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La sesta estinzione di massa ed il progetto delle 8 “R”

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"Art" by Tiago Hoisel - (Surreal Capitalism)

“Art” by Tiago Hoisel – (Surreal Capitalism)

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Diventare atei della crescita

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L’essenza della domanda posta nel titolo del mio intervento* – “Crescita, Recessione, Decrescita, un cerchio che si chiude?” – può essere tradotta, in termini shakespeariani, come: crescere o non crescere? Una domanda che ne implica un’altra: credere o non credere? Perché, come ha spiegato bene papa Francesco, la crescita è diventata la religione del nostro tempo e noi dobbiamo diventare atei della crescita. Ma, a differenza di papa Francesco, nessun responsabile politico o economico l’ha compreso (o almeno fa finta di non averlo compreso).

Nel 2002, al convegno dei metereologi statunitensi a Silver Spring, Bush dichiarò che la crescita genera posti di lavoro, risorse pubbliche, benessere sociale, pace e anche le risorse per provvedere all’ambiente: «La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema». E se da Bush non ci si poteva aspettare altro, in realtà tutti, compreso Matteo Renzi, dicono la stessa cosa. Alla Conferenza del clima di Parigi, lo scorso dicembre, la parola proibita era “decrescita”. Quello che si doveva dire era che la battaglia contro il cambiamento climatico costituiva l’opportunità per una nuova crescita. Una crescita verde: un bell’ossimoro.

In questo quadro, non basta essere economisti; bisogna anche essere filosofi. E io partirei dall’osservazione di uno dei più grandi filosofi del nostro tempo, Woody Allen:

«Siamo arrivati all’incrocio di due strade: una porta alla scomparsa della specie, l’altra alla disperazione totale. Spero che l’umanità faccia la scelta giusta».

Sembra che il dilemma sia proprio questo.

La prima strada è quella di una società della crescita con crescita, quella su cui abbiamo camminato da due-tre secoli e soprattutto a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. È la strada che conduce a quella che gli scienziati hanno definito come sesta estinzione di massa. Rispetto alla quinta, quella dei dinosauri, risalente a sessantacinque milioni di anni fa, questa sesta estinzione presenta alcuni tratti specifici: si svolge a un’altissima velocità (ogni giorno spariscono tra le cinquanta e le duecento specie); è determinata dall’attività umana e potrebbe riguardare lo stesso essere umano.

La seconda strada, quella che conduce alla disperazione, è quella di una società della crescita senza crescita, una società in recessione. Sappiamo quale tragedia rappresenti. Ma non sono venuto qui per dire che la nostra unica scelta è tra la peste e il colera, tra la disperazione e l’estinzione. C’è, in realtà, una terza via, un piccolo sentiero che Woody Allen non ha visto e di cui pochi si sono accorti: la via della decrescita. La via dell‘uscita dal paradigma della società della crescita. Ma per capire in cosa consiste questo cammino bisogna prima analizzare e denunciare le illusioni della crescita. Un compito tutt’altro che facile, perché nessun argomento, per quanto razionale sia, può convincere qualcuno che ha fede, che ha fede nella crescita.

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COS’È LA CRESCITA?

Si pensa alla crescita, in primo luogo, come a un fenomeno biologico. E in effetti i termini “crescita” e “sviluppo” vengono dalla biologia, soprattutto evoluzionista. La crescita è la trasformazione quantitativa di un organismo nel tempo. Tutti gli organismi crescono e, nello stesso tempo in cui crescono, si trasformano. Un seme non diventa un seme gigantesco, diventa una pianta. E questo è lo sviluppo. Lo sviluppo è la trasformazione qualitativa di un fenomeno quantitativo. Lo sviluppo non è la crescita, ma non esiste uno sviluppo senza crescita. La crescita è la base dello sviluppo.

Quando gli economisti hanno preso in prestito questa metafora della crescita e dello sviluppo, si sono dimenticati però di due o tre cose. In primo luogo, l’economia non è un organismo. Si può pensare alla società umana nel suo rapporto con l’ambiente come a un organismo, come ha fatto il grande biologo britannico James Lovelock con l’ipotesi Gaia, ma l’economia può rappresentarne solo una parte. Anche i filosofi avevano pensato alle civiltà come a organismi, basti pensare a Giambattista Vico, secondo cui, proprio come gli organismi, le civiltà nascono, crescono si sviluppano e poi declinano e muoiono. L’economia non è un organismo, ma, se anche lo fosse, gli economisti si sono dimenticati che dovrebbe infine morire, postulando, al contrario, una crescita infinita. E poi gli organismi vivono con l’ambiente in un rapporto di dipendenza reciproca. Mentre gli economisti pensano che sia possibile trarre dalla natura tutte le materie prime e scaricarvi tutti i rifiuti, senza alcuna interdipendenza. Pensano di poter sfruttare senza limiti la natura come fonte di materie prime e come pattumiera.

La crescita economica, quindi, non ha niente a che vedere con la crescita degli organismi. E l’economia, come parte dell’organismo globale, deve obbedire alle leggi della biologia e prima ancora della fisica, e in particolare della termodinamica, e ancora più in particolare della seconda legge della termodinamica, quella dell’entropia, in base a cui sappiamo bene che, una volta che abbiamo bruciato i trenta litri della benzina nel serbatoio, questi litri non saranno più disponibili. Come spiega Richard Heinberg nel libro La festa è finita, la crescita è nata con i pozzi di petrolio e finirà con essi.

Che la crescita infinita in un pianeta finito sia un’assurdità dovrebbero capirlo tutti. Come diceva il grande Groucho Marx, lo capirebbe anche un bambino di cinque anni. I nostri responsabili, però, non lo capiscono. Con un tasso di crescita del 2 per cento l’anno, prolungato per un periodo di tempo di duemila anni, il Pil risulterebbe moltiplicato di 160 milioni di miliardi. Chiunque capirebbe che è impossibile far crescere il Pil di 160 milioni di miliardi. Che è impossibile far crescere di questa cifra il numero delle automobili, per esempio. Eppure, la società della crescita è basata proprio sull’assurdità di questa illimitatezza.

L’economia capitalistica, l’economia di mercato, è basata su una triplice illimitatezza: l’illimitatezza della produzione, cioè dello sfruttamento delle risorse naturali, rinnovabili e non rinnovabili; l’illimitatezza del consumo, che comporta la creazione di un numero sempre più alto di bisogni artificiali (perché, se si produce sempre di più, si deve anche consumare sempre di più); e, di conseguenza, l’illimitatezza dei rifiuti, cioè dell’inquinamento dell’aria, sempre più irrespirabile, dell’acqua, sempre meno potabile, dei mari, sempre più invasi da continenti di plastica, della terra, sempre più avvelenata e desertificata. E queste illimitatezze, soprattutto quella del consumo, funzionano in base ad alcune molle, la prima delle quali è la pubblicità, la cui funzione è renderci insoddisfatti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. Cosicché viviamo non nella società dell’abbondanza, ma in quella della frustrazione, quella in cui dobbiamo sentirci sempre frustrati e infelici per poter avere desideri da soddisfare e dunque per consumare sempre di più. La seconda molla è il credito: poiché non tutti possono soddisfare i loro desideri artificiali, quelle istituzioni filantropiche conosciute come banche sono disposte a concedere crediti. Se poi non bastano né la pubblicità né il credito c’è comunque l’obsolescenza programmata: la durata di vita dei nostri prodotti è sempre più breve, così da costringerci ad acquistarne di nuovi. La pubblicità crea un’obsolescenza psicologica, mentre la tecnica crea un’obsolescenza reale.

Quando si registra una crescita forte come quella registrata durante il trentennio d’oro, si assiste alla distruzione dell’ambiente e di parti della società, soprattutto nel Sud del mondo, ma anche alla creazione di posti di lavoro, di risorse pubbliche per finanziare l’educazione, la sanità, la cultura. Ma una società della crescita senza crescita conosce solo disoccupazione e tagli alle spese sociali.

La società della crescita con crescita è finita, ma il mito della crescita continua a operare impedendo di uscire dalla trappola di questo sistema e spingendoci nell’incubo di una società della crescita senza crescita. È per questo che bisogna costruirne una nuova: si tratta di una rivoluzione, perlomeno a livello di immaginario. Si deve decolonizzare l’immaginario dell’economicismo, superare la fede nella crescita dell’economia. E questo è il progetto della decrescita.

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COS’È LA DECRESCITA?

Prima di tutto, è uno slogan – con la funzione provocatrice propria degli slogan – che permette di capire quale assurdità rappresenti una crescita infinita in un pianeta finito. Uno slogan dietro cui c’è il concetto di una società alternativa, non basata sulla crescita infinita e sul consumo infinito. Il progetto della decrescita è quello, per dirla con le parole del collega inglese Tim Jackson, di una società di prosperità senza crescita, che è il titolo di un suo libro di alcuni anni fa, o quello, come dico io, di una società di abbondanza frugale.

Perché abbiamo lanciato questo slogan della decrescita? Lo abbiamo utilizzato per contrastarne un altro, quello mistificatorio dello sviluppo sostenibile. Un ossimoro: lo sviluppo non può essere sostenibile perché presuppone la crescita. Ed è un modo per prolungare il mito della crescita.

Il concetto di sviluppo sostenibile è legato a tre criminali dal colletto bianco, il più noto dei quali è l’imprenditore elvetico Stephan Schmidheiny, condannato dalla Corte di Appello di Torino nel processo Eternit, ma allo stesso tempo grande promotore del concetto di sviluppo sostenibile e fondatore del World Business Council for Sustainable Development, in cui sono presenti tutti i più grandi inquinatori del pianeta. Il secondo è il miliardario canadese del petrolio Maurice Strong, organizzatore della Conferenza di Rio sull’ambiente del 1992. Due veri ecologisti: uno dedito all’amianto e l’altro al petrolio. Il terzo è Henry Kissinger, che ha rappresentato gli industriali statunitensi all’indomani della Conferenza di Stoccolma del 1972. Erano gli anni del Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma e di una nuova sensibilità ecologica, al punto che il presidente della Commissione Europea, Sicco Mansholt, poneva l’accento sulla necessità di quella che lui definiva una crescita negativa (altra epoca: oggi la Commissione Europea è tra i più forti sostenitori della crescita infinita e del sistema della concorrenza sfrenata del modello ultraliberista). Il concetto che passò nel 1972 a livello di Commissione Europea – il ministro dell’economia francese Valéry Giscard d’Estaing disse che non sarebbe stato un obiettore della crescita – fu però quello di “un’altra crescita”, mentre a livello Onu si impose il concetto di ecosviluppo. Gli industriali statunitensi, tuttavia, trovavano l’espressione ancora troppo ecologista e allora Kissinger spinse per quella di sviluppo sostenibile.

Negli anni dopo la caduta del muro di Berlino, gli anni del trionfo della globalizzazione e del pensiero unico, tale espressione è diventata l’equivalente, a livello globale, del Tina (There is no alternative) di Margareth Thatcher: per l’umanità non c’è alternativa allo sviluppo sostenibile. Una promessa in grado di soddisfare tutti.

Abbiamo compreso allora la necessità di contrastare questo slogan presentando un’alternativa. Non poteva più essere il socialismo, screditato dall’esperienza dell’Unione Sovietica e privo di una reale dimensione ecologica, essendo ancora un progetto produttivista figlio dell’idea dell’illimitatezza propria della modernità. Avrebbe senso semmai parlare di ecosocialismo.

Abbiamo dunque concepito questo progetto, da me sintetizzato nella forma delle 8 “R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riusare, Riciclare. Un progetto che segna una rottura rispetto all’attuale concezione, indicando la necessità di uscire allo stesso tempo dal sistema economico e dal sistema mentale della società dei consumi, a partire da un cambiamento dei valori – Rivalutare -, fino al cambiamento dei rapporti di produzione e di distribuzione. Il progetto delle 8 “R” non è un programma politico, rappresenta un’altra concezione. Non è un progetto alternativo, è una matrice di alternative. Perché non si uscirà dal mondo a una dimensione della globalizzazione per entrare in un altro mondo dominato anch’esso dal pensiero unico. Una volta liberati dall’imperialismo dell’economia sulla nostra vita, si dovrà ricreare la diversità: la decrescita non verrà realizzata nel medesimo modo in Chiapas e in Texas. Per costruire un futuro sostenibile, si impone un cambiamento nel rapporto con la natura, nei rapporti di produzione, nei rapporti di distribuzione, ma spetta a ogni società elaborare il suo progetto specifico.

Ora la sfida più importante è come uscire da questo incubo dell’austerità. Ci sono proposte di buoni economisti neokeynesiani, come Paul Krugman o Joseph Stiglitz, ma tutti mirano a uscire dall’austerità per rilanciare la crescita. Noi, invece, vogliamo uscire dall’austerità per intraprendere un percorso di alternative per un’altra società. Sono stato invitato dai deputati verdi greci a Bruxelles a parlare di decrescita. L’avevo fatto anche con Tsipras prima che diventasse primo ministro: purtroppo ha poi pensato di potersela cavare senza cambiare strada, senza fare una rivoluzione. Neppure Hollande, del resto, ha fatto nulla di ciò che aveva promesso. Il fatto è che nell’attuale sistema non si può fare a meno di operare una rottura iniziale.

Per risolvere il primo problema, quello della disoccupazione, le strade da percorrere sono: rilocalizzare, riconvertire, ridurre. Il termine rilocalizzare significa de-mondializzare, rilanciare a livello locale una vita economica, sociale, politica, culturale. La globalizzazione è stata un gioco al massacro su scala planetaria. In realtà il mondo è globalizzato da quando gli amerindiani hanno scoperto Cristoforo Colombo. Quel che c’è stato di nuovo non è stata la mondializzazione dei mercati, ma la mercificazione del mondo. Questa è la verità della globalizzazione. La concorrenza, parola d’ordine dell’Unione Europea, è stata già sintetizzata due secoli fa nell’espressione “libera volpe in libero pollaio”. È una truffa. Per prima cosa, bisogna interrompere la distruzione del tessuto industriale. La libera volpe europea ha distrutto i contadini cinesi e la libera volpe cinese distrugge il nostro tessuto industriale. Va dunque fermato questo gioco al massacro globale per creare nuovi posti di lavoro.

Passando al termine riconvertire, è vero che si possono utilizzare “energie della disperazione” come il gas di scisto o l’energia nucleare, ma non si potrà comunque produrre energia in maniera indefinita. Serve una riconversione verso l’energia rinnovabile, la quale, se consente di vivere bene, non permette però di crescere all’infinito, né di portare avanti l’attuale società dello spreco, dove il 40 per cento del cibo prodotto viene gettato via, senza contare tutto ciò che comporta l’obsolescenza programmata: ogni mese partono dagli Stati Uniti ottocento navi pieni di computer, cellulari ecc., costruiti con minerali preziosi per i quali le transnazionali scatenano guerre in Africa e che vanno a inquinare le falde freatiche della Nigeria o del Ghana, dove poi vengono scaricati selvaggiamente i rifiuti, i cui fumi tossici vengono respirati dai bambini e dalle bambine che cercano di recuperare i materiali. Un incubo totale.

Riconvertire l’energia, dunque. E riconvertire l’agricoltura. Diceva l’ex responsabile della Fao Olivier De Schutter: «Non sono sicuro – in realtà lui lo era – che l’agricoltura biologica possa nutrire 12 miliardi di persone alla fine del secolo, ma sono sicuro che l’agricoltura produttivista non potrà farlo», in quanto basata sul petrolio. Pensiamo solo che un chilo di bistecca corrisponde a sei litri di petrolio, e il petrolio non ci sarà più. Che ogni anno trasformiamo 16-17 milioni di ettari in deserto, in quanto i pesticidi sono biocidi, distruggono tutto ciò che fa vivere il suolo. Che distruggiamo ogni anno 16 milioni di ettari di foreste per far posto alla soia, all’olio di palma, ecc., e presto non vi saranno più alberi da distruggere. Quello che serve è un’agricoltura senza pesticidi e senza concimi chimici: non un ritorno al passato, ma la creazione di una nuova agricoltura che necessiterà almeno del 10 per cento della popolazione attiva, anziché, come oggi, di meno del 3 per cento.

Infine ridurre, cominciando dagli orari di lavoro. Quando i socialisti conservavano ancora qualcosa di socialista, dicevano: lavorare meno, lavorare tutti. Lo slogan dell’ex presidente francese, “lavorare di più per guadagnare di più”, era un’assurdità, perché, in base alla legge della domanda e dell’offerta, se si lavora di più, aumenta l’offerta, ma, poiché la domanda resta più bassa, il risultato è il calo del prezzo del lavoro, che è lo stipendio. Allora lavorare sempre più significa guadagnare sempre meno ed è proprio questo che si è verificato negli ultimi anni. Si lavora sempre di più e gli stipendi sono sempre più bassi. Invece, lavorare meno per lavorare tutti e soprattutto per vivere meglio. Dunque, riduzione drastica degli orari di lavoro fino alla piena occupazione; questo è un primo passo nel sentiero della decrescita. Ritrovare il senso della vita, che non è solo lavoro, perché, come sapevano i nostri antenati, la vita contemplativa – giocare, pensare, pregare, meditare, sognare – è più importante della vita attiva. È così che si cammina verso la società della decrescita, o dell’abbondanza frugale, che sembra un ossimoro ma non lo è. In realtà, quella in cui viviamo è una società dello spreco, della scarsità e della frustrazione, in cui i beni fondamentali, il cibo sano, un’aria pulita, un’acqua non contaminata, quasi non esistono più. Una società felice consuma poco, per indurre a consumare bisogna creare insoddisfazione. Una società può conoscere l’abbondanza solo se sappiamo mettere dei limiti ai nostri desideri e questa autolimitazione si chiama frugalità, conditio sine qua non dell’abbondanza.

Questo progetto costituisce una soluzione alla crisi sociale, alla crisi ecologica, alla crisi economica e alla crisi culturale. E allora o intraprendiamo questa strada della decrescita, dell’ecosocialismo democratico, dell’abbondanza frugale, o siamo condannati a un’altra forma di barbarie.

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Intervento pronunciato da Latouche al Cantiere del Cipax, tratto da una registrazione e non rivisto dall’autore, pubblicato da Adista.

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Da: Comune-info

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Approfondimento

Serge Latouche

Decrescita

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Franco Berrino: “Dal biologico al veganesimo, passando per la meditazione e la decrescita.”

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Franco-Berrino

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Franco Berrino, cibo e tumori: “la prevenzione è la decrescita”

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Dal biologico al veganesimo, passando per la meditazione e la decrescita. Una meravigliosa testimonianza di chi ha cambiato l’approccio allo studio sui tumori, concentrandosi sulla loro prevenzione. Vi proponiamo la nostra intervista al dottor Franco Berrino.

Alberto, nuovo agente di cambiamento, ha realizzato il suo sogno: incontrare il dottor Franco Berrino. Di certo molti di voi lo conosceranno già, magari grazie all’intervista fattagli qualche anno fa dalle Iene. Lo abbiamo intervistato, sorseggiando un tè presso una nota pasticceria di Torino.

“La cosa principale che ho fatto nella mia vita è stata lavorare all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, per ben quarant’anni”. Berrino si è concentrato, in particolare, sul capire come “cambiare l’alimentazione al fine di cambiare il nostro ambiente interno, in modo che le eventuali cellule tumorali non si riproducano”. Dopo vari anni di studio è giunto alla conclusione che modificando lo stile di vita è possibile ridurre l’incidenza delle patologie.

Il Codice europeo contro il cancro: pesce, latticini, carni rosse

Il Codice Europeo ha confermato le raccomandazioni del Fondo Mondiale per la ricerca sul cancro e, così come per il pesce, non si trovano al suo interno indicazioni sui latticini. “Io avrei voluto ci fossero”, in quanto negli studi da lui portati avanti negli anni, “si trova una protezione da pesce”. Vi sono delle ottime ricerche che dimostrano che “chi muore di meno è chi ha una dieta prevalentemente vegetale, ma con un po’ di pesce”.

Il pesce è diventato l’unica fonte di omega3 nella nostra alimentazione. “Gli omega3 sono molto importanti, sono grassi molto liquidi. L’olio di pesce è ancora più liquido degli oli vegetali”. Sono anche anti-infiammatori. Altri studi, tuttavia, non hanno trovato nessuna protezione da pesce e quindi non si è data nessuna raccomandazione. “Anche perché il pesce è molto inquinato, abbiamo avvelenato il mare”.

Passiamo così a parlare del ruolo assunto nelle diete occidentali da parte delle carni rosse. Gli chiedo se secondo lui il danno causato dalla loro assunzione sia dovuto anche al modo in cui, solitamente, alleviamo gli animali oggigiorno.

“È possibile, però il rischio di cancro da carni rosse è legato intrinsecamente alla loro natura”.
Il motivo è dato dalla ricchezza di ferro da un lato e la ricchezza di grassi saturi dall’altro. “Possiamo ribellarci al modo in cui vengono allevati gli animali per questioni etiche ma non tanto perché sia il modo di allevarli che li fa divenire nocivi”.

“Io non ho niente contro la carne, ogni tanto la mangio anch’io magari un paio di volte all’anno – prosegue il dottore dal tipico variopinto papillon – il problema è proprio la frequenza con cui noi mangiamo proteine animali; c’è questo mito delle proteine”.

Oggi i nostri bambini sono esageratamente nutriti, mangiano tre/quattro volte le proteine di cui hanno bisogno. A scuola gli si da proteine animali tutti i giorni: carni rosse, carni bianche, il formaggio, l’uovo, il pesce. “L’eccesso di proteine nelle diete è una delle principali cause dell’epidemia di obesità che c’è nella nostra popolazione”. Più proteine si mangiano, più è facile diventare obesi.

Diversa è la situazione per la produzione del latte. “Il latte di oggi è molto diverso da quello di una volta”. Una volta le mucche facevano 10 litri di latte quando mangiavano l’erba. “Adesso non si può più dare l’erba alle mucche, farebbero soltanto 10 litri di latte. Bisogna darle molte più proteine affinché riescano a produrre 40/50 litri di latte al giorno. Addirittura negli Stati Uniti ci sono degli allevamenti dove producono 100 litri di latte al giorno”.

Il biologico e il veganesimo

“Fidiamoci del biologico ma non fidiamoci dei supermercati del biologico, perché nei supermercati del biologico si vendono delle porcherie”. Si vende per esempio lo zucchero bianco e a velo biologico. “Che cos’è? Lo zucchero è una sostanza chimica pura. Fa male anche se è biologico”.

Gli chiedo cosa pensa di chi decide di intraprendere la strada del veganesimo. “È un bene da un lato, però bisogna stare attenti; bisogna essere colti per diventare vegani. Vi sono dei vegani che mangiano malissimo: bevande zuccherate, whisky, farine raffinate e così via. Vegano sì, ma con attenzione”.

L’importanza della salute psichica

“Vi sono sempre più dati che dimostrano quanto la nostra vita mentale e spirituale influenzi il rischio di ammalarsi”. Oggi con le nuove tecniche della biologia molecolare, si è stati in grado di dimostrare che “chi ha una pratica di meditazione modifica l’attività di certi geni”. Si può così spegnere l’attività dei geni che aumenta l’infiammazione.

“E allora dobbiamo tenere bassa l’infiammazione e possiamo farlo con il cibo, ma possiamo farlo anche con la nostra mente”. La meditazione o la preghiera, ad esempio, sono efficaci. Tipicamente molte pratiche di meditazione si basano sul concentrarsi e fare attenzione, mantenendo una consapevolezza del proprio respiro. Rallentando la respirazione, si attiva il nervo vago, così si modica il nostro sistema nervoso autonomo e si abbassa il livello di infiammazione. “Queste pratiche influenzano l’attivazione di quel che c’è scritto nei nostri geni, nel nostro DNA”.

La prevenzione è la decrescita

Le parole del professor Berrino sono chiare, semplici, efficaci ed anche spietate a riguardo. “Più ci ammaliamo, più aumenta il PIL, più aumenta il lavoro dei medici e delle case farmaceutiche”. Stiamo parlando di spese non produttive, considerate non utili per l’umanità. Così “oggi il successo della medicina è legato al fatto che è bene ammalarsi sempre di più”.

“Ammalarsi e non morire, perché questa è la cosa fantastica. La medicina ha avuto dei successi meravigliosi negli ultimi quaranta-cinquant’anni con delle evoluzioni tecnologiche fantastiche, diagnostiche, farmacologiche e terapeutiche. Però si è arrivati al punto che grossomodo il 90% della popolazione anziana, oltre i 65 anni, prende quotidianamente medicine”.

Nel caso del cancro, vi sono dei nuovi farmaci che sono molto efficaci e non riescono a guarire la malattia: la trasformano, la cronicizzano e tengono più a lungo in vita il paziente. “E questa è la gallina dalle uova d’oro! Un qualcosa che costi molto cara e che sia moderatamente efficace. Efficace per mantenere in vita ma non per guarire. Questo è il principio del business dell’industria farmaceutica oggigiorno”.

Continua così nel suo discorso, in un crescendo rossiniano in termini di efficacia e spunti di riflessione generati: “Dobbiamo invece renderci conto che possiamo benissimo decrescere; è sufficiente vivere in un modo diverso, mangiare in un modo diverso, fare più esercizio fisico, dare un po’ più spazio alla nostra vita mentale per non sviluppare la pressione alta, per non sviluppare il colesterolo alto, i trigliceridi alti, la glicemia alta”.

Passa così a rispondermi alla domanda sulla decrescita. Sono effettivamente impaziente di sapere qual è la sua opinione a riguardo. “La decrescita nel campo della sanità è la prevenzione. Eccome se possiamo decrescere! Siccome le istituzioni non hanno interesse per promuovere questa decrescita, dobbiamo farlo noi. E’ il piano B, dobbiamo occuparci noi della nostra prevenzione.

Tutti noi possiamo fare qualcosa, occorre diffondere la consapevolezza. La consapevolezza che c’è una via alternativa a morire per malattia, possiamo benissimo diventare vecchi e morire sani. Nessuno ci da la garanzia di non ammalarci, però si può ridurre moltissimo il rischio di ammalarsi”.

Ancora una volta trovo dimostrazione che il cambiamento, nelle sue eterogenee sfaccettature, porta con sé una radice comune. Da chi si occupa di alimentazione a chi si occupa di economia, da chi si occupa di agricoltura a chi lavora nella cultura: alla base v’è sempre una stessa linea, una stessa visione comune.

Oggi il dottor Franco Berrino è in pensione, e si occupa di diffondere le conoscenze che ha sviluppato nel corso degli anni. Per questo ha fondato l’associazione La grande Via, intesa come l’unione di tre percorsi: la via del cibo, la via del movimento come esercizio fisico e cambiamento delle nostre abitudini, e la via spirituale della meditazione.

“Sono tre strade con cui possiamo scrivere sui nostri geni, accendendoli o spegnendoli. Possiamo così scrivere il nostro destino di salute o di malattia”.

Ringraziamo così il dottore per tanti motivi: per averci messo a disposizione il suo tempo e le sue conoscenze, per la voglia che mette nel diffondere e donare al mondo quel che negli anni ha scoperto grazie alla sua determinazione e capacità. Gli siamo grati soprattutto per averci fatto capire quanto e in che modo sia possibile scrivere un’altra storia nei nostri geni, e così nella nostra vita. Cambiare si può, basta solo volerlo.

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Fonte: Italia che Cambia

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