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La lettera di Pupi Avati alla Rai: “Perché non approfittiamo… per provare a far crescere culturalmente il paese?

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E piango e rido davanti alla televisione come piangono e ridono i vecchi, che è poi come piangono e ridono i bambini, cercando di fare in modo che mia moglie non se ne accorga. Fra i tanti che se ne sono andati un mio amico, Bruno Longhi, grande clarinettista milanese, che il coronavirus ha portato via senza tener conto della sua bravura, di come suonava Memories of you, meglio di Benny Goodman.

E’ il primo periodo della mia vita in cui anziché abbracciare vorrei essere abbracciato. Mi manca persino quella specie di bacio notturno con il quale auguro la buonanotte a mia moglie e che lei giustamente mi ha vietato. Dormo di più la mattina, nel silenzio profondo, cimiteriale di una città morta, appartengo anagraficamente alla categoria di quelli più svelti a morire.

Ma in questo sterminato silenzio, che è sacro e misterioso e che ci fa comprendere la nostra pochezza, la nostra vigliaccheria, ci commuove la consapevolezza dei tanti che stanno mettendo a repentaglio le loro vite per salvarci.

E questo stesso silenzio sarebbe opportuno per i tanti che destituiti di ogni competenza specifica continuano a sproloquiare saltapicchiando da un programma all’altro privi di ogni pudore, di ogni senso del limite. Coloro che con tanta solerzia, con tanta supponenza, ci hanno accompagnato nel corso degli ultimi decenni appartengono al Prima del Coronavirus, quando era possibile il cazzeggio. Ora, se usciremo da questa esperienza, dovremo farne tesoro, dovremo trovare un senso a quello che è accaduto, soccorrendo le tante famiglie di chi ha pagato con la vita, aiutando a superare le difficoltà enormi, spesso insormontabili, nelle quali si troveranno i più, impegnandoci tutti a sostituire il dire con il fare, come accadde dopo la liberazione.

Quello che provo somiglia a quando al cinematografo negli anni cinquanta si rompeva la pellicola e accadeva che venivi scaraventato fuori da quella storia che era stata capace di sottrarti allo squallore del tuo quotidiano. Rottura accolta da un boato di delusione simultaneo all’accensione improvvisa di luci fastidiose. Me ne restavo seduto, stretto in me stesso, cercando di tenermi dentro il film, “ dimmi quando ricomincia“ dicevo a mia madre tenendo gli occhi chiusi e pregando perché quelli su in cabina si sbrigassero a riattaccare la pellicola. Perché fossi restituito al più presto a quel magico altrove. Ecco questo tempo che sto vivendo che non somiglia a niente, è un pezzo della mia vita che vivo con gli occhi chiusi, in attesa di poterli riaprire.

E quel mondo che si sta allontanando, che non tornerà più ad esserci, che non piaceva a nessuno, del quale tutti si lamentavano, eppure temo che di quel mondo proveremo una crescente nostalgia.

E allora mi chiedo perché in questo tempo sospeso, fra il reale e l’irreale, come in assenza di gravità, i media e soprattutto la televisione e soprattutto la Rai, in un momento in cui il Dio Mercato al quale dobbiamo la generale acquiescenza alll’Auditel, non approfitti di questa tregua sabbatica di settimane, di mesi, per sconvolgere totalmente i suoi palinsesti dando al paese l’opportunità di crescere culturalmente.

Perché non si sconvolgono i palinsesti programmando finalmente i grandi film, i grandi concerti di musica classica, di jazz, di pop, i documentari sulla vita e le opere dei grandi pittori, dei grandi scultori, dei grandi architetti, la lettura dei testi dei grandi scrittori, la prosa, la poesia, la danza, insomma perché non diamo la possibilità a milioni di utenti di scoprire che c’è altro, al di là dello sterile cicaleccio dei salotti frequentati da vip o dai soliti opinionisti.

Perché non proporre quel tipo di programmazione che fa rizzare i capelli ai pubblicitari! Perché non approfittiamo di questa così speciale opportunità per provare a far crescere culturalmente il paese stravolgendo davvero i vecchi parametri, contando sull’effetto terapeutico della bellezza? Il mio appello va al presidente, al direttore generale, al Consiglio di amministrazione della Rai affinché mettano mano a un progetto così ambizioso e tuttavia così economico.

Progetto che ci faccia trovare, quando in cabina finalmente saranno stati in grado di aggiustare la pellicola, migliori, più consapevoli di come eravamo quando all’improvviso si interruppe la proiezione. E potremo allora riaprire gli occhi.”

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Pupi Avati

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Approfondimento

Pupi Avati

Filmografia di Pupi Avati

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Violenza sulle donne – Una cultura sbagliata che il carcere non risolve.

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Lo stupro è un crimine, ma anche una cultura che non si cura in carcere

Violenza maschile. Le contraddittorie ricette di Sandra Newman che invita a semplificare: «Lo stupro è un crimine da punire. Punto». Ma aumentare le pene non cura la patologia

di Lea Melandri

«Perché gli uomini violentano? Semplice: perché pensano di farla franca. Basta con le giustificazioni sociali e psicologiche. Lo stupro è un crimine da punire. Punto».

Stando al titolo che D La Repubblica (30 /9/17) ha dato allo scritto di Sandra Newman – un’analisi peraltro articolata e contraddittoria -, verrebbe da rispondere che se le cose stessero davvero così, fermare gli stupratori sarebbe effettivamente semplice: aumento degli anni di detenzione e carcere a vita per i recidivi.

Ma, oltre alla discutibile riuscita del deterrente che viene indicato, bisogna aggiungere che si tratta anche di un titolo profondamente diseducativo rispetto alla convinzione, oggi più condivisa che in passato, che la violenza maschile contro le donne vada affrontata attraverso processi formativi fin dall’infanzia, sapendo quanto sono precoci i pregiudizi sessisti e razzisti derivanti dalla cultura che abbiamo ereditato da secoli di dominio maschile. Quando ci si pone il problema di “capire” che cosa spinge gli uomini allo stupro, il riferimento non sono solo le ragioni «sociali e psicologiche», ma il portato di una ideologia che è stata per secoli il fondamento della nostra come di altre civiltà: dalla cultura alta al senso comune.

È dentro questa cultura, che ha visto il potere maschile innestarsi e confondersi con le vicende più intime (la maternità, la sessualità, l’amore), che vanno “capiti” i comportamenti violenti dei singoli o dei gruppi, con tutto il carico di patologia, responsabilità e storia. Come spiegare altrimenti che molti uomini, anche giovani, intervistati, stando a quanto viene riportato nell’articolo, rispondono di non riuscire a «fare un collegamento tra sesso non consensuale e stupro», o il fatto che uno studente su quattro risponde che «è colpa del desiderio?». Non sarebbe forse il caso di cominciare a chiedersi che cosa è stato ed è ancora purtroppo, nell’immaginario e nelle convinzioni di tanti uomini –ma anche donne- quello che chiamiamo amore, desiderio, sessualità?

Una volta preso atto che la “natura” degli stupratori non mostra differenze significative, tanto da poter concludere che sono, come la maggior parte degli uomini «tendenzialmente, in parole povere, stronzi misogini», il discorso di Newman si sposta giustamente su convinzioni, pregiudizi, fantasie che sono alla base del pensare e del sentire comune, e quindi la ragione di cui gli stupratori si avvalgono per giustificare i loro crimini: “normale” usare la forza se la donna che ha accettato di uscire con te ti oppone un rifiuto, con quella che ha fama di essere “facile”, o che ha fatto l’autostop. La prima legittimazione alla violenza viene dunque dagli altri uomini, dall’approvazione o stigmatizzazione da parte di una comunità di simili. Negli stupri praticati dai soldati in guerra, sappiamo che l’incoraggiamento è venuto spesso dall’alto.

Ma, nonostante che questa visione di insieme delinei la complessità di un fenomeno con radici profonde nella storia del dominio maschile e nell’inconscio collettivo, Newman conclude che il principale deterrente è la condanna penale dei responsabili.

Fuorviante sarebbe ogni tentativo di vederlo come un problema diverso rispetto alla criminalità comune, o come un “mistero profondo” che rimandi alla psicologia, alla medicina o alla politica. Ora, è vero che lo stupro è prima di tutto l’esercizio di un potere brutale sul corpo della donna; più che di desiderio sessuale si deve parlare di sopraffazione, celebrazione della vittoria su un sesso considerato nemico o inferiore, da umiliare e sottomettere.

Ma è davvero così estraneo alla sessualità da poterlo collocare tra crimini come la rapina, gli incendi dolosi, ecc.? Come definire i rapporti sessuali nascosti dietro la sacralità del matrimonio e imposti dai mariti alle mogli senza il loro consenso e senza troppi riguardi per le gravidanze indesiderate? Come non riconoscere il tratto violento che c’è nella sessualità generativa e penetrativa dell’uomo legata, come è stato finora, non solo all’ansia di prestazione, ma al desiderio e contemporaneamente alla paura di un ritorno al potente ventre materno?

Parlare del coito come di una “vittoria sul trauma della nascita”, come fanno alcuni psicanalisti, vuol dire riconoscere nell’immaginario maschile la guerra mai dichiarata tra i sessi che ha preso forma intorno alla vicenda dell’origine, e che ha visto capovolgersi, nella storia che vi è andata sopra, un vissuto di dipendenza di inermità dell’uomo-figlio nell’appropriazione violenta del corpo materno.

La speranza di riuscire a prevenire gli stupri, come altre violenze manifeste o invisibili sulle donne, sta nel coraggio di affrontare il problema in tutte le sue ambiguità, da ciò che la memoria del corpo e la vita psichica trattengono delle esperienza primarie di ogni individuo, maschio o femmina, alle condizioni sociali e culturali in cui si trova a vivere. Testimonianze, scritture che parlano una lingua ‘spudorata’ nel dire verità dell’amore, della sessualità, delle fantasie , dei desideri e delle paure che restano generalmente “impresentabili”, sepolte nella vita dei singoli di un sesso e dell’altro, non mancano. Sono inquietanti, disturbanti, ma proprio per questo è importante vincere le resistenze e leggerle.

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Fonte: il manifesto

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Italia: la verità sulla spesa pubblica e la Pubblica Amministrazione

 

 

E’ vero che in Italia la spesa pubblica è altissima e che la Pubblica Amministrazione ha un pletora di dipendenti?

di Pio Russo Krauss – (Associazione Marco Mascagna)

E’ convinzione comune che in Italia la spesa pubblica è tra le più alte d’Europa e che nella pubblica amministrazione c’è una pletora di dipendenti. Siamo andati a vedere se questa convinzione è suffragata dai fatti o no.

In Italia la spesa pubblica è il 46,2% del PIL. Non siamo i primi, perché ci precedono la Finlandia 56,5%, la Francia 55,0%, la Danimarca 54,1, la Grecia 51,8, il Belgio 50,9, la Svezia 49,8, l’Austria 49,2 e l’Ungheria 46,5. Quindi siamo al 9° posto con una percentuale di poco superiore alla media UE (45%). Tra i settori in cui spendiamo meno c’è l’istruzione (7,9% del PIL, media UE 10,2) la cultura (1,4%, media UE 2,1%) e la Sanità (6,8%, media UE 7,2%). Nell’istruzione e cultura siamo il Paese che spende di meno nella UE [1].

La Pubblica Amministrazione nel corso degli anni ha subito una notevole riduzione del numero di dipendenti: dal 2007 al 2015 gli Enti Locali hanno perso 56.000 unità (da 516.000 a 460.000), la Scuola 53.000 unità (da 1.138.000 a 1.085.000), i Ministeri 31.000 unità (da 184.000 a 153.000), quello della Sanità 29.000 unità (da 682.000 a 653.000), l’Università 18.000 unità (da 117.000 a 99.000), la Polizia 11.000 persone (da 333.000 a 312.000) [2]. Tale notevole cura dimagrante è stata conseguita bloccando le assunzioni, per cui l’età media dei dipendenti è andata aumentando ogni anno di più e ora per i vari settori si colloca tra i 50 e i 55 anni [2]. Poiché con l’età la probabilità di avere acciacchi aumenta sempre più e questo processo è molto più precoce per le persone di basso reddito, ne risulta che una quota molto consistente di dipendenti pubblici dei livelli più bassi è ormai disabile.

In alcuni settori, come la Sanità, alla riduzione del personale e alle scarse risorse finanziarie si è accompagnato un aumento di compiti e attività (dovuti all’invecchiamento della popolazione, all’aumento del numero di poveri e indigenti e, in alcuni campi, anche al progresso della medicina). Tutto ciò ha messo in grave difficoltà il nostro sistema sanitario, a lungo considerato tra i migliori del mondo, che ha perso posizioni (in particolare per l’allungarsi delle liste di attesa) e che rischia di perderne sempre di più, perché avrebbe bisogno di investimenti per sostituire apparecchi vecchi, ristrutturare ospedali e presidi, investire nella formazione e nell’aggiornamento. Soprattutto c’è necessità di assumere il personale necessario per rispondere adeguatamente ai bisogni di salute della popolazione. C’è bisogno cioè di investire un poco di più nella Sanità e di programmare gli interventi avendo come faro i bisogni di salute della popolazione. Governo e Regione fanno questo? Non sembra proprio. Infatti il documento di programmazione economica 2016 prevede per i prossimi anni una riduzione della spesa per la Sanità: dal 6,8% del PIL (anno 2015) deve diventare 6,7% nel 2016 e nel 2017, poi 6,6% nel 2018 e quindi 6,5% nel 2019.

Il decreto del Commissario alla Sanità della Regione Campania sui fabbisogni di personale prevede una dotazione di ostetriche di una per ogni distretto sanitario, 5,5 dietisti ogni milione di abitanti e zero laureati in scienze motorie (pur essendo la Regione con la più alta percentuale di persone sedentarie e inattive). Quindi in media ogni ostetrica avrà una platea di circa 10.000 donne a cui ogni anno effettuare il pap-test, 5.000 studenti di scuola superiore a cui fare educazione sessuale, 1.000 donne da incontrare nei corsi pre-parto e in più dovrebbe dare anche una mano al ginecologo nella sua attività (neanche Wonderwoman riuscirebbe nell’impresa). Ogni dietista invece dovrebbe farsi carico di intervenire su 100.000 persone in sovrappeso e fare attività preventiva su una platea di 11.000 studenti di scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di 1°.

Poiché le persone povere non possono ricorrere a ginecologi privati per i pap-test, né a dietisti e dietologi se in sovrappeso, poiché le malattie sessualmente trasmesse, le gravidanze indesiderate e precoci, l’obesità il sovrappeso sono molto più frequenti nelle persone povere e di bassa istruzione, chi sarà maggiormente danneggiato da queste scelte sono sempre gli ultimi. Già oggi assistiamo a due fenomeni agghiaccianti:

1) le persone di basso reddito rinunciano a curarsi perché non hanno i soldi (1 milione e 400.000 persone, il 15% dei poveri e dei quasi poveri ha rinunciato a curarsi per questioni economiche) [3].

2) le persone diventano povere per le spese sanitarie sostenute (l’1,2% delle famiglie italiane si sono impoverite per questo motivo) [4]

Ci chiediamo: come mai di questo si parla così poco? Come mai è così diffusa e radicata la convinzione che la spesa pubblica è eccessiva anche se tale convinzione non ha alcun riscontro nella realtà? Chi mette in giro queste bufale? Perché?

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Note: 1) Eurostat 2015; 2) Ragioneria Generale dello Stato: Conto annuale periodo 2007-2015; 3) Ufficio parlamentare di bilancio: Rapporto 2016; 4) CREA: 12° rapporto, 2016.

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