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Parigi – Appello della Nuit Debout per una Rivoluzione Europea

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Questo movimento non è nato né morirà a Parigi. Organizzate la vostra #Nuit Debout

Dal 31 marzo ci siamo trasferiti nella Place de la République di Parigi e in altre numerose piazze francesi.

Inizialmente la nostra mobilitazione si poneva come obiettivo la protesta contro la riforma del lavoro. Questa riforma non è un caso isolato: inscritta nella lista delle misure d’austerità subita dai nostri vicini europei, avrà gli stessi effetti del Jobs Act italiano o della riforma del lavoro spagnola: l’aumento dei licenziamenti, della precarietà, della diseguaglianza sociale e il rafforzamento degli interessi privati. Ci rifiutiamo di subire questa strategia d’attacco imposta, come è noto, in un contesto liberticida di Stato d’Urgenza.

I dibattiti che animano le assemblee di Place de la République dimostrano che l’esasperazione attuale va ben al di là della riforma del lavoro e si estende fino a mettere in discussione un sistema sociale e politico in crisi e all’ultimo stadio. Non saremo noi che piangeremo la sua fine.

Questo movimento non è nato né morirà a Parigi. Dalle primavere arabe ai movimenti del 15M, da Piazza Tahrir al Parco di Gezi, Place de la République e i numerosi altri luoghi occupati stasera in Francia, sono il riflesso della stessa rabbia, delle stesse speranze e della stessa convinzione: la necessità di una nuova società dove democrazia, dignità e libertà non siano parole vuote.

Le testimonianze di sostegno che riceviamo dall’estero ci scaldano il cuore e rafforzano la nostra determinazione. Questo movimento è anche il vostro. Non ha limiti né frontiere ed appartiene a tutti quelli che vogliano esserne parte. Siamo migliaia, possiamo essere milioni, insieme, in piedi e attivi. Solleviamoci insieme.

Il #40 marzo organizzate la vostra #NuitDebout

Contatti: nuitdeboutpresse@riseup.net

@NuitDebout
Facebook: https://www.facebook.com/NuitDebout/
Tumblr: https://nuitdebout.tumblr.com/

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La sinistra europea, la pressione capitalistica e la perdita dei diritti

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Capitalism

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La sinistra europea ha visto come il capitalismo è in grado di mordere di nuovo

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di Leo Panitch

Per la maggior parte del ventesimo secolo la parola “riforma” è stata comunemente associata col garantire protezioni statali contro gli effetti caotici della competizione del mercato capitalista. Oggi è più comunemente usata per riferirsi alla demolizione di tali protezioni.

Non si tratta semplicemente dell’appropriazione del termine da parte di chi nella UE e nelle agenzie internazionali di finanziamento lo usa come espressione in codice per la pretesa che la Grecia, ad esempio, operi altri tagli all’occupazione e ai servizi del settore pubblico. E’ anche il modo in cui la parola è divenuta sempre più usata dai partiti del centrosinistra. Così il nuovo eletto leader del Partito Democratico italiano (il successore di quello che era il più grande partito comunista d’Europa) ha sollecitato il governo a essere ancor più deciso nell’attuare il proprio pacchetto di riforme economiche. Il pacchetto comporta la riduzione della spesa pubblica e il cambiamento delle norme per rendere più flessibile il mercato del lavoro e attirare investimenti dall’estero.

Nel segnalare quanti paesi europei oggi stiano “furiosamente smantellando le protezioni sul luogo di lavoro in un tentativo di ridurre il costo del lavoro”, un recente articolo del New York Times ha in effetti identificato le radici di questo negli “sforzi per migliorare la competitività” da parte del governo socialdemocratico in Germania nei primi anni del 2000. E’ stato fatto in modo tale da aver “ulteriormente eroso le protezioni dei lavoratori, alimentando un boom di “mini-occupazione” a breve termine e sottopagata che oggi costituisce più di un quinto dell’occupazione tedesca”.

C’è un vecchio dibattito a sinistra a proposito della contrapposizione tra riforme e rivoluzione. Ma è divenuto antiquato, non solo a causa delle prospettive e delle forze estremamente limitate a favore del cambiamento rivoluzionario. L’attuale significato del termine “riforma” contrasta nettamente con il modo in cui era usato dai socialdemocratici europei circa un secolo fa. Che le riforme incrementali passate sotto il titolo di gradualismo potessero o no conseguire la trasformazione sociale senza sottoporre la società alla sofferenza della rivoluzione, esse erano mirate a promuovere la solidarietà sociale contro il mercato.

Forse l’illusione più grande dei socialdemocratici del ventesimo secolo è stata la loro convinzione che una volta conquistate le riforme essere sarebbero state conquistate sul serio. In realtà possiamo oggi costatare in quale misura le vecchie riforme siano state sottoposte all’erosione dell’espansione dell’erosione capitalista su scala globale. Sono state così compromesse dalla logica della competizione che ora sembra molto difficile vedere come le protezioni statali contro i mercati possano essere garantite ai giorni nostri senza altre misure che sarebbero considerate rivoluzionarie.

L’idea che fare qualcosa per minare gli investimenti privati è inaccettabile è divenuta incredibilmente potente. E’ precisamente questo che rende i politici socialdemocratici così timidi oggi. E possono esserci ben pochi dubbi che per sostenere riforme nel vecchio significato progressista della parola oggi un governo dovrebbe attuare estesi controlli per evitare un deflusso di capitali e probabilmente dovrebbe socializzare istituzioni finanziarie al fine di garantirsi il necessario spazio di manovra.

La Syriza in Grecia è l’unico partito di sinistra che ha ottenuto un grande successo elettorale nella crisi europea rifiutando il modo in cui sono finite per essere ridefinite le riforme. Un asse centrale del suo programma politico, inoltre, consiste nel portare “il sistema bancario sotto la proprietà pubblica e sotto il pubblico controllo, mediante una radicale conversione del suo funzionamento …” In effetti ciò che mette più a disagio le élite europee riguardo al fatto che la Grecia occupi il turno che le spetta alla presidenza della UE nei prossimi sei mesi è che una nuova crisi politica che porti a elezioni generali, con la Syriza attualmente in testa ai sondaggi, farebbe del suo leader, Alexis Tsipras, il primo ministro della Grecia.

Ciò che è stato particolarmente impressionante nel programma politico di “riforme radicali” che la Syriza ha approvato nel suo congresso dello scorso luglio è che esso si conclude con queste parole: “Lo stato in cui ci troviamo oggi richiede qualcosa di più di un programma completo creato democraticamente e collettivamente. Richiede la creazione e l’espressione del movimento politico più ampio, militante e catalizzatore possibile … Solo un simile movimento può guidare un governo della sinistra e solo un simile movimento può salvaguardare il corso di un tale governo.”

Tuttavia i leader del partito non possono che essere consapevoli che a meno che si verifichi una svolta nel rapporto di forze in altri paesi che consenta al governo della Syriza lo spazio per attuare riforme progressiste, il popolo greco soffrirà ancor di più finendo economicamente penalizzato e isolato. E’ senza dubbio per questo che, quando Tsipras il mese scorso è stato candidato dal piccolo contingente dei partiti di “estrema sinistra” del parlamento europeo a sostituire, il prossimo maggio, José Manuel Barroso a presidente della Commissione Europea, egli ha parlato in termini dell’”opportunità storica” che oggi esiste per un’alternativa di sinistra all’attuale “modello europeo” capitalista.

Questo ci riporta all’altro aspetto del dibattito su riforme e rivoluzione di un secolo fa, ricordandoci che cosa accadde quando non si realizzò la speranza che una rivoluzione nella periferia dell’Europa avrebbe innescato rivoluzioni nei paesi capitalisti più forti.

La sinistra cominciò ad autoflagellarsi, a volte molto letteralmente, con dibattiti su riforme contro rivoluzione, parlamentarismo contro extraparlamentarismo, partiti contro movimenti, come se gli uni escludessero gli altri. La questione del ventunesimo secolo non è la contrapposizione tra riforme e rivoluzione, bensì piuttosto quale tipo di riforme, quale genere di movimenti popolari dietro di esse impegnati nel tipo di mobilitazioni che possano ispirare sviluppi simili altrove, possa dimostrarsi tanto rivoluzionario da resistere alle pressioni del capitalismo.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: Z Net Italy

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I dieci saggi impresentabili di Napolitano. Volete la guerra civile?

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La classe dirigente, la generazione, il sesso maschile che ha portato l’Italia al disastro dovrebbe salvarla? Questa accozzaglia di partitocrazia e grand commis, tutti maschi, anziani, ricchissimi, sarebbe il meglio che questo paese può schierare per indicare cosa è urgente fare per il paese? La classe dirigente che negli ultimi 40 anni ha distrutto il paese dovrebbe salvarlo?

Possono essere saggi i tagliagole leghisti che hanno voluto la morte di 5.000 migranti che riposano sui fondali del Mediterraneo? Sarebbero saggi quelli che hanno votato che Ruby era la nipote di Mubarak? Sarebbe saggio colui che provò a legittimare i torturatori repubblichini chiamandoli “ragazzi di Salò”. Chi rappresentano i dieci saggi di Napolitano? Le privatizzate, le banche, la confindustria, la grande finanza che lucra sullo sfascio, i precarizzatori del lavoro, la nomenklatura partitocratica?

Niente donne, niente giovani, niente società civile, niente cultura, niente ricerca, niente diritti, niente disagio! È così evidente che questi dieci non rappresentano il paese reale ma sono chiamati a garantire, in un momento nel quale il crollo di un regime appare dietro l’angolo, quei poteri che rappresentano al di sopra e al di fuori del gioco democratico. Qual è il disegno dietro questa carta (apparentemente) della disperazione giocata dal Presidente Napolitano? È nata ieri una repubblica degli ottimati che prescinde dal voto popolare? È legittima o è un golpe la prorogatio di fatto del governo Monti? Gli italiani che il 24 e 25 febbraio si sono divisi su tutto si sono trovati d’accordo su una sola cosa: la tecnocrazia neoliberale di Mario Monti ha il comune disprezzo di un intero popolo. Continuare a imporla sulla base di una cultura emergenziale con la quale in questo paese sono state fatte passare tutte le nefandezze è un colpo di mano. Ben maggiore legittimità avrebbe un governo Bersani, pur bocciato in Senato, per condurre il paese a nuove elezioni.

Non rappresenta il paese reale il governo Monti, non rappresentano il paese reale i dieci presunti saggi. Se un disegno s’intuisce è che i D’Alema e i Berlusconi pretendono di fare melina per altri cinque anni sperando di addormentare il fenomeno grillino. Se questa operazione riesce gli italiani comuni tra cinque anni staranno peggio di prima. Magari rassicureranno la finanza, la BCE, i mercati, che potranno continuare a spolparci un po’ al giorno. Se non riesce crolleremo di colpo e lo Stato, la Nazione stessa avrà perso ogni legittimità. Altro che Europa allora, ch’è diventata una foglia di fico. Tutto il peggio sarà possibile. Ma il crollo non sarà quello dell’Argentina o della Grecia; sarà Weimar.

Intanto, di sicuro, l’invenzione di Napolitano blocca il corso democratico della legislatura. Il suo dovere, se Bersani non riesce a formare un governo, è incaricare Berlusconi (o chi per lui) e, dopo di questo, Grillo (o chi per lui). Non proseguire in questi tentativi, e non potendo sciogliere le camere, blocca il corso naturale delle cose impedendo soluzioni che, evidentemente, sono considerate da evitare ad ogni costo dai padroni del paese dei quali la lista dei saggi rappresenta un elenco di spicciafaccende ben pagati.

È sotto gli occhi di tutti che l’Italia potrebbe esprimere dieci, cento, mille saggi di ben più alto profilo di quelli indicati da Napolitano ma che si è scelto di nominare quelli perché in realtà ognuno di loro garantisce un potere. Garanti dei poteri forti, dei grandi interessi, di una generazione e di un sesso, quello maschile, che ha umiliato e stuprato il paese. Garanti della fase terminale della nostra democrazia nata nel 1945 dalla Resistenza, che è agonizzante almeno dal sequestro di Aldo Moro e in coma da quando è sceso in campo Silvio Berlusconi.

Non si capisce intanto chi lavora per chi. Lavora per il Re di Prussia Beppe Grillo, incapace di capire di star sprecando una golden share che non ritornerà per spazzar via la peggior classe dirigente d’Europa commissariando un governo Bersani e obbligandolo a realizzare parti importanti del proprio programma? Lavora per il Re di Prussia quella parte di centro-sinistra che muore dalla voglia di far fuori Bersani e inciuciare con Berlusconi a qualunque prezzo, vogliosa solamente di un altro giro di valzer, di mantenere privilegi e vitalizi e spingere sul Colle il Massimo peggiore di tutti loro a garanzia del mercimonio? O lavora per il Re di Prussia Napolitano che spinge altri milioni di italiani tra le braccia di Grillo o di qualunque altro pifferaio sorgerà a indicare che il re è nudo? Qualcuno si illude che basterà un Renzi a salvarci. Se non si sgonfierà quando si rivoterà il Movimento Cinque Stelle, o ben di peggio di questo (le Albe dorate greche dovrebbero darci brividi), sfonderanno ogni argine. La politica, questa politica ha perso ogni legittimità e il caos è dietro l’angolo.

Volete la guerra civile?

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Fonte: Giornalismo partecipativo

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