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Video | #iorestoacasa. Ma non dimentico!

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Dopo venti anni di regime e dopo cinque di guerra, eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare:
il miracolo della libertà
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(Norberto Bobbio)

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VIDEO

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Lo scienziato Werner: “per salvare il pianeta, necessaria resistenza contro la cultura capitalista”

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Brad Werner

Brad Werner

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Come la scienza ci sta dicendo di ribellarci

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di Naomi Klein

Nel dicembre del 2012 un ricercatore, dai capelli rosa, dei sistemi complessi, di nome Brad Werner, si è fatto strada tra la folla dei 24.000 scienziati della terra e dello spazio all’Assemblea Annuale Autunnale dell’Unione Geofisica Statunitense, che si tiene ogni anno a San Francisco. Il congresso di quest’anno ha avuto tra i partecipanti dei grandi nomi, da Ed Stone del Progetto Voyager della NASA, che ha illustrato una nuova pietra miliare sulla via dello spazio interstellare, al regista James Cameron, che ha discusso le sue avventure nei sommergibili di profondità.

Ma è stata la sessione di Werner a suscitare gran parte gran parte dello scalpore. Era intitolata “La terra è fott….a?” (Titolo Intero: “La terra è fott…a? Futilità dinamica della gestione globale dell’ambiente e possibilità di sostenibilità mediante l’attivismo dell’azione diretta”).

In piedi di fronte alla sala del congresso, il geofisico dell’Università della California, San Diego, ha accompagnato l’uditorio attraverso il modello informatico avanzato che ha utilizzato per rispondere alla domanda. Ha parlato di confini dei sistemi, perturbazioni, dissipazione, attrattori, biforcazioni e un mucchio intero di altra roba largamente incomprensibile a quelli tra noi non iniziati alla teoria dei sistemi complessi. Ma il succo è stato sufficientemente chiaro: il capitalismo globale ha reso così rapido l’esaurimento delle risorse, così conveniente e privo di barriere, che i sistemi “terra-umani” stanno in conseguenza diventando pericolosamente instabili. Quando sollecitato dai giornalisti a fornire una risposta chiara alla domanda “siamo fott…i?”, Werner ha abbandonato il gergo e ha risposto: “Più o meno”.

C’era tuttavia una dinamica nel modello che offriva qualche speranza. Werner l’ha definita “resistenza”, movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano un certo insieme di dinamiche che non si adeguano alla cultura capitalista”. Secondo il compendio della sua presentazione, ciò include “azione ambientale diretta, resistenza derivata dall’esterno della cultura dominante, come nelle proteste, nei blocchi e nel sabotaggio da parte dei popoli indigeni, dei lavoratori, degli anarchici e di altri gruppi attivisti”.

Le riunioni scientifiche serie solitamente non ospitano appelli alla resistenza politica e ancor meno all’azione diretta e al sabotaggio. Ma, di nuovo, Werner non stava esattamente sollecitando queste cose. Ha semplicemente osservato che le rivolte di massa della gente – del genere del movimento abolizionista [della schiavitù – n.d.t.], del movimento per i diritti civili o di Occupy Wall Street – rappresentano la fonte più probabile di “frizione” per rallentare una macchina economica che sta sbandando fuori controllo. Sappiamo che i movimenti sociali del passato hanno “avuto un’enorme influenza su … com’è evoluta la cultura dominante”, ha segnalato. Dunque appare ragionevole che “se pensiamo al futuro della terra e al futuro del nostro rapporto con l’ambiente dobbiamo includere la resistenza come parte di tale dinamica”. E questa, ha sostenuto Werner, non è una questione di opinioni, ma “realmente un problema geofisico”.

Una quantità di scienziati è stata spinta dalle scoperte delle proprie ricerche a scendere in strada con iniziative. Fisici, astronomi, medici e biologi sono stati all’avanguardia dei movimenti contro le armi nucleari, l’energia nucleare, la guerra, la contaminazione chimica e il creazionismo. E nel novembre del 2012 la rivista Nature ha pubblicato un articolo del finanziere e filantropo ambientalista Jeremy Grantham che sollecitava gli scienziati a unirsi a questa tradizione e a “farsi arrestare, se necessario”, perché il cambiamento climatico “non è solo la crisi delle vostre vite, è anche la crisi dell’esistenza della nostra specie”.

Alcuni scienziati non hanno bisogno di farsi convincere. Il boss della scienza climatica moderna, James Hansen, è un attivista formidabile, arrestato circa mezza dozzina di volte per essersi opposte all’estrazione di carbone mediante rimozione delle cime montane e alle condutture delle sabbie bituminose (ha persino lasciato quest’anno il suo lavoro presso la NASA, in parte per avere più tempo per condurre campagne). Due anni fa, quando sono stata arrestata all’esterno della Casa Bianca in un’azione di massa contro la conduttura delle sabbie bituminose Keystone XL, una delle 166 persone in manette quel giorno era un glaciologo di nome Jason Box, un esperto di fama mondiale della fusione della coltre di ghiaccio della Groenlandia.

“Non avrei potuto conservare il rispetto di me stesso se non avessi partecipato”, ha dichiarato Box all’epoca, aggiungendo che “limitarsi a votare non sembra essere sufficiente in questo caso. Io ho bisogno di  essere anche un cittadino.”

Questo è lodevole, ma quello che Werner sta facendo con il suo modello è diverso. Non sta dicendo che la sua ricerca l’ha spinto a intraprendere azioni dirette per fermare una particolare politica; sta dicendo che la sua ricerca dimostra che il nostro intero paradigma economico è una minaccia alla stabilità ecologica. E, in effetti, che contrastare tale paradigma economico – con la contro-pressione del movimento di massa – è l’arma migliore dell’umanità per evitare la catastrofe.

E’ roba pesante. Ma non è solo. Werner fa parte di un gruppo piccolo, ma sempre più influente, di scienziati le cui ricerche sulla destabilizzazione dei sistemi naturali – in particolare del sistema climatico – stanno portandoli a conclusioni analogamente trasformative, persino rivoluzionarie. E per ogni rivoluzionario da scrivania che abbia mai sognato di rovesciare l’attuale ordine economico a favore di uno che abbia meno probabilità di costringere i pensionati italiani a impiccarsi a casa loro, questo lavoro dovrebbe essere di speciale interesse. Perché rende il disfarsi di quel sistema crudele a favore di qualcosa di nuovo (e forse, con parecchio lavoro, di migliore) non più una questione di mere preferenze ideologiche, bensì piuttosto una questione di necessità esistenziale a livello della nostra specie.

A guidare il gruppo di questi rivoluzionari scientifici c’è uno dei maggiori esperti britannici del clima, Kevin Anderson, vicedirettore del Centro Tyndall per le Ricerche sul Cambiamento Climatico, che si è rapidamente consolidato come una delle principali istituzioni del Regno Unito di ricerca sul clima. Rivolgendosi a tutti, dal Dipartimento dello Sviluppo Internazionale e Consiglio Comunale di Manchester, Anderson ha speso più di un decennio a tradurre pazientemente le implicazioni della più recente scienza climatica a politici, economisti e conduttori di campagne. In un linguaggio semplice e chiaro egli espone un percorso rigoroso per la riduzione delle emissioni, che offre una possibilità decente di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto due gradi Celsius, un obiettivo che la maggior parte dei governi ha deciso preverrebbe la catastrofe.

Ma in anni recenti i documenti e le diapositive di Anderson sono diventati più allarmanti. Sotto titoli quali “Cambiamento climatico: Ormai più che pericoloso … cifre brutali e tenue speranza”, egli segnala che le possibilità di restare entro qualcosa che si avvicini a livelli di temperatura sicuri si stanno riducendo rapidamente.

Con la collega Alice Bows, un’esperta di mitigazione del clima al Centro Tyndall, Anderson segnala che abbiamo perso così tanto tempo a causa dello stallo politico e di politiche climatiche deboli – il tutto mentre il consumo globale (e le emissioni) saliva alle stelle – che ora abbiamo di fronte tagli tanto drastici da sfidare la logica fondamentale della priorità del PIL su ogni altra cosa.

Anderson e Bows ci informano che il tanto spesso citato obiettivo di mitigazione a lungo termine – un taglio dell’80% delle emissioni sotto i livelli del 1990 entro il 2050 – è stato scelto puramente per obiettivi di convenienza politica e non ha “alcuna base scientifica”. Ciò è dovuto al fatto che gli impatti sul clima non derivano da quel che emettiamo oggi o emetteremo domani, bensì dalle emissioni cumulative che si sommano nel tempo nell’atmosfera. E ci avvertono che concentrandosi su obiettivi distanti tre decenni e mezzo nel futuro – anziché su ciò che possiamo fare rapidamente e immediatamente per tagliare il carbonio – c’è in grave rischio che consentiremo alle nostre emissioni di continuare a crescere negli anni a venire, influenzando troppo il nostro “budget del carbonio” di 2 gradi e mettendoci in una situazione impossibile più in là nel secolo.

Ed è questo il motivo per cui Anderson e Bows sostengono che se i governi fanno sul serio riguardo al conseguire l’obiettivo concordato a livello internazionale di mantenere il riscaldamento entro i 2 gradi Celsius, e se le riduzioni devono rispettare un qualche principio di equità (fondamentalmente che i paesi che hanno diffuso emissioni per la maggior parte di due secoli devono tagliare prima dei paesi dove più di un miliardo di persone è privo di elettricità) allora le riduzioni devono essere molto più marcate e devono essere realizzate molto prima.

Per avere almeno una possibilità del 50% di colpire il bersaglio dei 2 gradi (che essi e molti altri avvertono comportare già una serie di impatti climatici enormemente dannosi) i paesi industrializzati devono cominciare a tagliare le loro emissioni di gas serra di qualcosa come il 10 per cento l’anno, e devono cominciare ora. Ma Anderson e Bows si spingono più in là, segnalando che questo bersaglio può non essere raggiunto con la serie di modesti prezzi del carbonio o con le soluzioni della tecnologia verde solitamente promossi dai gruppi verdi. Queste misure indubbiamente contribuiranno, è un fatto, ma semplicemente non sono sufficienti: una riduzione delle emissioni del 10 per cento, anno dopo anno, è qualcosa virtualmente senza precedenti da quando abbiamo cominciato a fornire energia alle nostre economie con il carbone. In realtà tagli superiori all’1 per cento annuo “sono stati storicamente associati solo a recessioni o sconvolgimenti economici”, come ha detto l’economista Nicholas Stern nel suo rapporto del 2006 per il governo britannico.

Persino dopo il crollo dell’Unione Sovietica non si sono verificate riduzioni di tale durata e portata (i paesi ex sovietici hanno sperimentato riduzioni medie annue di circa il 5 per cento in un periodo di dieci anni). Non si sono verificate dopo il crollo di Wall Street nel 2008 (i paesi ricchi hanno sperimentato un calo di circa il 7 per cento tra il 2008 e il 2008, ma le loro emissioni di CO2 sono rimbalzate con gusto nel 2010 e le emissioni in Cina e in India hanno continuato a crescere). Solo immediatamente dopo il grande crollo dei mercati nel 1929 gli Stati Uniti, ad esempio, hanno visto calare le loro emissioni per molti anni consecutivi di più del 10 per cento l’anno, secondo dati storici del Centro di Analisi delle Informazioni sull’Anidride Carbonica. Ma quella fu la peggior crisi economica dei tempi moderni.

Se dobbiamo evitare quel tipo di carneficina nel conseguire i nostri obiettivi di emissioni basati sulla scienza, la riduzione del carbonio deve essere gestita con attenzione mediante quelle che Anderson e Bows descrivono come “strategie radicali e immediate di decrescita negli Stati Uniti, nella UE e in altri paesi ricchi”. Il che va bene, solo che capita che noi abbiamo un sistema economico che fa della crescita del PIL un feticcio sopra tutto il resto, indipendentemente dalle conseguenze umane o ecologiche, e in cui la classe politica neoliberale ha totalmente abdicato dalle sue responsabilità di gestire qualcosa (poiché il mercato è il genio invisibile cui tutto deve essere affidato).

Così, quello che Anderson e Bows stanno dicendo in realtà è che c’è ancora tempo per evitare un riscaldamento catastrofico ma non mantenendo le regole del capitalismo come sono costruite attualmente. Il che può essere l’argomento migliore che abbiamo mai avuto per cambiare tali regole.

In un saggio del 2012 apparso sull’influente rivista scientifica Nature Climate Change Anderson e Bows hanno lanciato una specie di guanto di sfida, accusando molti dei loro colleghi scienziati di non dire la verità sul genere di cambiamenti che il cambiamento climatico esige dall’umanità. Al riguardo val la pena di citare la coppia per esteso:

negli scenari di sviluppo delle emissioni gli scienziati minimizzano ripetutamente e gravemente le implicazioni delle loro analisi. Quando si tratta di evitare un aumento di due gradi, “impossibile” è tradotto in “difficile ma fattibile”, mentre “urgente e radicale” emerge come “impegnativo”, tutto per compiacere il dio dell’economia (o, più precisamente, della finanza). Ad esempio, per evitare di superare il tasso massimo di riduzione delle emissioni imposto dagli economisti, sono presupposti picchi iniziali “impossibili” di emissioni, assieme a nozioni ingenue su “grandi” ingegnerie e sui tassi di sviluppo delle infrastrutture a basso carbonio. In modo più inquietante, col ridursi dei budget delle emissioni, la geoingegneria è sempre più proposta come garanzia che il diktat degli economisti resti fuori discussione.

In altre parole, al fine di apparire ragionevoli nei circoli economici neoliberali, gli scienziati hanno comunicato in modo enormemente addolcito le implicazioni delle loro ricerche. Arrivati all’agosto 2013, Anderson ha voluto essere ancora netto, scrivendo che la barca del cambiamento graduale se n’era partita. “Forse all’epoca del Vertice della Terra del 1992, o anche al volgere del millennio, il livello di mitigazione di due gradi centigradi avrebbe potuto essere raggiunto mediante significativi cambiamenti evolutivi nella egemonia politica ed economica. Ma il cambiamento climatico è un problema di accumulo! Oggi, nel 2013, noi delle nazioni (post) industriali ad alte emissioni abbiamo di fronte una prospettiva molto differente. La nostra continua e collettiva sconsideratezza riguardo al carbonio ha dilapidato ogni opportunità di un “cambiamento evolutivo” consentito dal nostro precedente (e più ampio) budget del carbonio di due gradi centigradi. Oggi, dopo due decenni di finzioni e menzogne, il restante budget di due gradi impone un cambiamento rivoluzionario della egemonia politica ed economica.” (evidenziazioni dell’autore).

Probabilmente non dovrebbe sorprenderci che alcuni scienziati del clima siano un po’ spaventati dalle implicazioni radicali delle loro stesse ricerche. La maggior parte di loro faceva tranquillamente il proprio lavoro misurando lo spessore dei ghiacci, elaborando modelli climatici globali e studiando l’acidificazione degli oceani solo per scoprire, come dice l’esperto australiano del clima e giornalista Clive Hamilton, che “stavano inconsapevolmente destabilizzando l’ordine politico e sociale”.

Ma ci sono molti che sono ben consapevoli della natura rivoluzionaria della scienza del clima. E’ per questo che i governi che hanno deciso di abbandonare i loro impegni sul clima a favore dell’estrazione di altro carbonio hanno dovuto trovare modi sempre più aggressivi per far tacere e intimidire gli scienziati delle loro nazioni. In Gran Bretagna questa strategia sta diventando più trasparente, con Ian Boyd, il consigliere scientifico capo presso il Dipartimento dell’Ambiente, dell’Alimentazione e degli Affari Rurali, che di recente ha scritto che gli scienziati dovrebbero evitare “di suggerire che le politiche sono giuste o sbagliate” e dovrebbero esprimere le loro idee “collaborando con i consiglieri inseriti (come me) ed essendo la voce della ragione, piuttosto che del dissenso, nell’arena pubblica”.

Se volete sapere dove porta tutto questo, controllate che cosa sta succedendo in Canda, dove io vivo. Il governo conservatore di Stephen Harper ha fatto un lavoro così efficace nell’imbavagliare gli scienziati e nel chiudere programmi critici di ricerca che, nel luglio del 2012, un paio di migliaia di scienziati e sostenitori ha tenuto un finto funerale all’esterno della sede del Parlamento a Ottawa, in lutto per “la morte delle prove”. I loro cartelli dicevano: “Niente scienza, niente prove, niente verità”. 

Ma la verità sta emergendo comunque. Il fatto che continuare come al solito a perseguire profitti e crescita stia destabilizzando la vita sulla terra non è più qualcosa di cui dobbiamo leggere nelle riviste scientifiche. I primi segnali si stanno mostrando sotto i nostri occhi. E un numero crescente di noi sta reagendo di conseguenza: bloccando l’attività di fratturazione idraulica, interferendo con i preparativi per le trivellazioni in acque russe (con enormi costi personali), portando in tribunale gli operatori delle sabbie bituminose per aver violato la sovranità indigena e con innumerevoli altre iniziative di resistenza grandi e piccole. Nel modello al computer di Brad Werner questa è la “frizione” necessaria per rallentare le forze della destabilizzazione; il grande attivista del clima Bill McKibben li definisce gli “anticorpi” che si schierano a combattere l’”impennata di febbre” del pianeta.

Non è una rivoluzione, ma è un inizio. E potrebbe garantirci semplicemente tempo sufficiente a ideare un modo di vivere su questo pianeta che sia decisamente meno fott….o.

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Naomi Klein, autrice di “La dottrina dei disastri” e di “No Logo”, sta lavorando a un libro e a un film sul potere rivoluzionario del cambiamento del clima. Potete seguirle su Twitter a @naomiaklein

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Fonte: Z Net Italy

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Donne, la Resistenza “taciuta”

 

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– Partigiane: 35.000
– Patriote: 20.000
– Gruppi di difesa: 70.000 iscritte
– Arrestate, torturate: 4.653
– Deportate: 2.750
– Commissarie di guerra: 512
– Medaglie d’oro: 16
– Medaglie d’argento: 17
– Fucilate o cadute in combattimento: 2.900

 

In tutte le città del Nord Italia liberato dal nazi-fascismo, grazie all’intervento delle truppe alleate anglo-americane e, nondimeno grazie alla strenua, lunga lotta clandestina, combattuta dai partigiani, il 1° maggio 1945, si festeggiano, contemporaneamente, la Festa del Lavoro e quella della Liberazione.

Questa prima celebrazione avviene dopo oltre vent’anni di regime che, ha portato un’intera Nazione allo sfacelo, costringendo, negli anni più difficili, quelli della guerra, donne, anziani e bambini a vivere, di giorno, in funzione della affannosa ricerca di cibo e, di notte, in funzione della disperata ricerca di un rifugio.

La festa del 1° Maggio 1945 assume, pertanto, un significato emblematico per un popolo che riconquista la propria dignità e la propria libertà.

In questo contesto festoso in ogni città del Nord si assiste al tripudio dei partigiani, che sfilano in mezzo alla folla esultante.

Bandiere dei partiti antifascisti vengono esposte alle finestre; anche le donne con fazzoletti rossi o verdi si uniscono alla festa, cantando e ballando i motivi americani, in voga.

Ma le donne non sfilano insieme ai partigiani.

“C’è, nei confronti delle donne che hanno partecipato alla Resistenza, un misto di curiosità e di sospetto… E’ comprensibile … che una donna abbia offerto assistenza a un prigioniero, a un disperso, a uno sbandato, tanto più se costui è un fidanzato, un padre, un fratello… L’ammirazione e la comprensione diminuiscono, quando l’attività della donna sia stata più impegnativa e determinata da un a scelta individuale, non giustificata da affetti e solidarietà familiari. Per ogni passaggio trasgressivo, la solidarietà diminuisce, fino a giungere all’aperto sospetto e al dileggio.”

Così scrive MIRIAM MAFAI nel noto volume Pane nero, più volte ristampato (ora in Oscar Mondadori, p. 263).

Recenti studi storici hanno saputo conferire il dovuto risalto a quello che impropriamente viene definito “ruolo”, “contributo”, “partecipazione femminile” nella Resistenza Italiana.

Note storiche, quali Mirella Alloisio, Giuliana Beltrami, Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Marina Addis Saba, Victoria De Grazia, Delfina Tromboni, attraverso le loro ricerche, nonché attraverso numerose, preziose interviste a donne, che assunsero parte attiva nella lotta, a fianco dei partigiani, hanno creato un quadro composito ed omogeneo di quella parte della Resistenza, “lungamente taciuta”.

Il principio che accomuna i sopramenzionati studi storici si estrinseca nell’analisi a quei vocaboli, propri della storiografia ufficiale, volti a conferire alle donne un ruolo marginale nella guerra partigiana.

Mentre il termine partecipazione rende un po’ più di giustizia, perché in sostanza, significa “prender parte” (ma come sottolinea Anna Bravo, non significa ancora “fare parte”), il termine “contributo”, invece, non ha neppure questo connotato.

In fondo chi oserebbe parlare di “contributo maschile” nella Resistenza?

Persiste, dunque, ancora, sul piano linguistico, uno scarto non superato, non risolto: “lo scarto tra ciò che di una donna si pensava potesse fare prima della resistenza e di ciò che si pensa possa fare dopo, per il semplice motivo che l’ha fatto”.

Questa è la sintetica, ma efficace interpretazione storico-linguistica che, D. TROMBONI E L. ZAGAGNONI compiono nel loro pregevole Con animo di donna, UDI – Archivio Storico, 1991.

In Partigiane – Tutte le donne della Resistenza, Mursia Editore, Milano, 1998, la storica Marina Addis Saba, precisa che l’impegno femminile, durante la guerra di liberazione, “disconosciuto e poco noto”, si orientò verso due direzioni: l’una dettata dalla necessità, fu quella di resistere e di dare assistenza ai partigiani, attraverso molteplici attività materiali, dalla cura ai feriti, al trasporto di armi, munizioni e cibo, anche nelle zone più impervie, nei nascondigli dei partigiani, in mezzo ai monti.

L’altra direzione dell’impegno femminile è stata quella politica.

Numerosissime donne, di ogni estrazione sociale, operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti, in città, così come in campagna, organizzarono veri e propri corsi di preparazione politica e tecnica, di specializzazione per l’assistenza sanitaria, per la stampa dei giornali e dei fogli del Comitato di Liberazione Nazionale e per la divulgazione di stampa e volantini di propaganda, a favore della lotta partigiana.

A rafforzare l’impegno politico femminile, durante la Resistenza, è testimonianza un organismo creato nel novembre del 1943 a Milano, da alcune donne appartenenti ai partiti del CLN (Giovanna Barcellona, Giulietta Fibbi e Rina Picolato, comuniste; Laura Conti e Lina Merlin, socialiste; Elena Drehr e Ada Gobetti, azioniste).

Tale organizzazione prende il nome di Gruppo di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà”. Da una stima effettuata a guerra finita, nei GDD costituitisi in tutta Italia si contano circa 59.000 donne.

In Volontarie della libertà di Mirella Alloisio e Giuliana Beltrami, Mazzotta Edit., 1981, emerge, con chiara evidenza, l’impegno che, attraverso i GDD, le partigiane, iniziano a manifestare. Il loro compito, in primo luogo, consiste nell’allargare la rete delle aderenti, cercando di avvicinare le donne e di spiegare loro quale importanza strategica, può derivare dal coinvolgimento nella guerra di liberazione.

Ancora manca l’abitudine ad affrontare argomenti quali libertà, giustizia, ma il coraggio e la determinazione hanno la meglio.

Non si può affermare, dunque, che sia l’incoscienza o l’ignoranza ad animare moltissime donne, a far correre loro rischi inenarrabili, pur di portare a compimento un’azione, quale può essere la consegna di un messaggio, che informa degli spostamenti dei tedeschi un gruppo di partigiani, altrimenti isolati in zone impervie di montagna o in altri nascondigli pressoché irragiungibili.

E’ invece indubitabile che le donne vivono la consapevolezza di combattere per una causa giusta e che in numero considerevole partecipano alla formazione dell’opposizione antifascista, fulcro della guerra di liberazione.

Nell’immediato dopo-guerra, infatti, le donne italiane conseguono il diritto di cittadinanza, attraverso il voto, quale pieno riconoscimento della loro ormai matura coscienza politica.

Solo allora viene affermata l’eguaglianza nei diritti del lavoro e nella famiglia, grazie alla Costituzione repubblicana, “che è il frutto più maturo della Resistenza”, come ricorda Marina Addis Saba.

(schede a cura di Katia Romagnoli)

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Fonte: Resistenzaitaliana.it

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