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Aspettando l’alba rivoluzionaria

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Da decenni, il “sistema dell’avidità” abilmente cattura le vittime sacrificali disattivando le loro menti, alienandole, per spingerle poi nei bui pozzi dell’effimero, nei non-luoghi a consumare e a consumarsi.

Mentre si sviluppa quest’orrore, in superficie e nelle cattedrali di cristallo, le creature dell’avidità s’accoppiano, moltiplicandosi e continuando ad originare mostri. Mostri dalle gole profonde e dai canini lucenti che invadono i mondi cibandosi del dolore, delle disgrazie e della disperazione altrui.

E’ ormai da troppo tempo che la nostra vita è violentata da queste creature immonde!

Noi, nelle pieghe più profonde di questo sistema malato e criminale, vogliamo cambiar la Storia. Non smetteremo mai di lottare, nella luce e nel buio, contro il “sistema dell’avidità”. In attesa dell’alba rivoluzionaria genereremo nuove creature, un esercito che sconfiggerà i mostri e costruirà sulle macerie un mondo nuovo.

Un altro mondo è possibile!

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(maribù duniverse – agosto 2001)

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Caravaggio…straordinario genio rivoluzionario

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1. Caravaggio, La Madonna dei Pellegrini (Madonna di Loreto) 1604 circa, olio su tela cm.260×150 (Roma, Chiesa di Sant’Agostino, Cappella Cavalletti).  

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CARAVAGGIO – LA MADONNA DEI PELLEGRINI

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di Giuseppe Elio Barbati (*)

La Caravaggio-mania, che dilaga ai giorni nostri, si diffuse come un’epidemia già all’indomani della morte del Merisi, nel 1610. Oggi è ancora palpabile sia nelle lunghe file di visitatori presenti alle sue mostre, sia nella enorme quantità di pubblicazioni che ogni anno esplora nuovi argomenti e nuove scoperte. All’inizio del ‘600 si trattò di un vero e proprio fenomeno di mercato.

Non si può comprendere appieno la grande portata della novità, della rivoluzione caravaggesca senza alcune nozioni generali. Caravaggio fu un pittore eversivo nei confronti delle iconografie tradizionali sacre, capace di inventare ogni volta soluzioni compositive completamente sconosciute, rompendo gli schemi consolidati dell’epoca, che spiazzarono un pubblico abituato a temi standardizzati. Per inquadrare la portata della rivoluzione caravaggesca nel contesto artistico del suo tempo, bisogna metterla a confronto con i precedenti esempi del ‘500.

La “Madonna dei pellegrini” è uno dei dipinti forse meno noti del grande lombardo, ma emblema del suo spirito libero e fortemente innovativo. La si può ammirare entrando liberamente nella chiesa di Sant’Agostino a Roma, nei pressi di piazza Navona; siamo nel quartiere chiamato di “Campo Marzio” ove il pittore visse e lavorò per circa 10 anni.

Il quadro è una pala d’altare e lo si trova nella prima cappella di sinistra, una cappella che Ermete Cavalletti aveva acquistato alla fine del ‘500. Nativo di Bologna, il Cavalletti era un funzionario dello Stato pontificio, notaio e computista della Camera Apostolica, che morì nel 1602-03. Fu lui a commissionare il dipinto al Caravaggio? O fu la moglie, Orinzia di Jacopo de’ Rossi, in memoria del marito, forse per esaudire un suo desiderio? Ciò che è noto è che Ermete era particolarmente devoto alla Madonna di Loreto e che, nella cittadina marchigiana, si era anche recato in pellegrinaggio. Ma poteva il notaio pensare di chiedere, a un pittore così rivoluzionario, di eseguire un quadro religioso usuale, nel solco della tradizione? O, non essendo molto esperto nella pittura, pensò di affidarsi all’artista più in voga a Roma in quel momento? Chi, guardando per la prima volta questa scena, potrebbe pensare a un dipinto religioso, ricordando l’iconografia delle pale d’altare dell’epoca?

Per valutare appieno la portata straordinariamente rivoluzionaria della pittura di Caravaggio, una pittura non più legata al consueto cliché religioso, per comprendere quanto i suoi quadri fossero una straordinaria, spiazzante novità, è necessario conoscere la pittura precedente. È sufficiente osservare le pale d’altare eseguite dall’artista più osannato a Roma, in vita e dopo morto, il divin Raffaello, a cui tutti gli artisti si ispiravano. Prima di Caravaggio questo tema sacro ebbe svariati esempi pittorici e le figure 2 e 3 possono servire per riportare alla mente quale fosse la consuetudine con cui si raffigurasse il tema della traslazione della casa della Madonna.

 

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2. Francesco Foschi, Traslazione della Santa Casa, (Palazzo Apostolico, Santuario della Santa Casa, Loreto).

3. Annibale Carracci, Traslazione della Santa Casa di Loreto, tela cm.260×150, c.1605 (Chiesa di S. Onofrio, Roma). Annibale, molto stimato anche dal Caravaggio, era il famosissimo e principale interprete a Roma della pittura bolognese.

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La leggenda narra che tale traslazione sia stata un prodigio operato dagli angeli che, in volo, trasportarono la Santa Casa abitata dalla Madonna da Nazareth a Loreto [1 ] e in tal modo venne più volte raffigurata. In essa nacque Maria Santissima, lì avvenne la visita dell’Arcangelo Gabriele e lì si compì il mistero dell’Incarnazione. Secondo la Tradizione, questa Santa Casa venne trasportata miracolosamente dagli Angeli a Loreto ove fu poi costruita una grande basilica, meta di frequenti pellegrinaggi.

All’epoca si raccontava anche che San Nicola da Tolentino, un santo scomparso nel 1305, avesse proprio visto gli angeli mentre trasportavano a Loreto la Santa Casa della Madonna.

Ma il quadro di Caravaggio mostra tutt’altro, stravolgendo il racconto; non ci sono né casette trasportate in volo, né angeli né Madonne sedute in trono, ma una popolana, vestita semplicemente, con in braccio un bambino cresciutello e due pellegrini stanchi davanti ad una casa povera. Qui miracolosamente appare la Madonna, ricompensandoli della loro fede.

Fedele ai suoi principi di pittura rigorosamente realistica, ripresa dal vero, Caravaggio dipinse i due pellegrini inginocchiati, le mani giunte in preghiera, con i vestiti laceri, la cuffia di lei sdrucita e quei piedi di lui nudi, sporchi e gonfi in primo piano, segnati dal cammino e dalla sporcizia della strada, di una umanità vera e reale e non idealizzata e irreale. Per il volto e la figura slanciata della Madonna usò come modella Lena (Maddalena Antognetti, che comparirà anche in altri dipinti del pittore) e il suo bambino. Ma all’epoca, a Roma, la donna era ben conosciuta perché, oltre essere ora l’amante del pittore, era stata una prostituta [2] ben nota perché frequentava un angolo di piazza Navona.

Giovanni Baglione [3 ] scrisse che, appena il quadro fu posto sull’altare “ne fu fatto dai preti e da’ popolani estremo schiamazzo”. Non poteva essere altrimenti: fecero scalpore, se non scandalo, il riconoscibile volto di Lena e quei piedi nudi e sporchi in primissimo piano, oltre il modo in cui era stato stravolto il racconto biblico senza angeli in volo e con una casa cadente ove l’intonaco è scrostato, lasciando i mattoni a vista. Ma qui il pittore vuol ribadire l’adesione alla povertà assoluta della Sacra Famiglia, secondo gli insegnamenti di san Filippo Neri. E la Madonna non solo aveva il volto di una prostituta ma era raffigurata come una donna in abiti da popolana, una donna in carne e ossa, senza manti ma solo con l’aureola. L’immagine del divino ne risultava stravolta.

E naturalmente il Baglione non mancò di sottolineare la “volgarità” con cui la scena e i personaggi, secondo lui, erano stati rappresentati per una pala d’altare da esporre in una chiesa, alla vista di un vasto pubblico e non in una collezione privata.

Eppure tutto, in quel quadro, si avvicinava alla realtà, con la Madonna vestita senza sfarzo, una casa nient’affatto nobiliare come doveva essere quella di Nazareth, dei pellegrini che, stanchi e laceri dopo tanta fatica, inginocchiati davanti alla casa sacra, avevano la grazia di un’apparizione divina. La sua attenzione nel raffigurare una realtà non fittizia, ma vera, rivoluzionò il modo di concepire la pittura. Ma da sempre il rapporto con poveri e anziani, in Caravaggio, fu attento, rispettoso e denso di comunicazione affettiva. È bene osservare quanto, nella sua opera, il Caravaggio abbia ribadito l’adesione alla povertà assoluta della Sacra Famiglia, che la Chiesa avrebbe dovuto osservare. La sua pittura, dai risvolti umani profondi, qui ridà onore e dignità a due poveri viandanti e con loro a tutta una schiera anonima di umili credenti. È quanto rivendicavano quei piedi pieni di terra in primo piano, piedi simili a ogni altro viandante lacero che aveva percorso il loro faticoso cammino. La devozione di quei pellegrini era quella di ogni altro cristiano.

Per inciso, secondo alcuni critici, i due pellegrini potrebbero essere Ermete Cavalletti e sua madre. Altri tendono a sottolineare la sensualità dell’epoca nel raffigurare la gamba e il ginocchio di Lena modellati dal sottile vestito, seducente esempio di bellezza femminile.

Ma la grande novità espressiva di Caravaggio è come il mondo divino si offra ad un’umanità credente che ha i piedi sporchi e i vestiti laceri, non ad una umanità idealizzata e irreale. La sua pittura, che prendeva sì gli occhi ma che toccava anche il cuore, espresse i sentimenti e gli ideali della chiesa cosiddetta popolare, una pittura che non seguiva le aspirazioni trionfalistiche della corte vaticana ma proponeva le espressioni basilari dei sentimenti popolari, nel solco di quella religiosità pauperistica che il pittore seguiva sull’onda di una Chiesa povera, come lo era nei primissimi secoli.

Caravaggio aveva creato un’immagine nuova, lontana da ogni schema tradizionale. La sua sensibilità religiosa lo spingeva alla restituzione della dignità umana; col rifiuto di “edulcorare” la realtà ma col desiderio di accettarla e ritrarla così com’era, nelle sue debolezze, nelle sue meschinità, con la comprensione e la compassione verso gli umili e gli anziani (vedi gli straordinari esempi dei vari dipinti con san Gerolamo).

Da un punto di vista pittorico non va dimenticata la grande qualità di tutto il dipinto, in particolare il bianco tipico del Caravaggio con cui dipinse il panno del Bambino, che diffonde luminosità nella scena, e il pezzo di bravura della manica marrone di Lena che termina nel polsino bianco.

La nostra storia potrebbe terminare qui. Ma c’è un’altra cosa che mi piace segnalare: la grande tolleranza degli agostiniani, abituati fin dal Rinascimento ad accogliere tutti in questa chiesa, permetteva alle cortigiane rinascimentali e poi alle prostitute dell’epoca di venire qui a messa, sedendosi nelle prime file per non essere importunate dal popolo. Ma probabilmente un conto era vederle frequentare la chiesa e un altro vederne una ritratta come Madonna sull’altare. Ma fu la medesima grande tolleranza degli agostiniani a far sì che, nonostante lo schiamazzo, il quadro rimanesse lì. Chissà con quale orgoglio e senso di rivalsa si sentirono investite quelle donne, quando la domenica entrarono in quella chiesa e guardarono quel dipinto…

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(*) Giuseppe Elio Barbati vive e lavora a Napoli. Medico radiologo, da sempre attratto dalla pittura, con predilezione per le opere di natura morta, ha da molti anni dedicato studi approfonditi a tale argomento, appassionandosi in particolare alle prime opere del genere.

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1) Gli storici affermano che la casa di Maria venne portata a Loreto su iniziativa della nobile famiglia Angeli. La veridicità della casa è stata comunque comprovata negli anni da numerose prove storiche e archeologiche che         hanno attestato la sua origine palestinese risalente ai tempi di Gesù.

2) In quei primi anni del ‘600, a Roma, le prostitute erano numerose e giovani, al servizio, per così dire, sia di nobili sia di facoltosi cardinali.

3) Giovanni Baglione (Roma 1566-1644), forse il più acerrimo nemico di Caravaggio, visse da vicino le vicende del Merisi in quanto attivo contemporaneamente nella Roma dell’epoca, fu un discreto pittore che, dopo un inizio in ambito tardo-manierista (con commissioni anche da papa Sisto V), tentò di aggiornare il suo stile imitando i modi di Caravaggio, evidenziando però una comprensione solo superficiale ed esteriore.

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APPROFONDIMENTI

Caravaggio non fu semplicemente il pittore realista e crudo (per le imperfezioni dei corpi, le membra emaciate dei poveri, le rughe dei vecchi, lo spasmo dei morenti), che dipinse le scene dal vero, ma anche un pittore che invita all’umiltà. In ciò seguiva le teorie di san Filippo Neri e del cardinale Carlo Borromeo, che conducevano una vita molto povera. Infatti Gesù, la Madonna, o gli apostoli e i santi, sono raffigurati poveri, posti in relazione a una sobrietà di vita e non raffigurati come splendidi e ricchi signori, vestiti riccamente e ornati di gioielli, come invece erano i vescovi e la corte papale di Roma. Egli stravolse completamente ogni impostazione accademica, scegliendo di raffigurare la realtà così come gli si presentava, comprese le sue brutture, le sue volgarità, senza idealizzazione alcuna

“Lena”, Maddalena Antognetti, romana, descritta in alcune cronache come “donna di Michelangelo”: comparve negli ultimi quadri romani di Caravaggio. Proviene da una famiglia di cortigiane: sua sorella Amabilia era una prostituta bellissima e un documento la mostra di notte su un cavallo, con le chiome sciolte, mentre torna a casa dopo una notte passata con il bargello del Campidoglio. Lena compare sicuramente in due dipinti e probabilmente anche in un terzo: ”La Madonna dei palafrenieri” del 1604, “La Madonna dei pellegrini” del 1606, “La Maddalena in estasi del 1606. Lena morì ancora prima di Caravaggio; l’anno dopo la fuga dell’artista da Roma, tornò a vivere con la madre e la sorella in via dei Greci, dove morì nel 1610. Aveva solo 28 anni.

Da giovanissima era stata amante prima del «giovane morbido», cardinale Montalto, poi di monsignor Melchiorre Crescenzi e del cardinal Peretti, nipote di Sisto V. Faceva parte di un gruppo di prostitute d’alto bordo con Fillide Melandroni, Menica Calvi e Tella Brunori. Fare di Lena la “Madonna dei Pellegrini” era una mossa rischiosa, qualcosa di ben diverso dal ritrarre Anna Bianchini o Fillide Melandroni nei panni della Maddalena per una collezione privata. La giovane, infatti, era un volto conosciutissimo in città.

Il concilio di Trento aveva bandito “tutte le lascivie di una sfacciata bellezza delle figure” e la Chiesa necessitava di immagini per promuovere la sua Controriforma, per cui richiese agli artisti una pittura religiosa più aderente alla realtà. Come scriveva il cardinal Paleotti [*] nel 1582, “l’ufficio del pittore era l’imitare le cose nel materiale suo essere e puramente come si sono mostrate agli occhi de’ mortali”, per poi lasciare ai teologi “il dilatarle ad altri sentimenti, più alti e più nascosti”.

Nella Roma dell’epoca, manierista e bigotta, era in auge una pittura di “devozione” o cosiddetta di “nobiltà”; nobiltà di soggetti e di azioni, riferibili a qualsivoglia mitologia indirizzata secondo la superficiale inventiva degli ultimi manieristi: dal Pulzone al Muziano, al Barocci. Il formalismo manierista, così di moda in quegli anni, ripeteva in maniera codificata i vari aspetti della vita quotidiana e nei ritratti riproponeva una bellezza di tipo eclettico, con ideali modelli presi in parte da Michelangelo e in parte da Tiziano o Raffaello; la “maniera” (cioè lo stile) dell’artista era considerata bella nella misura in cui si avvicinava alle opere dell’antichità. Il Cesari dominava la scena artistica romana insieme a Federico Zuccari e Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio. Forse fu proprio il manierismo retorico ad aprire allo Zuccari la strada nella nomina di “Principe (cioè presidente) dell’Accademia di San Luca” [**] verso la fine del 1593. Di conseguenza il suo insegnamento ebbe grande influenza sulle giovani generazioni di pittori, incentrato sulla necessità di un sicuro controllo concettuale del fare artistico, da raggiungersi in primo luogo attraverso la fase del disegno preparatorio e dello studio dei modelli.

[*] Cardinale Gabriele Paleotti, “Discorso intorno alle immagini sacre e profane etc.”, Bologna 1581-1582.

[**] L’attività più rilevante dello Zuccari fu proprio quella di “principe” e insegnante presso il prestigioso istituto romano di pittura (vedi cap.6) della neonata Accademia di San Luca, nella città dominata dal papa.

L’estate del 1600 vide certamente l’esplosione della popolarità del Merisi come pittore di immagini sacre per importanti committenze romane. La direzione della sua ricerca artistica fu un esempio e un insegnamento che coinvolse (o sconvolse?) ogni artista presente a Roma. Quelle tele le videro tutti, e in molti strabuzzarono gli occhi. Malignamente Baglione riferì invece che una delle massime autorità ufficiale dell’epoca, l’invidioso Federico Zuccari, principe dell’Accademia di San Luca, esclamò “Che romore è mai questo? Io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione” davanti a quelle opere che creavano tanto scompiglio nella comunità artistica. Il tentativo era di ricondurre la novità dirompente delle tele caravaggesche alla ben nota e più rassicurante pittura veneta. D’altra parte lo stile di Caravaggio non poteva essere più lontano dall’idea di pittura dell’antiquato manierista di regime Zuccari, fondata sullo studio dei maestri del passato e sull’esercizio del disegno, espressione più alta e compiuta, a suo modo di vedere, dell’intelletto umano. Ma l’astro di Caravaggio volava ormai alto, impossibile da abbattere, primo attore carismatico della scena artistica. I pittori affermati lo detestavano perché sovvertiva la struttura artistica con la quale avevano fatto carriera, facendo apparire vuota e superata la corrente tardo-manierista e stupidi gli esagerati contorcimenti tipici dell’epoca. Ma avranno coltivato anche un risentimento per quel forestiero che diventava l’idolo dei giovani pittori “che accorrevano a lui”.

Il suo pubblico si dividerà definitivamente in estimatori entusiasti e detrattori feroci, in un clima di gran fervore per il nuovo (in)discusso genio della scena romana. Intanto i giovani pittori celebravano Caravaggio “come unico imitatore della natura”, affascinati dal suo stile “tutto risentito di oscuri gagliardi” (come scrisse il Bellori) “e si danno ad imitare i suoi quadri e i suoi soggetti preferiti, ritraendo dal vero i modelli nello studio ed alzando i lumi”, ovvero accentuando i contrasti di luce e di ombra.

L’adesione al vero di Caravaggio venne invece letta dallo Zuccari come una mancanza di quello che doveva essere il principio generatore della pittura, cioè l’equilibrio fra l’imitazione del reale e la necessaria correzione mentale, l’idealizzazione della realtà.

Oggi, dopo 400 anni, si parla ancora tanto di Caravaggio; la sua intensità narrativa, straordinario concentrato di energia, sentimenti, arte e passione, miscuglio di fantasia e realtà, la sentiamo ancora fluire, forte e viva, nelle sue opere al di là del tempo, dello spazio e delle menti limitate.

Velàzquez sarà colui che meglio saprà cogliere l’essenza delle novità caravaggesche, non fermandosi all’effetto chiaroscurale ma interpretando lucidamente la poesia lirica e malinconica, la quotidiana fatica e le brevi gioie di un mondo marginale, secondario eppure vivo, perché carico di umanità e verità.

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Alcuni brani sono estrapolati dal libro “La nascita della natura morta in Europa” (Kairos edizioni), di Giuseppe Elio Barbati.
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Luis Sepulveda: “Il ricordo di Fidel e della Rivoluzione cubana”

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Mi fa piacere pubblicare questa riflessione poetica del mio amico Luis Sepulveda che, come spesso gli capita, interpreta la nostalgia della gente e dei luoghi che amiamo. In questo caso il ricordo di Fidel e della Rivoluzione cubana. (Gianni Minà)

“FIDEL…

La noticia llega con las primeras luces del día, tal vez con la misma intensa luminosidad del amanecer que vieron los tripulantes del “Gramma” en la costa de la isla antes de desembarcar y empezar la gesta que inauguró la dignidad latinoamericana.

En las pupilas de ese grupo de hombres y mujeres que tocaron la arena blanca de Cuba, iba también la luz de los caídos en el asalto al cuartel Moncada y, por eso, el brazalete con la leyenda”26 de Julio” era la gran identidad de aquellos que, como más tarde escribiría un argentino al que llamaban simplemente Che, daban el paso a la condición superior del insurgente, del rebelde, del militante, y se convertían en Guerrilleros.

La dignidad latinoamericana se inauguró de verde olivo y con olor a cordita, a pólvora, al sudor de las marchas selva adentro, a la fatiga combatiente que, lejos de cansar, entregaba más ánimo a la vocación justiciera de los guerrilleros, de los combatientes de Fidel, de “los barbudos” vestidos con retazos, armados de machetes zafreros y de las armas arrebatadas al enemigo en cada combate.

Los combatientes de Sierra Maestra, los guajiros, estudiantes y poetas, paso a paso, tiro a tiro, enseñaron a Latinoamérica que la estrella de Comandante Guerrillero era el distintivo del primero en el fragor de la lucha, del que combatía en primera fila, del que sembraba ejemplo y confianza en un destino superior.

Y mientras los guerrilleros del “26 de Julio” avanzaban por las sierras y las selvas, en todo el continente latinoamericano, desde el río Bravo hasta la Tierra del Fuego, los humildes alzaban sus banderas de harapos, “porque ahora la historia tendrá que contar con los pobres de América”.

Hoy es un día de recogimiento revolucionario. Hoy es el día del dolor de aquellos que se atrevieron a dar el paso imprescindible, a romper con la existencia dócil y sumisa, y se unieron al camino sin retorno de la lucha revolucionaria.

¡Hasta la Victoria Siempre, Fidel! ¡Hasta la Victoria Siempre, Comandante Guerrillero!”

(Luis Sepulveda)

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” FIDEL…

La notizia arriva con le prime luci del giorno, forse con la stessa intensa luminosità dell’alba che vide l’equipaggio del ‘Granma’ sulla costa dell’isola prima di sbarcare e iniziare le gesta che inaugurarono la dignità latinoamericana.

Nelle pupille di questo gruppo di uomini e donne che toccarono la sabbia bianca di Cuba, c’era anche la luce dei caduti nell’assalto alla caserma Moncada e, per questo, la fascia recante la scritta ’26 de Julio’ era l’identità di quelli che, come più tardi scriverà un argentino chiamato semplicemente Che, si apprestavano a trasformarsi da insorgenti, ribelli, militanti a Guerriglieri.

La dignità latinoamericana si è aperta con il colore verde olivo e l’odore di cordite, polvere da sparo, il sudore delle marce nella selva, la fatica dei combattimenti che, lungi dall’abbattere, donava più animo alla vocazione di giustizia dei guerriglieri di Fidel, i ‘barbuods’ malvestiti, armati di machete e armi strappate al nemico in ogni combattimento. 

I combattenti della Sierra Maestra, i contadini, gli studenti e i poeti, passo dopo passo, sparo dopo sparo, insegnarono all’America Latina che la stella del Comandante Guerrigliero era il distintivo del primo nel fragore della battaglia, di chi combatteva in prima fila, che dava l’esempio e infondeva speranza in un destino superiore.

Mentre i guerriglieri del  ’26 de Julio’ attraverso le montagne e le giungle, in tutto il continente latinoamericano, dal Río Bravo fino alla Terra del Fuoco, gli umili innalzavano le proprie bandiere fatte di stracci, «perché adesso la storia dovrà confrontarsi con i poveri d’America». 

Oggi è una giornata di raccoglimento rivoluzionario. Oggi è il giorno del dolore di quelli che osarono fare il passo essenziale, rompere l’esistenza docile e sottomessa, per unirsi al cammino senza ritorno della lotta rivoluzionaria. 

¡Hasta la Victoria Siempre, Fidel! ¡Hasta la Victoria Siempre, Comandante Guerrillero! ” 

(Luis Sepulveda)

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Fonte: Facebook

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Approfondimento

Ciao Fidel“: serie di articoli esteri, dal sito “l’Antidiplomatico”, sulla morte di Fidel Castro.

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