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Scuola e violenza | Analisi comportamentale in campo educativo

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La violenza nella e della scuola

di Paolo Mottana*

Come è noto in questi tempi quasi ogni giorno si ha notizia di violenza nella scuola. La cronaca ne è piena, con una particolare sottolineatura per quanto riguarda la violenza di ragazzi nei confronti di altri ragazzi ma anche di ragazzi verso i professori e di genitori verso i professori. Meno si ha notizia di violenza da parte di professori nei confronti dei ragazzi e meno ancora di violenze di professori verso i genitori.

Cerchiamo, senza retorica, senza scorciatoie, senza l’enfasi che la voglia di schierarsi imprime al dibattito, dividendo tra assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni facili e talora miopi. La questione è molto complessa e richiede di tenere conto di un grande insieme di variabili, in assenza delle quali il giudizio è semplificatorio e inutile.

Anzitutto chiediamoci. A che tipo di violenze assistiamo nella scuola e, in secondo luogo, è la scuola un luogo violento? Io credo che le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se molte di esse risultano spesso poco visibili e ignorate, mentre di fatto vanno chiamate in causa per capirci qualcosa.

La scuola è un’istituzione normativa e, in parte, violenta. Lo è anzitutto in quanto “obbliga” bambini e ragazzi a trasferirsi massicciamente dai loro ambienti propri in ambienti fortemente regolati e estranei che non hanno scelto e all’interno dei quali sono tenuti a osservare moltissime norme che limitano pesantemente la loro libertà di muoversi, di essere soggetti a pieno titolo e di esprimersi spontaneamente.

Questo non dobbiamo mai dimenticarlo. La nostra società ha scelto, con piena corresponsabilità di tutti, genitori compresi, di rinchiudere bambini e ragazzi all’interno di una struttura che loro non hanno scelto e riguardo alla quale hanno una possibilità molto limitata di incidere e di far valere il proprio punto di vista. Questo vale anche per i genitori e per alcuni insegnanti più sensibili a questo ordine di obblighi non sempre sensati per quanto attiene i processi di apprendimento che dovrebbero verificarsi al suo interno.

Noi chiediamo ai nostri bambini e ragazzi (e mi scuso se ogni volta non aggiungo, come sarebbe giusto, bambine e ragazze ma è per semplicità) di alzarsi molto presto la mattina (cosa che in molti casi è una vera e propria violenza ai loro ritmi biologici) e di trasferirsi dai loro luoghi famigliari in luoghi non proprio esaltanti sotto il profilo estetico, del clima umano e dell’ospitalità, che noi chiamiamo scuole.

All’interno di questi luoghi poi vengono concentrati in gruppi che non scelgono, di fatto al comando di adulti, gli insegnanti,  che hanno il compito di far rispettare una disciplina piuttosto esigente (silenzio, ordine, riduzione radicale del libero movimento e della libera espressione ecc.) per effettuare attività principalmente cognitive non sempre gradite sotto la minaccia di valutazioni, sanzioni, procedure punitive ecc. I corpi e le menti dei bambini e dei ragazzi trattati in questo modo soffrono di una palese repressione e di una costante vigilanza che spesso travalica anche il buon senso, arrivando a censurare abbigliamenti, linguaggi, gesti che appartengono di fatto alla pienezza di espressione dei piccoli in crescita.

Ciò che si fa nella scuola è spesso fratturato in piccole unità difficili da ricomporre e delle quali comprendere il senso, è appesantito da compiti e prove continue o comunque molto frequenti non sempre rispettose delle esigenze individuali di tempi di apprendimento non standardizzabili specie su grandi numeri.

A tutto questo e altro che ora non posso, per esigenze di spazio, mettere in luce (organizzazione del tempo libero e delle uscite dalla classe, tempi fisiologici di riposo e “ricreazione”, tempo di libera espansione corporale ed espressiva ecc. ecc.), si aggiunge talora l’atteggiamento autoritario e minaccioso di alcuni adulti insegnanti, il che non fa che aumentare il carico di umiliazioni, soggiogamento e minaccia talora gratuita che i piccoli devono sopportare sempre in assenza di un loro spontaneo e attivo consenso.

Noi non possiamo mai dimenticare tutto questo, in special modo se teniamo conto, come dimostrano innumerevoli studi, del ruolo che la libertà relativa, il clima affettivo e supportivo e soprattutto il coinvolgimento appassionato ha sul processo di apprendimento, su qualsiasi processo di apprendimento.

Intendiamoci, non che queste norme non valgano in parte anche per gli insegnanti, che si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi per le loro risorse, a dover impartire insegnamenti che appunto impattano nel disinteresse dei soggetti in carico e di dover, sempre in ragione della strutturazione disciplinare e ricattatoria dell’insegnamento, trattare una popolazione sofferente e poco propensa a seguirli.

E tuttavia è chiaro che le punizioni, le sanzioni e la minaccia aumentano in proporzione diretta con il grado di sofferenze, di mancato coinvolgimento e di libertà che i soggetti in apprendimento sperimentano all’interno della struttura “concentrazionaria” nella quale sono obbligati a restare per una parte preponderante del loro tempo di vita.

In un contesto di tale genere io credo che si debba parlare di violenza diffusa, con gradazioni e sfumature anche molto diverse ma intrinseca al funzionamento dell’istituzione stessa.

I bambini e i ragazzi sono molto diversi gli uni dagli altri, come è normale che sia, e reagiscono a questo trattamento in maniera molto diversa. Ci sono alunni che, per ragioni anche di ordine psicologico, beneficiano di una strutturazione anche rigida, cioè trovano nella “funzione quadro” garantita dal contesto, come spiega René Kaes in un testo ormai vecchio ma sempre verde, L’istituzione le istituzioni, un ancoraggio rassicurante e funzionale. Per altri invece una tale strutturazione, spesso imbastardita dall’eccesso di controllo e di sanzioni, è insopportabile. In mezzo ci sono molte sfumature.

Fino a qualche decennio fa tutto questo sembrava pacifico. Secondo una visione piuttosto ottusa, mi si conceda, della psicologia dei bambini, si riteneva che l’obbligo, la frustrazione, il sacrificio, fossero in sé cosa buona e giusta per farli crescere. Un’idea antica e profondamente legata a una formazione adattiva per contesti di vita molto difficili e conflittuali che teneva in considerazione l’individualità e la soggettività dei bambini ben poco.

Nel giro di alcuni decenni, a partire dagli anni Sessanta ma anche molto prima in modo meno massiccio, si è allargata la nostra visione (anche grazie ai molti studi di pedagogia nuova e attiva che apparivano via via e alle sperimentazioni ad essi legate) a una comprensione più ampia del bambino e della necessità di tenere più conto di un processo che dobbiamo chiamare di soggettivazione individuale, di scoperta e coltivazione dei suoi talenti specifici e di autonomia. Pedagogisti, educatori e molti genitori si sono andati via via sensibilizzando intorno questa diversa comprensione e non hanno più colluso con un trattamento educativo fondato sulla sofferenza, sul rigore e sulla frustrazione.

Nel contempo tuttavia la società ha continuato ad essere un luogo di conflitti, di vera e propria guerra sempre più individualizzata e disorganizzata per il lavoro, per il successo e per il denaro. Teniamo conto anche di questo perché è questo che vedono, manifesto in ogni luogo, i nostri cuccioli intorno a loro, spesso nei loro genitori o nei ragazzi più grandi o, in mole davvero pervasiva, attraverso i media.

Tutto ciò non può che fare cortocircuito. Oggi molte famiglie sono sensibili alla salute psichica, fisica e affettiva dei propri figli (quello che viene chiamato il fenomeno della “famiglia affettiva” nei confronti della quale francamente non riesco a trovare nessun elemento di recriminazione perché finalmente è una famiglia che “vede” i propri bambini, o almeno ci prova e non è più disposta a delegarne completamente l’educazione a una struttura così poco comprensiva come quella scolastica). Gli insegnanti stessi, in una misura notevole, hanno cominciato a rendersi conto che occorre cambiare registro, anche se l’organizzazione scolastica ha fatto ben poco per venire loro incontro e, di fatto, il funzionamento dell’istituzione è cambiato, specie sotto il profilo disciplinare, ben poco. Come poco è cambiato sul piano dei saperi da apprendere, del modo di trattarli e delle prove di valutazione, che semmai sono diventate ancora più invasive e persecutorie.

Noi non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione. La scuola è un luogo violento, dove si consuma violenza quotidiana, dove le libertà essenziali dei bambini e dei ragazzi sono ridotte al minimo vitale.

È chiaro che oggi nel mondo c’è un clima che tende anche a incoraggiare questa ribellione, c’è più comprensione, c’è più contraddizione. Ma intendiamoci, e qui mi permetto di prendere posizione, questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione.

I bambini e i ragazzi sono soggetti a pieno titolo che hanno il diritto di essere accolti nel migliore dei modi possibile, di essere incoraggiati a trovare e intraprendere le “loro” strade, che devono essere valorizzati nelle loro differenze e ascoltati, che devono avere tempi di riposo, di libertà, di scatenamento come è consono con le esigenze dei loro corpi e della loro età.

Finiamola con il moralismo becero del tipo che occorre frustrarli perché altrimenti se ne occuperà la società. Un bambino frustrato non sarà per questo più capace di affrontare le frustrazioni della vita. Si abituerà solo a sopportarle e a non criticarle, a non cercare di cambiarle, avendo introiettato gli schemi della sottomissione e dell’accettazione.

Perché mettiamo i nostri figli al mondo se davvero crediamo che la realtà faccia schifo e che loro devono imparare da subito a essere sanzionati, normati, privati delle loro libertà? Stiamo scherzando? Con questo non voglio giustificare nessuno. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità ma non dobbiamo dimenticarci mai quale sia l’origine del problema, dove si annidi, chi siano i suoi attori primari. Il resto sono conseguenze, più o meno folli. Ma il punto di scaturigine sta in un meccanismo sbagliato ab initio.

Occorre cambiare, se vogliamo che domani cambi anche una società che non ha di meglio da dire ai suoi cuccioli se non imparate oggi a soffrire perché domani sarà peggio.

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Fonte: comune-info.net

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* Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione. Tra i suoi ultimi libri La città educante (Asterios). Altri articoli di Mottana sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna di Comune Un mondo nuovo comincia da qui

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Disumani

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Libia – Esseri umani venduti all’asta dai trafficanti

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La politica dell’Unione Europea di assistere la guardia costiera libica nell’intercettare e respingere i migranti nel Mediterraneo è disumana. La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità. La comunità internazionale non può continuare a chiudere gli occhi sugli orrori inimmaginabili sopportati dai migranti in Libia”.

Questo il duro comunicato dell’ONU sulla strategia adottata dal nostro Governo con l’avvallo e il finanziamento della UE per bloccare chi fugge da guerre, regimi dispotici e fondamentalisti islamici (Iran, Eritrea, Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Nigeria, Niger, Ciad, Ghana, Gambia ecc.) o semplicemente dalla fame e dalla povertà.

La CNN ha poi documentato (anche con un video) la vendita all’asta di migranti in Libia [1].

Sea Watch, una ong tedesca, e la Marina Militare Italiana hanno filmato come la Guardia Costiera libica “salva i migranti” (picchiandoli, partendo a tutta velocità mentre i migranti sono appesi alle corde, lanciando patate ai volontari che si prodigano per salvare chi sta annegando) [2, 3].

I fatti accaduti in questi giorni stanno aprendo gli occhi a tanti che avevano creduto alle rassicurazioni del ministro Minniti che i salvataggi in mare sarebbero stati effettuati dalla Guardia costiera libica, che i migranti nei “CIE libici” sarebbero stati trattati come in Italia, rimpatriando i non aventi diritto e accogliendo gli altri. Una favola raccontata come se fosse realtà, a cui molti hanno voluto credere. Ora si moltiplicano i “Non sapevamo”, “Non immaginavamo”, “Episodi da condannare” ecc. Lacrime di coccodrillo e dichiarazioni ipocrite. In realtà sapevano e sanno benissimo qual è la situazione in Libia. Bastava leggere i rapporti di Amnesty, di Human Right Watch, dell’ONU, degli istituti di studi geopolitici. Oppure sentire le innumerevoli testimonianze dei migranti che sono giunti in Italia o leggere le inchieste del New York Times, del Washington Post, del Guardian, dell’Indipendent, dell’agenzia Reuters (inchieste spesso documentate con foto e video) [4, 5, 6, 7, 8].

Amnesty: “Rifugiati e migranti sono vittime di gravi abusi da parte di gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti di esseri umani, oltre che delle guardie dei centri di detenzione amministrati dalle autorità governative”; “I Centri di detenzione sono spesso gestiti dai gruppi armati che operavano al di fuori dell’effettivo controllo del Governo. In queste strutture sono tenuti in condizioni squallide e sottoposti a tortura e altri maltrattamenti da parte delle guardie, compresi pestaggi, sparatorie, sfruttamento e violenza sessuale”; “In alcune occasioni, la guardia costiera si è resa responsabile di abusi, anche aprendo il fuoco contro le imbarcazioni o abbandonandole in mare aperto e picchiando i migranti e i rifugiati, a bordo delle loro motovedette e all’arrivo sulla costa” [9].

Human Right Watch: “La Guardia costiera libica usa metodi violenti nel trattare i migranti”, “E’ collusa con i trafficanti di esseri umani”; “Vengono ricondotti in Libia dove li attende un trattamento disumano fatto di torture e stupri fino ad essere ricattati e venduti come schiavi sessuali o per lavori abbrutenti”; “Gli osservatori sono rimasti sconvolti da ciò che hanno visto: migliaia di uomini, donne e bambini emaciati e traumatizzati, ammassati l’uno sull’altro, bloccati in capannoni” [10].

ONU (OIM): “La situazione in Libia è terribile. Le notizie di ‘mercati degli schiavi’ si uniscono alla lunga lista di orrori” (dichiarazione dell’aprile 2017); “Il capo della Guardia costiera di Zawiyah è contemporaneamente a capo di una milizia in combutta con i trafficanti”; “I trafficanti di ieri sono le forze anti-trafficanti di oggi” [11].

Potremmo continuare a lungo. La realtà è questa: l’Italia ha fatto accordi con un Governo non unanimamente riconosciuto, con “sindaci”, capimilizie e trafficanti (spesso queste tre figure coincidono), dando loro ingenti somme (decine di milioni di euro) purché fermino i migranti che vogliono venire in Italia, facendo finta di non sapere che in Libia vige l’anarchia (230 milizie che controllano altrettanti parti del territorio) [9]. Che questo avrebbe comportato altri morti, torture, schiavismo, stupri lo sapevano benissimo. Il giorno in cui il Governo italiano esultava per l’accordo raggiunto Amnesty dichiarava: “Oggi le autorità italiane hanno dimostrato che considerano più importante tenere migranti e rifugiati alla larga dalle loro coste piuttosto che proteggere le loro vite e la loro incolumità”.

Più volte abbiamo richiamato l’attenzione sulla tragedia di chi subisce la guerra, la dittatura, la persecuzione o la povertà e decide di lasciare il suo Paese per cercare condizioni di vita “umane” in un Paese straniero, come hanno fatto in passato tanti italiani e come un domani potremmo fare noi o i nostri figli [12].

Accogliere chi è in pericolo è un dovere morale al quale siamo obbligati anche dalla nostra Costituzione: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”. Il numero di persone che chiede di entrare in Italia non è ingente (negli ultimi anni è stato tra i 17.000 e i 170.000 all’anno) per un Paese di 60 milioni di abitanti che ogni anno ne perde 130.000 (saldo morti-nati), con sempre meno giovani e sempre più vecchi, dove nessuno più vuole fare determinati lavori (il pecoraio, il badante ecc.). Che i migranti fanno aumentare la criminalità, portano malattie e ci islamizeranno sono bufale che cozzano con i dati della realtà.

Dobbiamo chiederci chi e perché ci racconta queste bufale? Chi e perché agita le nostre paure? Chi e perché vuole che perdiamo la nostra umanità e adottiamo come massima di vita “Me ne frego”? Chi e perché vuole che perdiamo i valori di fraternità, uguaglianza, libertà così faticosamente affermati?  

Pio Russo Krauss   (Il giardino di Marco)

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Note: 1) http://edition.cnn.com/2017/11/14/africa/libya-migrant-auctions/index.html; 2) www.rainews.it/dl/rainews/media/Naufragio-Migranti-un-video-non-lascia-dubbi-la-motovedetta-libica-se-ne-va-lasciandolo-in-mare-8d5adb02-6004-4010-9406-a30e1924abb9.html; 3) https://sea-watch.org/en/update-evidence-for-reckless-behavior-of-libyan-coast-guards; 4) https://www.nytimes.com/2017/09/25/opinion/migrants-italy-europe.html?mcubz=1; 5) www.washingtonpost.com/news/monkey-cage/wp/2017/09/25/italy-claims-its-found-a-solution-to-europes-migrant-problem-heres-why-italys-wrong/?utm_term=.d297f5baad85; 6) www.theguardian.com/world/2017/may/22/libyan-government-shut-inhumane-refugee-detention-centres-un; 7) www.independent.co.uk/news/world/africa/ross-kemp-libya-migrant-hell-video-documentary-sky-refugees-torture-rape-detention-mediterranean-a7587811.html; 8) www.reuters.com/article/us-europe-migrants-libya-italy-exclusive/exclusive-armed-group-stopping-migrant-boats-leaving-libya-idUSKCN1B11XC; 9) www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2016-2017/medio-oriente-africa-del-nord/libia; 10) www.hrw.org/world-report/2017/country-chapters/libya; 11) https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/N1711623.pdf; 12) vedi i messaggi del 7/9/17, 9/3/17 e 10/2/17 www.giardinodimarco.it/archivio.htm e vedi i video www.youtube.com/watch?v=pOZvhzfhFfE e www.youtube.com/watch?v=dochQxEMRZA&t=611s

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“Siamo violenti, è la natura umana… Queste asserzioni sono basate sul nulla.”

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Kalahari - Famiglia boscimane (Gruppo etnico più antico dell'Africa)

Kalahari – Famiglia boscimane (Gruppo etnico più antico dell’Africa)

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La violenza non sarebbe sempre esistita

Scienziati e fautori dell’empatia si sono uniti in un progetto semplice e ambizioso: dimostrare che la brutalità non è inerente all’animale umano, e che possiamo cambiare.

Di Marylène Patou-Mathis, storica della preistoria

No, la violenza non è sempre esistita.

Ci fu un tempo nel quale non c’era nessuna violenza. Non si tratta di un sogno, di una favola da speculazione filosofica ma lo scenario che sempre più spesso viene delineato dalla scienza, alla confluenza tra archeologia, antropologia, biologia evolutiva, discipline che studiano il cervello e la psiche. All’immagine di una natura umana impastata di violenza e competizione il pensiero contemporaneo ne sostituisce un’altra, fatta di empatia e cooperazione. Le attuali conoscenze circa la natura umana rendono quindi possibile immaginare un mondo senza massacri, senza guerre, senza brutalità: niente di tutto questo sarebbe infatti inevitabile, dato ciò che siamo…

Medico, psicoterapeuta e regista, il francese Michel Meignant esplora questo territorio in un documentario in preparazione, per il quale è in corso una campagna di raccolta fondi partecipativa (leggi qui sotto). Abbiamo intervistato due delle partecipanti.

Una preistoria pacifica

La morte violenta inflitta da un essere umano a un altro compare tardi rispetto alla comparsa dell’umanità stessa e resta a lungo un fenomeno molto limitato. Questo è quanto emerge dalle testimonianze archeologiche. Nel 2013 Marylène Patou-Mathis, storica della preistoria e direttrice del centro di ricerca presso il CNRS, ha dedicato un libro al tema, Préhistoire de la violence et de la guerre (edizioni Odile Jacob). “Sono partita dal senso di fastidio che mi derivava dal sentir ripetere sempre la stessa cosa: siamo violenti, è la natura umana, queste cose sono sempre esistite, quando queste dichiarazioni sono basate sul nulla. Come scienziata, ho pensato: interroghiamo i dati”

Risultato? Se la violenza è molto rara nel Paleolitico, esiste in circostanze particolari. “Le prime tracce sono relative al cannibalismo, che può essere un rito funebre, ma anche un rituale connesso con il sacrificio di un individuo, che viene poi mangiato per unire il gruppo: ognuno prende parte della colpa, per così dire, durante il pasto cannibalesco”. Il sacrificio, perché, esattamente? “Per cercare di rispondere a un problema, ad una grave crisi come un’epidemia o una carestia, si sacrifica qualcosa di molto prezioso: un membro del gruppo”.

Un fatto in contrasto con i preconcetti secondo i quali la violenza primitiva sarebbe attivata dalla competizione per le risorse o dallo scontro tra gli appetiti. “Secondo un immaginario ampiamente condiviso, la violenza sarebbe iniziata aggredendo l’altro per prendergli qualcosa. Sono molti i miti di questo tipo, non basati su alcuna considerazione archeologica o antropologica: quello del rapimento di donne, ad esempio, che è una proiezione della società del XIX secolo”.

Nessun ingenuo buonismo, tuttavia: non siamo nel giardino dell’Eden, teniamo i piedi per terra. “Non bisogna confondere violenza e aggressività. Quest’ultima è un riflesso, un istinto animale, che ci permette di sopravvivere”. Meccanismo di difesa, l’aggressività naturale è legata al nostro status di predatori. “I cacciatori-raccoglitori uccidono gli animali per cibarsene. Ma anche qui ci sono dei riti, sia prima che durante e dopo la caccia. Non si conosce un solo popolo di cacciatori che non abbia tali rituali. Ne hanno bisogno per essere in grado di uccidere questo prossimo, questo quasi-simile, questo quasi-fratello che per loro è l’animale.”

L’assenza di violenza non significa che non esiste alcun conflitto: “Le testimonianze etnografiche raccolte presso i popoli detti tradizionali, come per esempio i Boscimani o i San dell’Africa meridionale, pressi i quali ho avuto la possibilità di vivere per un periodo, ci mostrano come tra di loro ci sia poca violenza. Quando sorge un litigio, tutti si riuniscono. Se non si giunge ad una soluzione, si ha una scissione: una parte va con uno dei protagonisti nel conflitto”.

L’archeologia permette di tracciare la preistoria dell’empatia? “Sì. La si vede nel ritrovamento di scheletri che presentano lesioni invalidanti o difetti di nascita. Ci sono molti casi, ad esempio un uomo di Neanderthal trovato a Shanidar, in Iraq, privo di un avambraccio e che aveva vissuto più di 40 anni: ciò significa che era stato preso in carico dal gruppo, che non era stato rifiutato e lasciato morire”. Cosa sappiamo degli atteggiamenti preistorici nei confronti dei bambini? “Non esiste alcun mezzo archeologico per sapere in che modo venissero educati i bambini paleolitici. Ma se si guarda alle popolazioni di cacciatori-raccoglitori contemporanee, vediamo che nella loro società non esiste nessuna violenza educativa. Lo schiaffo o la sculacciata sono sconosciuti”.

In che modo l’umanità pacifica degli inizi diventa brutale? “Non appena i gruppi diventano stanziali, c’è una crescita demografica. Ciò comporta un cambiamento economico, la domesticazione di piante e animali. Cominciano a comparire l’ammasso di scorte e il possesso di beni. È a questo punto che, nelle pitture rupestri, si vedono apparire alcuni personaggi più grandi degli altri: le élite. Non voglio tirare in ballo Rousseau, ma questi sono i fatti”. Ci sono popoli stanziali senza violenza? “Qualche società orticoltrice di piccole dimensioni. La questione dei numeri è fondamentale”.

La brutalità “soft” dell’educazione

Ci sono due categorie di violenza sui bambini: entrambe vengono trasmesse tra le generazioni e rappresentano il collegamento tra singole violazioni e i danni sociali. Cornelia Gauthier,ginevrina, medico, psicoterapeuta, autrice di vari libri sul tema, ( Sommes-nous tous des abusés? edizioni Georg, Victime? Non merci!  edizioni Jouvence), collaboratrice per una serie in vari volumi, ha studiato queste due forme di violenza, e in particolare la più banale: “L’abuso è tipico di chi in precedenza ha subito maltrattamenti. La violenza educativa ordinaria è commessa, praticamente da tutti e più o meno a propria insaputa, credendo di fare bene, con l’idea che il bambino ne abbia bisogno per diventare una persona perbene”.

Fatta di minacce, grida, lacrime ignorate e qualche schiaffo o sculacciata, sembra benigna, addirittura benefica, mentre sarebbe ‘il terreno di coltura della violenza’: minando la capacità di empatia del bambino, porterebbe, in ultima analisi, allo sviluppo delle nostre violenze da adulti. Conterrebbe quindi in sé il meccanismo della propria perpetuazione. “È un linguaggio che si acquisisce sin da piccoli: poiché il bambino impara per imitazione, il modello educativo che viene impostato determina cosa sarà percepito come normale e giusto ai suoi occhi”.

E tuttavia, rimuovendo qualsiasi forma di violenza soft dall’arsenale educativo non rischiamo di creare dei piccoli tiranni? “Dimenticate questo preconcetto! Permetteremo forse al bambino di fare qualsiasi cosa? Certo che no. Ha bisogno di avere dei limiti. In realtà, li cerca. È uno dei più grandi malintesi tra l’adulto e il bambino”. Esaminiamo le cose da vicino. “L’adulto mette un limite. È rassicurante per il bambino, che verificherà quindi se il limite esiste. Quando gli si dice: “Non devi fare questo”, è quindi ovvio, è previsto in anticipo, che il bambino lo farà”. E a quel punto, l’adulto s’innervosisce, si offende, perché interpreta come disobbedienza qualcosa che per il bambino è in realtà una verifica”. Che fare? “Ripetere: “No, non si fa”, senza minacce, con calma e con fermezza. Ciò avrà un effetto calmante sul bambino, anche se si sente frustrato, e gli permetterà di crescere bene senza i blocchi emozionali derivanti dalla violenza educativa”.

Un altro classico malinteso: “Si dice ad un bambino di 2 anni: “No, non devi toccare il telecomando”. Il bambino sente “telecomando”, assimila l’informazione con il suo piccolo lobo frontale, ma non è ancora maturo dal punto di vista neurologico per annullare allo stesso tempo questa immagine nella sua mente in modo da poter seguire l’interdizione. Allora toccherà l’oggetto, compiendo il gesto molto lentamente e allo stesso tempo guardandoci dritto negli occhi: non sta disobbedendo, sta effettuando una verifica”.

Come Olivier Maurel, Cornelia Gauthier crede che la violenza educativa appaia nella storia dell’umanità sulla scia della sedentarizzazione. “Il numero delle nascite essendo aumentato rispetto alle società di cacciatori-raccoglitori, i figli maggiori dovevano essere svezzati in modo che i nuovi nati potessero essere allattati. Questo deve aver creato aggressività nei fratelli maggiori, che hanno iniziato a picchiare i cadetti. La madre, che gli ormoni legati all’allattamento rendono iper-aggressiva se le si tocca il piccolo, deve aver a quel punto iniziato a picchiare il maggiore. È un’ipotesi plausibile per spiegare la comparsa del ciclo della violenza nel cerchio familiare”.

Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia per Pressenza

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Fonte: Pressenza

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