’economia può rappresentarne solo una parte. Anche i filosofi avevano pensato alle civiltà come a organismi, basti pensare a Giambattista Vico, secondo cui, proprio come gli organismi, le civiltà nascono, crescono si sviluppano e poi declinano e muoiono. L’economia non è un organismo, ma, se anche lo fosse, gli economisti si sono dimenticati che dovrebbe infine morire, postulando, al contrario, una crescita infinita. E poi gli organismi vivono con l’ambiente in un rapporto di dipendenza reciproca. Mentre gli economisti pensano che sia possibile trarre dalla natura tutte le materie prime e scaricarvi tutti i rifiuti, senza alcuna interdipendenza. Pensano di poter sfruttare senza limiti la natura come fonte di materie prime e come pattumiera.

La crescita economica, quindi, non ha niente a che vedere con la crescita degli organismi. E l’economia, come parte dell’organismo globale, deve obbedire alle leggi della biologia e prima ancora della fisica, e in particolare della termodinamica, e ancora più in particolare della seconda legge della termodinamica, quella dell’entropia, in base a cui sappiamo bene che, una volta che abbiamo bruciato i trenta litri della benzina nel serbatoio, questi litri non saranno più disponibili. Come spiega Richard Heinberg nel libro La festa è finita, la crescita è nata con i pozzi di petrolio e finirà con essi.

Che la crescita infinita in un pianeta finito sia un’assurdità dovrebbero capirlo tutti. Come diceva il grande Groucho Marx, lo capirebbe anche un bambino di cinque anni. I nostri responsabili, però, non lo capiscono. Con un tasso di crescita del 2 per cento l’anno, prolungato per un periodo di tempo di duemila anni, il Pil risulterebbe moltiplicato di 160 milioni di miliardi. Chiunque capirebbe che è impossibile far crescere il Pil di 160 milioni di miliardi. Che è impossibile far crescere di questa cifra il numero delle automobili, per esempio. Eppure, la società della crescita è basata proprio sull’assurdità di questa illimitatezza.

L’economia capitalistica, l’economia di mercato, è basata su una triplice illimitatezza: l’illimitatezza della produzione, cioè dello sfruttamento delle risorse naturali, rinnovabili e non rinnovabili; l’illimitatezza del consumo, che comporta la creazione di un numero sempre più alto di bisogni artificiali (perché, se si produce sempre di più, si deve anche consumare sempre di più); e, di conseguenza, l’illimitatezza dei rifiuti, cioè dell’inquinamento dell’aria, sempre più irrespirabile, dell’acqua, sempre meno potabile, dei mari, sempre più invasi da continenti di plastica, della terra, sempre più avvelenata e desertificata. E queste illimitatezze, soprattutto quella del consumo, funzionano in base ad alcune molle, la prima delle quali è la pubblicità, la cui funzione è renderci insoddisfatti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. Cosicché viviamo non nella società dell’abbondanza, ma in quella della frustrazione, quella in cui dobbiamo sentirci sempre frustrati e infelici per poter avere desideri da soddisfare e dunque per consumare sempre di più. La seconda molla è il credito: poiché non tutti possono soddisfare i loro desideri artificiali, quelle istituzioni filantropiche conosciute come banche sono disposte a concedere crediti. Se poi non bastano né la pubblicità né il credito c’è comunque l’obsolescenza programmata: la durata di vita dei nostri prodotti è sempre più breve, così da costringerci ad acquistarne di nuovi. La pubblicità crea un’obsolescenza psicologica, mentre la tecnica crea un’obsolescenza reale.

Quando si registra una crescita forte come quella registrata durante il trentennio d’oro, si assiste alla distruzione dell’ambiente e di parti della società, soprattutto nel Sud del mondo, ma anche alla creazione di posti di lavoro, di risorse pubbliche per finanziare l’educazione, la sanità, la cultura. Ma una società della crescita senza crescita conosce solo disoccupazione e tagli alle spese sociali.

La società della crescita con crescita è finita, ma il mito della crescita continua a operare impedendo di uscire dalla trappola di questo sistema e spingendoci nell’incubo di una società della crescita senza crescita. È per questo che bisogna costruirne una nuova: si tratta di una rivoluzione, perlomeno a livello di immaginario. Si deve decolonizzare l’immaginario dell’economicismo, superare la fede nella crescita dell’economia. E questo è il progetto della decrescita.

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COS’È LA DECRESCITA?

Prima di tutto, è uno slogan – con la funzione provocatrice propria degli slogan – che permette di capire quale assurdità rappresenti una crescita infinita in un pianeta finito. Uno slogan dietro cui c’è il concetto di una società alternativa, non basata sulla crescita infinita e sul consumo infinito. Il progetto della decrescita è quello, per dirla con le parole del collega inglese Tim Jackson, di una società di prosperità senza crescita, che è il titolo di un suo libro di alcuni anni fa, o quello, come dico io, di una società di abbondanza frugale.

Perché abbiamo lanciato questo slogan della decrescita? Lo abbiamo utilizzato per contrastarne un altro, quello mistificatorio dello sviluppo sostenibile. Un ossimoro: lo sviluppo non può essere sostenibile perché presuppone la crescita. Ed è un modo per prolungare il mito della crescita.

Il concetto di sviluppo sostenibile è legato a tre criminali dal colletto bianco, il più noto dei quali è l’imprenditore elvetico Stephan Schmidheiny, condannato dalla Corte di Appello di Torino nel processo Eternit, ma allo stesso tempo grande promotore del concetto di sviluppo sostenibile e fondatore del World Business Council for Sustainable Development, in cui sono presenti tutti i più grandi inquinatori del pianeta. Il secondo è il miliardario canadese del petrolio Maurice Strong, organizzatore della Conferenza di Rio sull’ambiente del 1992. Due veri ecologisti: uno dedito all’amianto e l’altro al petrolio. Il terzo è Henry Kissinger, che ha rappresentato gli industriali statunitensi all’indomani della Conferenza di Stoccolma del 1972. Erano gli anni del Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma e di una nuova sensibilità ecologica, al punto che il presidente della Commissione Europea, Sicco Mansholt, poneva l’accento sulla necessità di quella che lui definiva una crescita negativa (altra epoca: oggi la Commissione Europea è tra i più forti sostenitori della crescita infinita e del sistema della concorrenza sfrenata del modello ultraliberista). Il concetto che passò nel 1972 a livello di Commissione Europea – il ministro dell’economia francese Valéry Giscard d’Estaing disse che non sarebbe stato un obiettore della crescita – fu però quello di “un’altra crescita”, mentre a livello Onu si impose il concetto di ecosviluppo. Gli industriali statunitensi, tuttavia, trovavano l’espressione ancora troppo ecologista e allora Kissinger spinse per quella di sviluppo sostenibile.

Negli anni dopo la caduta del muro di Berlino, gli anni del trionfo della globalizzazione e del pensiero unico, tale espressione è diventata l’equivalente, a livello globale, del Tina (There is no alternative) di Margareth Thatcher: per l’umanità non c’è alternativa allo sviluppo sostenibile. Una promessa in grado di soddisfare tutti.

Abbiamo compreso allora la necessità di contrastare questo slogan presentando un’alternativa. Non poteva più essere il socialismo, screditato dall’esperienza dell’Unione Sovietica e privo di una reale dimensione ecologica, essendo ancora un progetto produttivista figlio dell’idea dell’illimitatezza propria della modernità. Avrebbe senso semmai parlare di ecosocialismo.

Abbiamo dunque concepito questo progetto, da me sintetizzato nella forma delle 8 “R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riusare, Riciclare. Un progetto che segna una rottura rispetto all’attuale concezione, indicando la necessità di uscire allo stesso tempo dal sistema economico e dal sistema mentale della società dei consumi, a partire da un cambiamento dei valori – Rivalutare -, fino al cambiamento dei rapporti di produzione e di distribuzione. Il progetto delle 8 “R” non è un programma politico, rappresenta un’altra concezione. Non è un progetto alternativo, è una matrice di alternative. Perché non si uscirà dal mondo a una dimensione della globalizzazione per entrare in un altro mondo dominato anch’esso dal pensiero unico. Una volta liberati dall’imperialismo dell’economia sulla nostra vita, si dovrà ricreare la diversità: la decrescita non verrà realizzata nel medesimo modo in Chiapas e in Texas. Per costruire un futuro sostenibile, si impone un cambiamento nel rapporto con la natura, nei rapporti di produzione, nei rapporti di distribuzione, ma spetta a ogni società elaborare il suo progetto specifico.

Ora la sfida più importante è come uscire da questo incubo dell’austerità. Ci sono proposte di buoni economisti neokeynesiani, come Paul Krugman o Joseph Stiglitz, ma tutti mirano a uscire dall’austerità per rilanciare la crescita. Noi, invece, vogliamo uscire dall’austerità per intraprendere un percorso di alternative per un’altra società. Sono stato invitato dai deputati verdi greci a Bruxelles a parlare di decrescita. L’avevo fatto anche con Tsipras prima che diventasse primo ministro: purtroppo ha poi pensato di potersela cavare senza cambiare strada, senza fare una rivoluzione. Neppure Hollande, del resto, ha fatto nulla di ciò che aveva promesso. Il fatto è che nell’attuale sistema non si può fare a meno di operare una rottura iniziale.

Per risolvere il primo problema, quello della disoccupazione, le strade da percorrere sono: rilocalizzare, riconvertire, ridurre. Il termine rilocalizzare significa de-mondializzare, rilanciare a livello locale una vita economica, sociale, politica, culturale. La globalizzazione è stata un gioco al massacro su scala planetaria. In realtà il mondo è globalizzato da quando gli amerindiani hanno scoperto Cristoforo Colombo. Quel che c’è stato di nuovo non è stata la mondializzazione dei mercati, ma la mercificazione del mondo. Questa è la verità della globalizzazione. La concorrenza, parola d’ordine dell’Unione Europea, è stata già sintetizzata due secoli fa nell’espressione “libera volpe in libero pollaio”. È una truffa. Per prima cosa, bisogna interrompere la distruzione del tessuto industriale. La libera volpe europea ha distrutto i contadini cinesi e la libera volpe cinese distrugge il nostro tessuto industriale. Va dunque fermato questo gioco al massacro globale per creare nuovi posti di lavoro.

Passando al termine riconvertire, è vero che si possono utilizzare “energie della disperazione” come il gas di scisto o l’energia nucleare, ma non si potrà comunque produrre energia in maniera indefinita. Serve una riconversione verso l’energia rinnovabile, la quale, se consente di vivere bene, non permette però di crescere all’infinito, né di portare avanti l’attuale società dello spreco, dove il 40 per cento del cibo prodotto viene gettato via, senza contare tutto ciò che comporta l’obsolescenza programmata: ogni mese partono dagli Stati Uniti ottocento navi pieni di computer, cellulari ecc., costruiti con minerali preziosi per i quali le transnazionali scatenano guerre in Africa e che vanno a inquinare le falde freatiche della Nigeria o del Ghana, dove poi vengono scaricati selvaggiamente i rifiuti, i cui fumi tossici vengono respirati dai bambini e dalle bambine che cercano di recuperare i materiali. Un incubo totale.

Riconvertire l’energia, dunque. E riconvertire l’agricoltura. Diceva l’ex responsabile della Fao Olivier De Schutter: «Non sono sicuro – in realtà lui lo era – che l’agricoltura biologica possa nutrire 12 miliardi di persone alla fine del secolo, ma sono sicuro che l’agricoltura produttivista non potrà farlo», in quanto basata sul petrolio. Pensiamo solo che un chilo di bistecca corrisponde a sei litri di petrolio, e il petrolio non ci sarà più. Che ogni anno trasformiamo 16-17 milioni di ettari in deserto, in quanto i pesticidi sono biocidi, distruggono tutto ciò che fa vivere il suolo. Che distruggiamo ogni anno 16 milioni di ettari di foreste per far posto alla soia, all’olio di palma, ecc., e presto non vi saranno più alberi da distruggere. Quello che serve è un’agricoltura senza pesticidi e senza concimi chimici: non un ritorno al passato, ma la creazione di una nuova agricoltura che necessiterà almeno del 10 per cento della popolazione attiva, anziché, come oggi, di meno del 3 per cento.

Infine ridurre, cominciando dagli orari di lavoro. Quando i socialisti conservavano ancora qualcosa di socialista, dicevano: lavorare meno, lavorare tutti. Lo slogan dell’ex presidente francese, “lavorare di più per guadagnare di più”, era un’assurdità, perché, in base alla legge della domanda e dell’offerta, se si lavora di più, aumenta l’offerta, ma, poiché la domanda resta più bassa, il risultato è il calo del prezzo del lavoro, che è lo stipendio. Allora lavorare sempre più significa guadagnare sempre meno ed è proprio questo che si è verificato negli ultimi anni. Si lavora sempre di più e gli stipendi sono sempre più bassi. Invece, lavorare meno per lavorare tutti e soprattutto per vivere meglio. Dunque, riduzione drastica degli orari di lavoro fino alla piena occupazione; questo è un primo passo nel sentiero della decrescita. Ritrovare il senso della vita, che non è solo lavoro, perché, come sapevano i nostri antenati, la vita contemplativa – giocare, pensare, pregare, meditare, sognare – è più importante della vita attiva. È così che si cammina verso la società della decrescita, o dell’abbondanza frugale, che sembra un ossimoro ma non lo è. In realtà, quella in cui viviamo è una società dello spreco, della scarsità e della frustrazione, in cui i beni fondamentali, il cibo sano, un’aria pulita, un’acqua non contaminata, quasi non esistono più. Una società felice consuma poco, per indurre a consumare bisogna creare insoddisfazione. Una società può conoscere l’abbondanza solo se sappiamo mettere dei limiti ai nostri desideri e questa autolimitazione si chiama frugalità, conditio sine qua non dell’abbondanza.

Questo progetto costituisce una soluzione alla crisi sociale, alla crisi ecologica, alla crisi economica e alla crisi culturale. E allora o intraprendiamo questa strada della decrescita, dell’ecosocialismo democratico, dell’abbondanza frugale, o siamo condannati a un’altra forma di barbarie.

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Intervento pronunciato da Latouche al Cantiere del Cipax, tratto da una registrazione e non rivisto dall’autore, pubblicato da Adista.

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Da: Comune-info

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Approfondimento

Serge Latouche

Decrescita

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Accordo USA-UE: integrale liberalizzazione dei rispettivi mercati (TTIP). La catastrofe dietro l’angolo.

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La TTIP, ovvero come si prepara la guerra globale

di Mimmo Porcaro

La Transatlantic Trade and Investment Partnership (meglio nota col brutto acronimo di TTIP), ossia l’accordo Usa-Ue per l’integrale liberalizzazione dei loro rispettivi mercati, è un importante punto di svolta (o, se si vuole, di accelerazione) nella storia sociale dell’Europa e quindi dell’Italia. E ciò per due ordini di motivi.

Prima di tutto perché l’accordo mira all’eliminazione delle barriere commerciali non tariffarie, ossia di tutte quelle norme di tutela ambientale, sanitaria e sociale che limitando il libero traffico dei prodotti nocivi, delle informazioni riservate e dei servizi equivalgono, secondo l’Economist, a dazi multipli rispetto a quelli attuali e, secondo noi, alla tenuta di un minimo di civiltà nella gestione dell’economia europea. Una volta conclusi i negoziati, la TTIP renderà più “accettabili” gli OGM e le emissioni inquinanti, sfalderà la tutela delle filiere agroalimentari (con grave danno per le produzioni italiane), ingloberà le nostre vite nei computer della CIA, limiterà seriamente il raggio d’azione delle imprese pubbliche, e quindi di ogni politica industriale. E molto probabilmente condurrà alla privatizzazione integrale dei servizi pubblici. In ogni caso la TTIP accentuerà, come tutti i processi di libero scambio, la concentrazione della potenza produttiva e tecnologica nei poli dominanti, la divaricazione fra nazioni dentro l’Unione Europea, e l’uso di questa divaricazione per approfondire le differenze di classe: ossia quello che è da tempo il “core business” dell’ Unione stessa. Tutto ciò renderà scarsamente rilevanti per le classi e per i Paesi deboli gli incrementi del PIL che (anche se non nella misura strombazzata dai gazzettieri pro-market) deriveranno dall’attuazione della TTIP: perché questi incrementi avverranno nel contesto di un peggioramento dei rapporti sociali e geopolitici e delle condizioni della stessa politica “spicciola”. Infatti chi proverà a contrastare questo andazzo verrà rimandato non solo da Roma a Bruxelles, ma anche da Bruxelles a Washington: con tanti saluti all’ Europa “sociale”.

Ma c’è di più: dopo il trattato di partnership transpacifica, che tenta di costruire una zona di libero mercato tra quasi tutti i Paesi dell’area, Cina esclusa, la TTIP è la seconda mossa della strategia di accerchiamento (oggi economico, domani militare) della Cina e dei Brics da parte degli Usa. Essa infatti sancisce la fine della globalizzazione perché registra il fallimento dei trattati multilaterali e punta sui trattati bilaterali, ossia sulla costruzione di poli economici ad egemonia occidentale che mentre liberalizzano gli scambi al proprio interno, ostacolano i flussi provenienti dall’esterno, ossia dai Brics. E perché, unita al rimpatrio di molti capitali ed alle continue svalutazioni competitive, riporta al centro della scena il conflitto tra poli economico-politici, mandando definitivamente in archivio, tra l’altro, la possibilità della “globalizzazione dal basso”. Quando scriveva che “non si fa una guerra senza acronimi” il grande romanziere Don De Lillo non pensava certo alla futura TTIP, ma noi siamo tenuti a capire che quest’ultimo acronimo è il primo passo di una guerra economica che tenderà a trasformarsi in un conflitto militare.

Come reagire a questa prospettiva? A mio parere bisogna schierarsi decisamente contro la costruzione di un polo anti-Brics, puntare ad un Europa che sia almeno “terza forza” tra Usa e Brics, e non agente dei primi, unire le esigenze di sopravvivenza dei Paesi e delle classi deboli d’Europa alle esigenze generali della pace e della gestione razionale dei conflitti. Ma per farlo bisogna capire che un’Europa di pace nasce solo sulle ceneri dell’attuale Unione Europea, che quest’ultima è un vettore decisivo della TTIP e che non si può combattere contro questa accentuazione del neoliberismo se non si disarticola (come da tempo ci chiede Samir Amin) il sistema di potere di Bruxelles e Francoforte, iniziando col rivendicare la sovranità nazionale e costruendo, su questa base, una nuova Europa confederale. Questo è il punto decisivo del momento, e rispetto ad esso la stessa sacrosanta battaglia contro l’Euro appare come una questione tattica, di notevole importanza ma non certo risolutiva.
Come affrontare tutto ciò è questione aperta, che può essere affrontata solo da una libera ed ampia discussione collettiva. Ma il presupposto di tale discussione è il riconoscere che la rottura dell’Unione Europea è il nostro problema storico: se non lo si affronta rischia di essere inutile tutta la discussione intorno al nuovo soggetto politico di sinistra e comunista: nella misera periferia italiana della zona transatlantica di libero scambio (ma forse nell’intera Europa) la politica diventerebbe inutile, e la costruzione di un partito equivarrebbe più o meno alla creazione di un meritorio ma innocuo movimento d’opinione.

P.S. Dimenticavo: i negoziati della TTIP dovrebbero concludersi nel novembre 2014. Per bene che ci vada, il tutto inizierà a marciare a metà del 2015, ossia dopodomani. Che si fa?

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Fonte: Controlacrisi

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Neoliberismo: l’inizio della fine

Nella recensione del libro di Noam Chomsky del 1999 –  ” Sulla pelle viva. Mercato globale o movimento globale?” – vengono anticipate tutte le atrocità del neoliberismo che, negli anni, porteranno poi il nostro pianeta ad una lenta agonia.   (madu)

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Noam Chomsky

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Chomsky: la brutalità del neoliberismo

mercato globale o movimento globale?

“Il neoliberismo è il paradigma economico-politico che definisce il nostro tempo: indica l’insieme delle politiche e dei processi che consentono a un gruppo relativamente ristretto di interessi privati di controllare il più possibile la vita sociale allo scopo di massimizzare i propri profitti”.
   Sono parole di Robert W. McChesney dall’introduzione al volume “Sulla pelle viva. Mercato globale o movimento globale?” di Noam Chomsky (Marco Tropea Editore, ottobre 1999, 224 pagine, 28 mila lire). Nel volume Chomsky analizza il neoliberismo, pone in luce le distorsioni dell’interpretazione della stessa dottrina liberale classica che caratterizzano teoria e prassi degli alfieri postmoderni della deregulation, denuncia lo storico dominio americano (spesso reso possibile, al contrario, proprio da generosi contributi pubblici alel industrie nazionali) e il disegno della Organizzazione mondiale del commercio (vedi Seattle) come longa manus di questo grande imperialismo globale che crea nuove povertà in termini di vita umana e di ambiente naturale tanto al Sud quanto al Nord del mondo.

   Il problema è che anche le cosiddette forze della sinistra di governo, anche la più “tradizionale”, quella europe, sembrano rassegnarsi all’ineluttibilità della ricetta liberista, sia pure, in qualche caso, con correttivi che la rendano un po’ più digeribile, giusto per evitare incazzature globali (e qui dopo Seattle molti si saranno resi conto di muoversi già sul filo del rasoio…).
   Scrive ancora McChesney: “Inizialmente associato a Reagan e alla Thatcher, negli ultimi due decenni il neoliberismo è stato il credo economico-politico dominante a livello globale, adottato non solo dai partiti politici di centro e di destra, ma anche da buona parte della sinistra tradizionale. Questi partiti e le politiche adottate rappresentano gli interessi diretti di investitori estremamente ricchi e di meno di un migliaio di grandi imprese”.

   Come si è detto, al centro dell’analisi di Chomsky ci sono il ruolo storico degli Stati Uniti nell’informare secondo un modello funzionale ai propri interessi politici ed economici l’intero equilibrio dei rapporti mondiali (e qui ci sia permesso dire due parole a tutti quei pensatori, intellettuali, giornalisti o quant’altri “liblab” che ad ogni accusa rivolta agli Stati Uniti – sia perché bombardano la gente o perché massacrano indirettamente le vite di milioni di lavoratori – rispondono con una alzata di scudi e parlano di veteroantiamericanismo: per favore, la morte e lo sfruttamento non sono ideologie, sono fatti; tragici fatti). Ma come mai il liberismo ha conquistato questa posizione dominante nel mercato delle idee? Per il fallimento del comunismo sovietico, certo. Ma proviamo a sentire di nuovo McChesney: “Il grande sforzo finanziario compiuto nell’ultimo ventennio dalle imprese sul terreno delle pubbliche ha conferito a questo termine e a queste idee un’aura pressoché sacrale. Il risultato di tale impegno è che le tesi avanzate dai teorici di queste posizioni non vengono nemmeno più difese, e sono invocate a sostegno di ogni forma di razionalizzazione: dall’attenuazione della pressione fiscale sui ricchi, all’abolizione delle norme di tutela dell’ambiente, allo smantellamento della scuola pubblica e dello stato sociale”.

   A proposito di Chomsky, McChesney osserva: “In tutti questi anni C>homsky, che può considerarsi un anarchico o forse, più correttamente, un socialista libertario, è stato un critico franco e coerente degli stati e dei partiti comunisti e leninisti, a cui ha sempre mosso un’opposizione di principio. Ha insegnato a un gran numero di persone – compreso chi scrive – che la democrazia è il caposaldo irrinunciabile di ogni società postcapitalistica in cui abbia senso vivere e per cui valga la pena di lottare. Nello stesso tempo, ha dimostrato quanto sia assurdo identificare capitalismo e democrazia o pensare che le società capitalistiche, anche nelle circostanze migliori, accetteranno mai di consentire alla gente l’accesso all’informazione e la partecipazione al processo decisionale al di là di spazi angusti e accuratamente controllati. Nessuno, credo, a parte George Orwell, è stato efficace come Chomsky nel denunciare sistematicamente l’ipocrisia di governanti e ideologi, comunisti non meno che capitalisti, quando celebrano la propria forma di governo come l’unica democrazia autentica e possibile per l’umanità”.
   Infatti, uno dei messaggi di Noam Chomsky in questo volume che vale davvero la pena di leggere è che proprio la manipolazione delle coscienze, il gioco della distorsione dell’informazione, determina le condizioni ideali per il dominio sulla società da sfruttare. Chomsky, per esempio, a proposito di neoliberismo, dimostra che stati e governi – tanto vituperati dai fautori del liberissimo mercato – sono sostegni fondamentali per il sistema capitalistico al quale servono per la difesa degli interessi delle grandi imprese (sotto forma di sovvenzioni, fisco eccetera) e sempre meno per tutelare i singoli cittadini, soprattutto i più deboli.

   Leggere Chomsky significa rendersi conto del funzionamento dei meccanismo complessi (ma frutto di un preciso disegno politico-economico) che determinano il mercato dello sfruttamento globale. “I princìpi fondamentali del liberalismo classico trovano la loro naturale espressione moderna non nel dogma neoliberista, ma nei movimenti indipendenti dei lavoratori, nonché nelle idee e nell’azione di quel socialismo libertario espresso talvolta anche da grandi esponenti del pensiero del Novecento, come Bertrand Russel e John Dewey”, scrive Chomsky invitandoci a guardare oltre il confine che qualcuno vuole imporre al nostro immaginario.

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Fonte:  NonLuoghi


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