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Lo scienziato Werner: “per salvare il pianeta, necessaria resistenza contro la cultura capitalista”

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Brad Werner

Brad Werner

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Come la scienza ci sta dicendo di ribellarci

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di Naomi Klein

Nel dicembre del 2012 un ricercatore, dai capelli rosa, dei sistemi complessi, di nome Brad Werner, si è fatto strada tra la folla dei 24.000 scienziati della terra e dello spazio all’Assemblea Annuale Autunnale dell’Unione Geofisica Statunitense, che si tiene ogni anno a San Francisco. Il congresso di quest’anno ha avuto tra i partecipanti dei grandi nomi, da Ed Stone del Progetto Voyager della NASA, che ha illustrato una nuova pietra miliare sulla via dello spazio interstellare, al regista James Cameron, che ha discusso le sue avventure nei sommergibili di profondità.

Ma è stata la sessione di Werner a suscitare gran parte gran parte dello scalpore. Era intitolata “La terra è fott….a?” (Titolo Intero: “La terra è fott…a? Futilità dinamica della gestione globale dell’ambiente e possibilità di sostenibilità mediante l’attivismo dell’azione diretta”).

In piedi di fronte alla sala del congresso, il geofisico dell’Università della California, San Diego, ha accompagnato l’uditorio attraverso il modello informatico avanzato che ha utilizzato per rispondere alla domanda. Ha parlato di confini dei sistemi, perturbazioni, dissipazione, attrattori, biforcazioni e un mucchio intero di altra roba largamente incomprensibile a quelli tra noi non iniziati alla teoria dei sistemi complessi. Ma il succo è stato sufficientemente chiaro: il capitalismo globale ha reso così rapido l’esaurimento delle risorse, così conveniente e privo di barriere, che i sistemi “terra-umani” stanno in conseguenza diventando pericolosamente instabili. Quando sollecitato dai giornalisti a fornire una risposta chiara alla domanda “siamo fott…i?”, Werner ha abbandonato il gergo e ha risposto: “Più o meno”.

C’era tuttavia una dinamica nel modello che offriva qualche speranza. Werner l’ha definita “resistenza”, movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano un certo insieme di dinamiche che non si adeguano alla cultura capitalista”. Secondo il compendio della sua presentazione, ciò include “azione ambientale diretta, resistenza derivata dall’esterno della cultura dominante, come nelle proteste, nei blocchi e nel sabotaggio da parte dei popoli indigeni, dei lavoratori, degli anarchici e di altri gruppi attivisti”.

Le riunioni scientifiche serie solitamente non ospitano appelli alla resistenza politica e ancor meno all’azione diretta e al sabotaggio. Ma, di nuovo, Werner non stava esattamente sollecitando queste cose. Ha semplicemente osservato che le rivolte di massa della gente – del genere del movimento abolizionista [della schiavitù – n.d.t.], del movimento per i diritti civili o di Occupy Wall Street – rappresentano la fonte più probabile di “frizione” per rallentare una macchina economica che sta sbandando fuori controllo. Sappiamo che i movimenti sociali del passato hanno “avuto un’enorme influenza su … com’è evoluta la cultura dominante”, ha segnalato. Dunque appare ragionevole che “se pensiamo al futuro della terra e al futuro del nostro rapporto con l’ambiente dobbiamo includere la resistenza come parte di tale dinamica”. E questa, ha sostenuto Werner, non è una questione di opinioni, ma “realmente un problema geofisico”.

Una quantità di scienziati è stata spinta dalle scoperte delle proprie ricerche a scendere in strada con iniziative. Fisici, astronomi, medici e biologi sono stati all’avanguardia dei movimenti contro le armi nucleari, l’energia nucleare, la guerra, la contaminazione chimica e il creazionismo. E nel novembre del 2012 la rivista Nature ha pubblicato un articolo del finanziere e filantropo ambientalista Jeremy Grantham che sollecitava gli scienziati a unirsi a questa tradizione e a “farsi arrestare, se necessario”, perché il cambiamento climatico “non è solo la crisi delle vostre vite, è anche la crisi dell’esistenza della nostra specie”.

Alcuni scienziati non hanno bisogno di farsi convincere. Il boss della scienza climatica moderna, James Hansen, è un attivista formidabile, arrestato circa mezza dozzina di volte per essersi opposte all’estrazione di carbone mediante rimozione delle cime montane e alle condutture delle sabbie bituminose (ha persino lasciato quest’anno il suo lavoro presso la NASA, in parte per avere più tempo per condurre campagne). Due anni fa, quando sono stata arrestata all’esterno della Casa Bianca in un’azione di massa contro la conduttura delle sabbie bituminose Keystone XL, una delle 166 persone in manette quel giorno era un glaciologo di nome Jason Box, un esperto di fama mondiale della fusione della coltre di ghiaccio della Groenlandia.

“Non avrei potuto conservare il rispetto di me stesso se non avessi partecipato”, ha dichiarato Box all’epoca, aggiungendo che “limitarsi a votare non sembra essere sufficiente in questo caso. Io ho bisogno di  essere anche un cittadino.”

Questo è lodevole, ma quello che Werner sta facendo con il suo modello è diverso. Non sta dicendo che la sua ricerca l’ha spinto a intraprendere azioni dirette per fermare una particolare politica; sta dicendo che la sua ricerca dimostra che il nostro intero paradigma economico è una minaccia alla stabilità ecologica. E, in effetti, che contrastare tale paradigma economico – con la contro-pressione del movimento di massa – è l’arma migliore dell’umanità per evitare la catastrofe.

E’ roba pesante. Ma non è solo. Werner fa parte di un gruppo piccolo, ma sempre più influente, di scienziati le cui ricerche sulla destabilizzazione dei sistemi naturali – in particolare del sistema climatico – stanno portandoli a conclusioni analogamente trasformative, persino rivoluzionarie. E per ogni rivoluzionario da scrivania che abbia mai sognato di rovesciare l’attuale ordine economico a favore di uno che abbia meno probabilità di costringere i pensionati italiani a impiccarsi a casa loro, questo lavoro dovrebbe essere di speciale interesse. Perché rende il disfarsi di quel sistema crudele a favore di qualcosa di nuovo (e forse, con parecchio lavoro, di migliore) non più una questione di mere preferenze ideologiche, bensì piuttosto una questione di necessità esistenziale a livello della nostra specie.

A guidare il gruppo di questi rivoluzionari scientifici c’è uno dei maggiori esperti britannici del clima, Kevin Anderson, vicedirettore del Centro Tyndall per le Ricerche sul Cambiamento Climatico, che si è rapidamente consolidato come una delle principali istituzioni del Regno Unito di ricerca sul clima. Rivolgendosi a tutti, dal Dipartimento dello Sviluppo Internazionale e Consiglio Comunale di Manchester, Anderson ha speso più di un decennio a tradurre pazientemente le implicazioni della più recente scienza climatica a politici, economisti e conduttori di campagne. In un linguaggio semplice e chiaro egli espone un percorso rigoroso per la riduzione delle emissioni, che offre una possibilità decente di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto due gradi Celsius, un obiettivo che la maggior parte dei governi ha deciso preverrebbe la catastrofe.

Ma in anni recenti i documenti e le diapositive di Anderson sono diventati più allarmanti. Sotto titoli quali “Cambiamento climatico: Ormai più che pericoloso … cifre brutali e tenue speranza”, egli segnala che le possibilità di restare entro qualcosa che si avvicini a livelli di temperatura sicuri si stanno riducendo rapidamente.

Con la collega Alice Bows, un’esperta di mitigazione del clima al Centro Tyndall, Anderson segnala che abbiamo perso così tanto tempo a causa dello stallo politico e di politiche climatiche deboli – il tutto mentre il consumo globale (e le emissioni) saliva alle stelle – che ora abbiamo di fronte tagli tanto drastici da sfidare la logica fondamentale della priorità del PIL su ogni altra cosa.

Anderson e Bows ci informano che il tanto spesso citato obiettivo di mitigazione a lungo termine – un taglio dell’80% delle emissioni sotto i livelli del 1990 entro il 2050 – è stato scelto puramente per obiettivi di convenienza politica e non ha “alcuna base scientifica”. Ciò è dovuto al fatto che gli impatti sul clima non derivano da quel che emettiamo oggi o emetteremo domani, bensì dalle emissioni cumulative che si sommano nel tempo nell’atmosfera. E ci avvertono che concentrandosi su obiettivi distanti tre decenni e mezzo nel futuro – anziché su ciò che possiamo fare rapidamente e immediatamente per tagliare il carbonio – c’è in grave rischio che consentiremo alle nostre emissioni di continuare a crescere negli anni a venire, influenzando troppo il nostro “budget del carbonio” di 2 gradi e mettendoci in una situazione impossibile più in là nel secolo.

Ed è questo il motivo per cui Anderson e Bows sostengono che se i governi fanno sul serio riguardo al conseguire l’obiettivo concordato a livello internazionale di mantenere il riscaldamento entro i 2 gradi Celsius, e se le riduzioni devono rispettare un qualche principio di equità (fondamentalmente che i paesi che hanno diffuso emissioni per la maggior parte di due secoli devono tagliare prima dei paesi dove più di un miliardo di persone è privo di elettricità) allora le riduzioni devono essere molto più marcate e devono essere realizzate molto prima.

Per avere almeno una possibilità del 50% di colpire il bersaglio dei 2 gradi (che essi e molti altri avvertono comportare già una serie di impatti climatici enormemente dannosi) i paesi industrializzati devono cominciare a tagliare le loro emissioni di gas serra di qualcosa come il 10 per cento l’anno, e devono cominciare ora. Ma Anderson e Bows si spingono più in là, segnalando che questo bersaglio può non essere raggiunto con la serie di modesti prezzi del carbonio o con le soluzioni della tecnologia verde solitamente promossi dai gruppi verdi. Queste misure indubbiamente contribuiranno, è un fatto, ma semplicemente non sono sufficienti: una riduzione delle emissioni del 10 per cento, anno dopo anno, è qualcosa virtualmente senza precedenti da quando abbiamo cominciato a fornire energia alle nostre economie con il carbone. In realtà tagli superiori all’1 per cento annuo “sono stati storicamente associati solo a recessioni o sconvolgimenti economici”, come ha detto l’economista Nicholas Stern nel suo rapporto del 2006 per il governo britannico.

Persino dopo il crollo dell’Unione Sovietica non si sono verificate riduzioni di tale durata e portata (i paesi ex sovietici hanno sperimentato riduzioni medie annue di circa il 5 per cento in un periodo di dieci anni). Non si sono verificate dopo il crollo di Wall Street nel 2008 (i paesi ricchi hanno sperimentato un calo di circa il 7 per cento tra il 2008 e il 2008, ma le loro emissioni di CO2 sono rimbalzate con gusto nel 2010 e le emissioni in Cina e in India hanno continuato a crescere). Solo immediatamente dopo il grande crollo dei mercati nel 1929 gli Stati Uniti, ad esempio, hanno visto calare le loro emissioni per molti anni consecutivi di più del 10 per cento l’anno, secondo dati storici del Centro di Analisi delle Informazioni sull’Anidride Carbonica. Ma quella fu la peggior crisi economica dei tempi moderni.

Se dobbiamo evitare quel tipo di carneficina nel conseguire i nostri obiettivi di emissioni basati sulla scienza, la riduzione del carbonio deve essere gestita con attenzione mediante quelle che Anderson e Bows descrivono come “strategie radicali e immediate di decrescita negli Stati Uniti, nella UE e in altri paesi ricchi”. Il che va bene, solo che capita che noi abbiamo un sistema economico che fa della crescita del PIL un feticcio sopra tutto il resto, indipendentemente dalle conseguenze umane o ecologiche, e in cui la classe politica neoliberale ha totalmente abdicato dalle sue responsabilità di gestire qualcosa (poiché il mercato è il genio invisibile cui tutto deve essere affidato).

Così, quello che Anderson e Bows stanno dicendo in realtà è che c’è ancora tempo per evitare un riscaldamento catastrofico ma non mantenendo le regole del capitalismo come sono costruite attualmente. Il che può essere l’argomento migliore che abbiamo mai avuto per cambiare tali regole.

In un saggio del 2012 apparso sull’influente rivista scientifica Nature Climate Change Anderson e Bows hanno lanciato una specie di guanto di sfida, accusando molti dei loro colleghi scienziati di non dire la verità sul genere di cambiamenti che il cambiamento climatico esige dall’umanità. Al riguardo val la pena di citare la coppia per esteso:

negli scenari di sviluppo delle emissioni gli scienziati minimizzano ripetutamente e gravemente le implicazioni delle loro analisi. Quando si tratta di evitare un aumento di due gradi, “impossibile” è tradotto in “difficile ma fattibile”, mentre “urgente e radicale” emerge come “impegnativo”, tutto per compiacere il dio dell’economia (o, più precisamente, della finanza). Ad esempio, per evitare di superare il tasso massimo di riduzione delle emissioni imposto dagli economisti, sono presupposti picchi iniziali “impossibili” di emissioni, assieme a nozioni ingenue su “grandi” ingegnerie e sui tassi di sviluppo delle infrastrutture a basso carbonio. In modo più inquietante, col ridursi dei budget delle emissioni, la geoingegneria è sempre più proposta come garanzia che il diktat degli economisti resti fuori discussione.

In altre parole, al fine di apparire ragionevoli nei circoli economici neoliberali, gli scienziati hanno comunicato in modo enormemente addolcito le implicazioni delle loro ricerche. Arrivati all’agosto 2013, Anderson ha voluto essere ancora netto, scrivendo che la barca del cambiamento graduale se n’era partita. “Forse all’epoca del Vertice della Terra del 1992, o anche al volgere del millennio, il livello di mitigazione di due gradi centigradi avrebbe potuto essere raggiunto mediante significativi cambiamenti evolutivi nella egemonia politica ed economica. Ma il cambiamento climatico è un problema di accumulo! Oggi, nel 2013, noi delle nazioni (post) industriali ad alte emissioni abbiamo di fronte una prospettiva molto differente. La nostra continua e collettiva sconsideratezza riguardo al carbonio ha dilapidato ogni opportunità di un “cambiamento evolutivo” consentito dal nostro precedente (e più ampio) budget del carbonio di due gradi centigradi. Oggi, dopo due decenni di finzioni e menzogne, il restante budget di due gradi impone un cambiamento rivoluzionario della egemonia politica ed economica.” (evidenziazioni dell’autore).

Probabilmente non dovrebbe sorprenderci che alcuni scienziati del clima siano un po’ spaventati dalle implicazioni radicali delle loro stesse ricerche. La maggior parte di loro faceva tranquillamente il proprio lavoro misurando lo spessore dei ghiacci, elaborando modelli climatici globali e studiando l’acidificazione degli oceani solo per scoprire, come dice l’esperto australiano del clima e giornalista Clive Hamilton, che “stavano inconsapevolmente destabilizzando l’ordine politico e sociale”.

Ma ci sono molti che sono ben consapevoli della natura rivoluzionaria della scienza del clima. E’ per questo che i governi che hanno deciso di abbandonare i loro impegni sul clima a favore dell’estrazione di altro carbonio hanno dovuto trovare modi sempre più aggressivi per far tacere e intimidire gli scienziati delle loro nazioni. In Gran Bretagna questa strategia sta diventando più trasparente, con Ian Boyd, il consigliere scientifico capo presso il Dipartimento dell’Ambiente, dell’Alimentazione e degli Affari Rurali, che di recente ha scritto che gli scienziati dovrebbero evitare “di suggerire che le politiche sono giuste o sbagliate” e dovrebbero esprimere le loro idee “collaborando con i consiglieri inseriti (come me) ed essendo la voce della ragione, piuttosto che del dissenso, nell’arena pubblica”.

Se volete sapere dove porta tutto questo, controllate che cosa sta succedendo in Canda, dove io vivo. Il governo conservatore di Stephen Harper ha fatto un lavoro così efficace nell’imbavagliare gli scienziati e nel chiudere programmi critici di ricerca che, nel luglio del 2012, un paio di migliaia di scienziati e sostenitori ha tenuto un finto funerale all’esterno della sede del Parlamento a Ottawa, in lutto per “la morte delle prove”. I loro cartelli dicevano: “Niente scienza, niente prove, niente verità”. 

Ma la verità sta emergendo comunque. Il fatto che continuare come al solito a perseguire profitti e crescita stia destabilizzando la vita sulla terra non è più qualcosa di cui dobbiamo leggere nelle riviste scientifiche. I primi segnali si stanno mostrando sotto i nostri occhi. E un numero crescente di noi sta reagendo di conseguenza: bloccando l’attività di fratturazione idraulica, interferendo con i preparativi per le trivellazioni in acque russe (con enormi costi personali), portando in tribunale gli operatori delle sabbie bituminose per aver violato la sovranità indigena e con innumerevoli altre iniziative di resistenza grandi e piccole. Nel modello al computer di Brad Werner questa è la “frizione” necessaria per rallentare le forze della destabilizzazione; il grande attivista del clima Bill McKibben li definisce gli “anticorpi” che si schierano a combattere l’”impennata di febbre” del pianeta.

Non è una rivoluzione, ma è un inizio. E potrebbe garantirci semplicemente tempo sufficiente a ideare un modo di vivere su questo pianeta che sia decisamente meno fott….o.

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Naomi Klein, autrice di “La dottrina dei disastri” e di “No Logo”, sta lavorando a un libro e a un film sul potere rivoluzionario del cambiamento del clima. Potete seguirle su Twitter a @naomiaklein

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Fonte: Z Net Italy

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Napoli a maggio Poetry & Pummarols

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Poetry & Pummarols

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Sabato 4 maggio 2013

ore 18.00

Napoli – Pedamentina di San Martino 

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Poetry & Pummarols

San Marzano Superstar featuring Le Loup Garou… ed altre specie a rischio di estinzione.

Sabato 4 Maggio da pomeriggio a sera inoltrata sulle incantevoli scale della Pedamentina di San Martino un insolito connubio tra coltura e cultura.

Libero mercato dalle 18.00  alle 23.00
Concerto Le Loup Garou 20.30

Il Comitato Pedamentina, da anni attivo per la salvaguardia e la protezione del patrimonio storico, artistico, paesaggistico e ambientale della Pedamentina e dell’intero Polo Museale di San Martino di cui essa è parte, ospiterà un evento che vedrà insieme “contadini custodi e poeti protettori”.

Custodi e protettori di tutto quanto- nostro nutrimento- viene minacciato:
dalla poesia ai pomodori, appunto.

Liberi coltivatori mostreranno i propri prodotti, scambieranno piantine e semi.
Liberi musicisti offriranno il Rock & Roll dell’antico poeta.

Un progetto ideato da Francesco Prota e Francesco Manzo.

questo il link per sostenere e prenotare una copia del nuovo vinile:
http://www.produzionidalbasso.com/pdb_2147.html

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Fonte: Facebook – Eventi

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Approfondimenti

Pedamentina di San Martino

Comitato Pedamentina

Le Loup Garou

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Ecologia della nutrizione

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Nutrition ecology – ecologia della nutrizione – è un termine relativamente recente. È stato coniato nel 1986 da un gruppo di nutrizionisti dell’Università di Giessen, in Germania. Si tratta di una scienza inter-disciplinare, che prende in esame tutte le componenti della catena alimentare e ne valuta gli effetti secondo 4 punti di vista principali: la salute umana, l’ambiente, la società e l’economia.

Le componenti della catena alimentare sono tutte quelle coinvolte nel processo di produzione e consumo del cibo, viene cioè seguito tutto il procedimento “dalla culla alla tomba”, che comprende: la produzione, il raccolto, la conservazione, l’immagazzinamento, il trasporto, la lavorazione, il confezionamento, il commercio, la distribuzione, la preparazione, la composizione, il consumo del cibo e lo smaltimento dei materiali di scarto prodotti nelle varie fasi.

Il concetto di ecologia della nutrizione ha radici antiche, e nasce con la necessità di valutare le conseguenze dell’agricoltura su vasta scala e dell’allevamento di animali. Ma è solo alla fine del ventesimo secolo che il concetto di ecologia della nutrizione viene formalizzato. Da non confondersi con l’econutrizione, che si limita a studiare le interazioni tra la nutrizione e l’ambiente, nè con l’ecologia dell’alimentazione e nutrizione, che si limita a studiare gli stili alimentari delle popolazioni indigene.

Sostenibilità

Le 4 dimensioni sopra citate dell’ecologia della nutrizione sono la base per valutare la sostenibilità di uno stile alimentare. Il termine sostenibilità è stato coniato nel diciassettesimo secolo dagli esperti forestali tedeschi per indicare la quantità di alberi che poteva essere abbattuta in maniera sostenibile, cioè solo quella che sarebbe potuta ricrescere in un tempo accettabile.

Il significato si è poi esteso a indicare un tipo di sviluppo che soddisfa le necessità correnti senza diminuire la possibilità per le generazioni future di soddisfare le stesse necessità.

Dal punto di vista della nutrizione, la sostenibilità implica l’adozione di uno stile di vita che preveda:

  • un’equa distribuzione delle risorse alimentari, in un mondo che conta oggi oltre 800 milioni di persone malnutrite – aspetto sociale;
  • la scelta di una qualità e quantità di cibo che assicuri una dieta adeguata (priva di carenze) e ottimale (che possa prevenire le malattie degenerative legate all’alimentazione, tipiche dei paesi ricchi) – aspetto salutistico;
  • un impatto sostenibile sull’ambiente – aspetto ecologico.

Sicurezza alimentare

Quando si parla di “sicurezza alimentare”, nei paesi industrializzati, si pensa soltanto alla qualità del cibo intesa come contenuto nutrizionale e come controlli sanitari sulla presenza di patogeni e contaminanti. Anche la recente Authority Alimentare europea, che dovrebbe garantire la sicurezza alimentare ai consumatori, si occupa solamente di quest’ultimo aspetto sanitario, ma solo a breve e brevissimo termine, trascurando invece gli aspetti ben più importanti e complessi di medio e lungo termine quali appunto la salute umana a lungo termine, l’impatto sull’ambiente e sulla società intera, in breve, la sostenibilità.

È dunque importante dedicare l’attenzione che meritano agli aspetti di cui l’ecologia della nutrizione si occupa: la qualità globale del cibo, il Life Cycle Assessment (LCA), cioè il calcolo dell’impatto lungo tutto il ciclo di produzione del cibo e dello smaltimento degli scarti (impatto sulla salute e sull’ambiente), ma anche l’influenza degli stili alimentari sul clima, sulla nutrizione nel mondo (e quindi anche sul problema della fame nel mondo), sui costi del cibo, sia in termini monetari che di consumo di risorse.

Ricerca e divulgazione

L’ecologia della nutrizione offre strumenti per confrontare tra loro i vari stili alimentari, nonchè i processi produttivi, per individuare le strade migliori da seguire.

NEIC si pone dunque come scopo quello di studiare le tematiche dell’ecologia della nutrizione e diffondere la conoscenza scientifica in questo campo a ogni livello: a livello dei governi nazionali e delle istituzioni sovra-nazionali, a livello delle ONG che operano nel mondo, a livello di associazioni di consumatori, per arrivare alla fine ai singoli cittadini, perchè le scelte alimentari non dipendono unicamente dai governi, ma in larghissima parte proprio dalle scelte individuali delle persone, che hanno, in questo campo, grande potere e anche, dunque, grande responsabilità.

Appaiono quindi fondamentali interventi di educazione della popolazione, atti a “modificare l’atteggiamento della collettività nei confronti del consumo e del comportamento individuale”, come previsto al 1o requisito dello stesso Programma CE. Educando la gente a mangiare diversamente, privilegiando cibi semplici e di natura vegetale, sarà possibile salvaguardare la salute della collettività e la salute del pianeta.

Uno breve panoramica sui problemi attuali

L’animale d’allevamento, considerato come macchina che trasforma risorse vegetali in animali, è completamente inefficiente. È definito l’indice di conversione come la quantità di kg di vegetali necessari a far aumentare il peso dell’animale di un kg: mediamente, per un bovino, sono necessari 11 kg di vegetali per far crescere di un kg l’animale; contando gli scarti di macellazione, servono 15 kg di vegetali per ottenere 1 kg di carne. Facendo un confronto con le proteine, anzichè col peso dei vegetali, i risultati sono simili: per produrre un kg di proteine animali servono 16 kg di proteine vegetali. Per questo gli animali d’allevamento sono chiamati “fabbriche di proteine alla rovescia”.

Questo spreco di risorse causa, oltre che ovvi problemi sociali (disuguaglianza nella distribuzione delle risorse), anche gravi impatti sull’ambiente.

Tra gli impatti sull’ambiente, uno dei maggiori problemi è costituito dal consumo di acqua. La maggior parte dell’acqua sul pianeta viene consumata per:

  • ottenere le produzioni foraggiere determinanti nel soddisfare la fame e nel mantenere l’attività gastrica dei ruminanti;
  • per dissetare gli animali;
  • per le operazioni di pulizia di stalle, sale di mungitura ed altro.

Il direttore esecutivo dello Stockholm International Water Institute ha dichiarato, al convegno: “Gli animali si nutrono di grano, e anche quelli allevati a pascolo hanno bisogno di una quantità di acqua molto maggiore rispetto alle coltivazioni di grano. Ma nei paesi sviluppati, e in alcuni paesi in via di sviluppo, i consumatori richiedono ancora più carne. <…> Sarà quasi impossibile nutrire le future generazioni con lo stesso tipo di dieta che oggi abbiamo in Europa occidentale e nel Nord America.” Ha aggiunto che i ricchi saranno comunque in grado di comprarsi una via d’uscita importando “acqua virtuale”, cioè importando cibo (mangimi per animali o carne) da altri paesi, anche quelli in deficit d’acqua. [Hungry world ‘must eat less meat’, by Alex Kirby, BBC News Online environment correspondent, August 15, 2004]

Nella foresta amazzonica, l’88% della foresta abbattuta è stata adibita a pascolo. E la deforestazione continua a un ritmo sempre crescente. Nel 2003 c’è stata una crescita del 40% della deforestazione rispetto all’anno precedente. In soli 10 anni, la regione ha perso un’area pari a due volte il Portogallo. Gran parte di essa è diventata terra da pascolo. Le operazioni di taglio per il mercato del legno sono molto meno influenti sulla deforestazione rispetto alla produzione di carne. [Kaimowitz D., Mertens B., Wunder S., Pacheco P. Hamburger connection Fuels Amazon Destruction, Center for International Forestry Research (CIFOR) , april 2003]

Nelle zone semiaride, come l’Africa, lo sfruttamento dei suoli per l’allevamento estensivo (i cui prodotti vengono esportati nei paesi ricchi) porta alla desertificazione, cioè alla riduzione a zero della produttività di queste terre. Le Nazioni Unite stimano che il 70% dei terreni ora adibiti a pascolo siano in via di desertificazione.

Questo tipo di abitudini alimentari sono causa di un duplice problema di malnutrizione: nei paesi poveri una malnutrizione dovuta alla mancanza di cibo e acqua; nei paesi ricchi una malnutrizione dovuta a eccesso di proteine e grassi animali, che è oggi tra le principali cause di morte.

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Per saperne di più:  NEIC   (Centro Internazionale di Ecologia della Nutrizione)

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DOCUMENTARIOCarne, la verità sconosciuta

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