Tag Archives: carcere

Mai dire mai: ergastolo per nessuno

.

.

.

di Carmelo Musumeci

.

“La giustizia non è fatta dal “… ti punisco”, è fatta dal “ti riporto insieme con noi…”. (Agnese Moro).

Premetto che non c’è prezzo, né pena, e mai ce ne potrà essere, che possa ripagare i parenti delle vittime di un reato, non a caso alcuni filosofi dicono che la migliore vendetta è il perdono. Sono fortemente convinto che uno dei maggiori valori dell’umanità sia il perdono.

Infatti, che soddisfazione potrà mia avere una persona a cui hanno ucciso il padre in una rapina, sapere che il suo assassino deve stare chiuso in una cella 20, 30 anni o per sempre? Questa non è giustizia, è solo vendetta e la vendetta lascia solo uno strano sapore amaro in bocca. E questo lo dico per esperienza.

La migliore vendetta per un figlio a cui hanno ucciso il padre sarebbe pretendere che la società o lo Stato cambi, migliori ed inserisca nella società, la persona che ha sbagliato. Sì, è vero, la mia è utopia, ma l’utopia è il motore del mondo. Cent’anni fa andare sulla luna era un’utopia, io ora sono convinto che il carcere non sia necessario: il carcere non è la medicina, il carcere è il male e pure il carcere migliore è sempre un luogo di ingiustizia e sofferenza. È improbabile che le persone diventino buone chiuse in una gabbia.

La certezza della pena potrebbe essere anche di fare scontare la pena fuori dal carcere. La società non è più tutelata se si mettono fuori le persone a fine pena, perché il carcere, nella maggioranza dei casi, crea dei mostri o degli emarginati. Una società è giusta se, prima di pretendere che non ci siano reati, pretende che non ci siano luoghi di sofferenza e d’ingiustizia.

Io credo che l’inferno non sia un luogo giusto, né di qua, né nell’aldilà, per questo penso che Dio all’inferno non ci mandi nessuno. Penso che se qualcuno desidera che una persona stia dentro tutta la vita il suo desiderio di giustizia si trasforma in vendetta.

La pena per essere giusta deve pensare al futuro e non al passato, l’ergastolo invece guarda sempre indietro e mai avanti. La pena per essere capita, compresa ed accettata deve avere una fine, una pena che non finisce mai non può essere capita, compresa ed accettata. Credo che neppure Abele avrebbe voluto l’ergastolo per Caino, altrimenti Abele sarebbe diventato come Caino, come sta accadendo in questo periodo, che i “buoni” stanno diventando peggio dei cattivi e la cosa più brutta è che lo stanno diventando in nome della giustizia.

.

.

Fonte: Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2019

.

.

_____________________________________________________

Articoli correlati

.

.

.


Violenza sulle donne – Una cultura sbagliata che il carcere non risolve.

.

.

.

Lo stupro è un crimine, ma anche una cultura che non si cura in carcere

Violenza maschile. Le contraddittorie ricette di Sandra Newman che invita a semplificare: «Lo stupro è un crimine da punire. Punto». Ma aumentare le pene non cura la patologia

di Lea Melandri

«Perché gli uomini violentano? Semplice: perché pensano di farla franca. Basta con le giustificazioni sociali e psicologiche. Lo stupro è un crimine da punire. Punto».

Stando al titolo che D La Repubblica (30 /9/17) ha dato allo scritto di Sandra Newman – un’analisi peraltro articolata e contraddittoria -, verrebbe da rispondere che se le cose stessero davvero così, fermare gli stupratori sarebbe effettivamente semplice: aumento degli anni di detenzione e carcere a vita per i recidivi.

Ma, oltre alla discutibile riuscita del deterrente che viene indicato, bisogna aggiungere che si tratta anche di un titolo profondamente diseducativo rispetto alla convinzione, oggi più condivisa che in passato, che la violenza maschile contro le donne vada affrontata attraverso processi formativi fin dall’infanzia, sapendo quanto sono precoci i pregiudizi sessisti e razzisti derivanti dalla cultura che abbiamo ereditato da secoli di dominio maschile. Quando ci si pone il problema di “capire” che cosa spinge gli uomini allo stupro, il riferimento non sono solo le ragioni «sociali e psicologiche», ma il portato di una ideologia che è stata per secoli il fondamento della nostra come di altre civiltà: dalla cultura alta al senso comune.

È dentro questa cultura, che ha visto il potere maschile innestarsi e confondersi con le vicende più intime (la maternità, la sessualità, l’amore), che vanno “capiti” i comportamenti violenti dei singoli o dei gruppi, con tutto il carico di patologia, responsabilità e storia. Come spiegare altrimenti che molti uomini, anche giovani, intervistati, stando a quanto viene riportato nell’articolo, rispondono di non riuscire a «fare un collegamento tra sesso non consensuale e stupro», o il fatto che uno studente su quattro risponde che «è colpa del desiderio?». Non sarebbe forse il caso di cominciare a chiedersi che cosa è stato ed è ancora purtroppo, nell’immaginario e nelle convinzioni di tanti uomini –ma anche donne- quello che chiamiamo amore, desiderio, sessualità?

Una volta preso atto che la “natura” degli stupratori non mostra differenze significative, tanto da poter concludere che sono, come la maggior parte degli uomini «tendenzialmente, in parole povere, stronzi misogini», il discorso di Newman si sposta giustamente su convinzioni, pregiudizi, fantasie che sono alla base del pensare e del sentire comune, e quindi la ragione di cui gli stupratori si avvalgono per giustificare i loro crimini: “normale” usare la forza se la donna che ha accettato di uscire con te ti oppone un rifiuto, con quella che ha fama di essere “facile”, o che ha fatto l’autostop. La prima legittimazione alla violenza viene dunque dagli altri uomini, dall’approvazione o stigmatizzazione da parte di una comunità di simili. Negli stupri praticati dai soldati in guerra, sappiamo che l’incoraggiamento è venuto spesso dall’alto.

Ma, nonostante che questa visione di insieme delinei la complessità di un fenomeno con radici profonde nella storia del dominio maschile e nell’inconscio collettivo, Newman conclude che il principale deterrente è la condanna penale dei responsabili.

Fuorviante sarebbe ogni tentativo di vederlo come un problema diverso rispetto alla criminalità comune, o come un “mistero profondo” che rimandi alla psicologia, alla medicina o alla politica. Ora, è vero che lo stupro è prima di tutto l’esercizio di un potere brutale sul corpo della donna; più che di desiderio sessuale si deve parlare di sopraffazione, celebrazione della vittoria su un sesso considerato nemico o inferiore, da umiliare e sottomettere.

Ma è davvero così estraneo alla sessualità da poterlo collocare tra crimini come la rapina, gli incendi dolosi, ecc.? Come definire i rapporti sessuali nascosti dietro la sacralità del matrimonio e imposti dai mariti alle mogli senza il loro consenso e senza troppi riguardi per le gravidanze indesiderate? Come non riconoscere il tratto violento che c’è nella sessualità generativa e penetrativa dell’uomo legata, come è stato finora, non solo all’ansia di prestazione, ma al desiderio e contemporaneamente alla paura di un ritorno al potente ventre materno?

Parlare del coito come di una “vittoria sul trauma della nascita”, come fanno alcuni psicanalisti, vuol dire riconoscere nell’immaginario maschile la guerra mai dichiarata tra i sessi che ha preso forma intorno alla vicenda dell’origine, e che ha visto capovolgersi, nella storia che vi è andata sopra, un vissuto di dipendenza di inermità dell’uomo-figlio nell’appropriazione violenta del corpo materno.

La speranza di riuscire a prevenire gli stupri, come altre violenze manifeste o invisibili sulle donne, sta nel coraggio di affrontare il problema in tutte le sue ambiguità, da ciò che la memoria del corpo e la vita psichica trattengono delle esperienza primarie di ogni individuo, maschio o femmina, alle condizioni sociali e culturali in cui si trova a vivere. Testimonianze, scritture che parlano una lingua ‘spudorata’ nel dire verità dell’amore, della sessualità, delle fantasie , dei desideri e delle paure che restano generalmente “impresentabili”, sepolte nella vita dei singoli di un sesso e dell’altro, non mancano. Sono inquietanti, disturbanti, ma proprio per questo è importante vincere le resistenze e leggerle.

.

Fonte: il manifesto

.

.

.

.


Dossier: “Morire di carcere”

.

.

suicidi

.

Giustizia: “Area” sui suicidi nel carcere di Regina Coeli

Ristretti Orizzonti, 28 luglio 2015

Eduard Thedor Brehuescu, 18 anni: muore impiccato nel carcere romano di Regina Coeli il 20 luglio. Poche ore prima, nello stesso reparto, trova la morte Ludovico Caiazza, 32 anni. Entrambi in custodia cautelare, entrambi morti per suicidio.

Sono 24 i morti per suicidio in carcere dall’inizio del 2015; 63 il numero delle morti complessive tra la popolazione detenuta. In carcere, tra i ristretti, il suicidio colpisce 20 volte più che tra le persone libere. Tra il personale di polizia penitenziaria, 3 volte più che nella norma. Sono i dati del dossier “Morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti.

Quando emettiamo condanne ad anni di carcere, quando disponiamo misure cautelari detentive, noi dobbiamo poter confidare che non stiamo inviando le persone in un luogo senza speranza. Invece, nel quarantennale dell’ordinamento penitenziario (26 luglio 1975 – 26 luglio 2015) constatiamo che quella “tavola” dei diritti e delle speranze delle persone detenute – in custodia cautelare e in esecuzione pena – non riesce ad arginare quelle che sono state definite le evasioni definitive: un lenzuolo annodato che ti conduce fuori dalla vita.

Una morte che colpisce soprattutto i “nuovi giunti”, i detenuti in custodia cautelare, quelli che hanno appena messo piede nel carcere, avvolti anche dal turbinio dei processi psichici di rimozione o di assunzione di responsabilità, di separazione dagli affetti, di primo contatto con la realtà dell’internamento.

Come magistrati, come giudici chiamati ogni giorno ad applicare misure e pene privative della libertà, intendiamo combattere perché il carcere sia un luogo legale, conforme a Costituzione, all’interno del quale vita, incolumità e salute assurgano al livello di diritti inviolabili nella stessa misura che nella società libera.

Riteniamo particolarmente importante, in questo momento, non accontentarsi. Vogliamo vedere. Vedere cosa c’è dentro la pena, dentro il carcere. Crediamo che sia compito di tutti i giudici di cognizione, al pari dei magistrati di sorveglianza esposti su questo fronte, esigere: livelli di assistenza sanitaria per i detenuti conformi a quelli pretesi per i liberi; prassi virtuose in materia di “prevenzione rischi”; diffusione dei presidi per i nuovi giunti; implementazione dei servizi di screening e monitoraggio degli ingressi e analisi dei fattori di rischio attitudinali e psicosociali; aumento del personale civile e di polizia penitenziaria; rivisitazione della cultura, delle disposizioni e delle prassi in materia di isolamento.

Auspichiamo, inoltre, che la congiuntura di questi giorni – quarantennale dell’ordinamento, avvio degli Stati Generali dell’esecuzione penale, legge delega in materia penitenziari – consenta di mettere mano a riforme in grado di portare a compimento il processo di legalizzazione della pena carceraria: l’art. 27 della Costituzione, nel sancire solennemente che non è ammessa la pena di morte, rifiuta categoricamente anche la “morte per pena”.

Il Coordinamento di “Area”

.

Fonte: Ristretti Orizzonti

.

.

.