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La Carovana della Gioia presenta il film: “Il gioco salva il mondo”

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IL GIOCO SALVA IL MONDO

Un film in coproduzione di base
Scritto e diretto da ITALO CASSA

(questo film è stato messo online gratuitamente perché possa essere fruibile a tutti/e. se vuoi aiutarci e sostenere le attività della CAROVANA DELLA GIOIA puoi fare UNA DONAZIONE anche ora dal sito internet www.lacarovanadellagioia.org).

Il film segue il lavoro realizzato dalla CAROVANA DELLA GIOIA, della Scuola di Pace, nel 2015.
Nell’introduzione la narrazione filmica attraversa un territorio “oscuro”, quello del viaggio, e a volte anche della morte, di tante persone migranti, tra cui molti bambini, che fuggono da guerre, fame e persecuzioni.
La Morte però, sottolinea l’autore, non è solo questa, è sì la sofferenza di centinaia di migliaia, se non milioni, di profughi, ma è anche la morte delle nostre coscienze, l’incapacità dei più a reagire in positivo.
È come se stessimo affrontando una «Fine del Mondo», anche se piccola e apparentemente non apocalittica.
Questa “Fine del Mondo” non vogliamo però subirla, non la vogliamo accettare “tout court”, non vogliamo rassegnarci ad un Mondo sempre meno umano e sempre più indifferente.
Tanti volontari, tante persone umane, uomini e donne di buona volontà, si stanno dando da fare per cambiare questa situazione, offrendo accoglienza, aiuto materiale e morale, anche utilizzando gli strumenti del gioco, l’arte e la musica. È questo un modo per ridare dignità e colorare di speranza i sogni dei “nuovi Paria” del Mondo.
Tra i Tanti gruppi di volontari attivi, e per fortuna sottolineiamo “Tanti”, c’è l’azione della Carovana della Gioia, della Scuola di Pace, che dal 2007 corre in soccorso ai bambini in difficoltà, a seguito di fenomeni catastrofici naturali o di guerre.
Il Gioco è l’elemento più importante del nostro viaggio, attraverso esso ritroviamo la fantasia, il sogno, la bellezza!
In questo viaggio del 2015* siamo prima a Palermo, all’arrivo dal mare dei tanti bambini e ragazzi che dall’Africa e dall’Asia sperano di realizzare da noi il loro sogno di Pace e Libertà. Quel Mare così bello e così misterioso che dovrebbe essere sempre e solo Blu e mai di altri colori!
Nella seconda parte del film il nostro gioco è rivolto ai bambini migranti che transitano per Roma. Le attività si svolgono tra il Centro Baobab e il Campo Accoglienza della Croce Rossa alla Stazione Tiburtina. Incontriamo altri artisti di strada, musicisti e volontari per la Gioia accorsi per donare un sorriso a tutti i bambini e… non solo!

Il film è in coproduzione di base per finanziare le Missioni della Carovana della Gioia.
Puoi partecipare anche TU con una donazione andando sul Sito Internet www.lacarovanadellagioia.org.

* La Carovana della Gioia è in missione dal 2007.
Nel 2012 è stato realizzato il docufilm “MISSIONE GIOIA PER I BAMBINI DELLA SIRIA”. Con la regia di Paolo Maselli e Simone Danieli.
Nel 2014 è stato realizzato il docufilm “BAMBINI IN FUGA”, con la regia di Simone Danieli.
Differentemente dai docufilm precedenti “IL GIOCO SALVA IL MONDO” è stato interamente prodotto con mezzi tecnici di fortuna, con esclusione delle scene tratte dai precedenti lavori filmici. Nonostante ciò il risultato è, secondo noi, soddisfacente e interessante.

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Guarda il film:

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Fonte: La Carovana della Gioia

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Francia – Per la sicurezza nazionale a rischio libertà e stato di diritto

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policiers-francaise

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“Stato di emergenza” in Francia

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di Italo Di SabatoOsservatorio sulla Repressione

A seguito degli attentati terroristici a Parigi il governo francese ha dunque dichiarato lo “stato di emergenza” su tutto il territorio francese. Si tratta di una misura “straordinaria” che dà poteri speciali ai prefetti e permette di dichiarare il coprifuoco, interrompere la libera circolazione, impedire qualsiasi forma di manifestazione pubblica e chiudere luoghi come le sale da concerto e i bar. Consente inoltre il controllo dei mezzi d’informazione e permette alle forze dell’ordine perquisizioni a domicilio di giorno e di notte. Una misura straordinaria che rischia di diventare la modalità attraverso la quale non solo si cerca di governare l’avvenimento eccezionale ma si normalizza l’andamento democratico in nome della sicurezza nazionale.

Per Giorgio Agamben, lo stato di eccezione è una soglia oltre la quale vengono meno le tradizionali differenze fra democrazia, assolutismo e dittatura (“Lo stato di eccezione”, Bollati Boringhieri). Dall’inizio del secolo

la creazione volontaria di uno stato di eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici”.

Una realtà che

ha continuato a funzionare quasi senza interruzione a partire dalla prima guerra mondiale, attraverso fascismo e nazionalsocialismo, fino ai nostri giorni”,

sostiene Agamben dopo aver passato in rassegna le innumerevoli difficoltà incontrate dalla tradizione giuridica di fronte al tentativo di fornirne una definizione concettuale e terminologica certa.

Lo stato di eccezione non è un ritorno al potere assoluto, né tantomeno un modello dittatoriale, non è pienezza bensì vuoto, vuoto del diritto come l’esempio del “iustitium” insegna. Lo stato di eccezione – prosegue Agamben:

ha assunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando all’esterno, il diritto internazionale e producendo all’interno, uno stato di eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto”.

La conclusione è senza appello,

dallo stato di eccezione effettivo in cui viviamo non è possibile il ritorno allo stato di diritto, poiché in questione ora sono i concetti stessi di stato e di diritto”.

Dopo aver letto queste parole è inevitabile pensare a quella serie di provvedimenti intrapresi dall’amministrazione Usa dopo l’11 settembre 2001, e che hanno condotto al deserto giuridico di Guantanamo, il più visibile dei luoghi invisibili. L’internamento di individui, non prigionieri accusati, rilancia l’emblema tragico del campo, zona in cui “la nuda vita raggiunge la sua massima indeterminazione”. Le nuove dottrine strategiche, riassunte dietro formule come “giustizia infinita” e “guerra preventiva”, sembrano voler fare dello stato di eccezione il paradigma di governo che domina quella che da più parti è stata definita “guerra civile mondiale”.

La dichiarazione dello “stato di emergenza” in Francia, in un momento così fragile per gli equilibri democratici non solo francesi ma europei, cosi come è accaduto negli Usa dopo gli attentati dell’11 settembre, diventa lo strumento necessario per fornire il pretesto per una formidabile accelerazione di quella trasformazione dei codici penali e di procedura penale che era in corso da molti anni.

Misure che offriranno una nuova finalità e una nuova legittimazione alla trasformazione del diritto penale, una messa in discussione dell’esistenza stessa dello Stato di diritto. Ciò che era stato deciso in gran segreto verrà alla luce e troverà la più ampia giustificazione. Tutte le misure saranno giustificate dell’emergenza, ma si iscrivono in una guerra di lungo termine al terrorismo. Del resto, lo stato di emergenza si iscrive nella durata: esso appare come una nuova forma di regime politico votato alla difesa della democrazia e dei diritti umani. In altri termini, il cittadino deve essere disposto a rinunciare per lungo tempo alle sue libertà concrete al fine di mantenere un ordine democratico autoproclamato e astratto.

L’esempio degli Stati Uniti conferma l’efficacia di questa politica: i sondaggi rilevano che sempre più persone sono disposte a tollerare maggiore sorveglianza e a fare qualche concessione rispetto ai propri diritti alla privacy.

La lotta al terrorismo diventa lo strumento privilegiato di legittimazione di qualunque potere. I governi che partecipano alla politica di lotta al terrorismo sono considerati naturalmente democratici; al contrario qualsiasi movimento politico radicale che si oppone a un governo aderente al programma di lotta al terrorismo può essere criminalizzato. Per esempio, la lista di organizzazioni terroristiche redatte dal Consiglio Europeo comprende il Pkk, il partito curdo impegnato in questi mesi in difesa dei territori contro l’avanzata dell’Isis. Questa disposizione criminalizza il Pkk legittimando contemporaneamente il governo turco ben noto per le sistematiche violazioni dei diritti umani.

Ogni governo quale sia la linea politica, nel momento che aderisce all’“esercito del bene contro l’esercito del male” si trova investito della missione di difendere le libertà fondamentali. Ad esempio l’istituzione del mandato d’arresto europeo (Mae) costituisce un buon esempio di questo riconoscimento, reciproco e automatico, da parte degli Stati membri dell’Unione europea. Esso permette la consegna quasi automatica, da parte di uno Stato membro, di una persona ricercata dall’autorità giudiziaria di un altro Stato membro. Rispetto alle procedure di estradizione, questo mandato sopprime tutti i controlli politici e giudiziari che contemplano la legalità della richiesta e la possibilità di presentare ricorso: la domanda viene incondizionatamente riconosciuta e soddisfatta dagli altri paesi, qualunque sia la sua legittimità o la sua conformità ai principi dello Stato di diritto.

In questo quadro ogni movimento sociale può essere criminalizzato in nome della lotta al terrorismo. Le norme permettono di perseguire qualunque azione compiuta da un movimento il cui obiettivo non è solo quello di opposizione ma anche quello di influenzare le politiche governative o di fare pressione su un’organizzazione internazionale. In questo processo, che ha lo scopo di ridisegnare l’organizzazione della società, il diritto penale acquista un ruolo costituente, è un atto di autorità suprema. Il cambiamento è talmente significativo da provocare un vero e proprio stravolgimento della norma: le “eccezioni” diventano la regola. Le procedure d’eccezione si sostituiscono alla costituzione e alla legge come forma di organizzazione del politico.

Le azioni terroristiche del 13 novembre a Parigi e la risposta del governo francese con i bombardamenti in Siria sono entrambi attacchi ai movimenti sociali, perché intesi a causare la criminalizzazione delle lotte, divisioni, paura e disperazione tra i soggetti colpiti dalla crisi sociale, economica e ambientale e per gestire con mezzi eccezionali i flussi migratori e quant’altro attiene alla globalizzazione in un mondo di guerra permanente. È decisiva la nostra opposizione alla guerra e alle restrizioni crescenti delle libertà civili, cosi come decisiva è la libertà di oltrepassare i limiti posti per criminalizzare e cancellare le capacità sociali e organizzative dei movimenti.

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Fonte: Comune-info

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Yanis Varoufakis: democraticizzare l’Europa con un movimento transnazionale

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Yanis Varoufakis (AP Photo/Petros Giannakouris)

Yanis Varoufakis (AP Photo/Petros Giannakouris)

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Un’idea molto semplice, ma radicale: democraticizzare l’Europa

Alex Sakalis: Sono molto interessato a questo movimento transnazionale, pan-europeo che ti stai preparando a lanciare, sui cui dettagli ci hai ingolosito …

Yanis Varoufakis: Non vi sto ingolosendo. E’ solo che vuole tempo per crearlo.

AS: Quali forze speri di unire in questo movimento pan-europeo?

YV: E’ cominciato con un’idea dopo la repressione di quella che chiamo la primavera di Atene, avvenuta in estate. E’ divenuto abbondantemente chiaro che al livello di stato nazione non si possono neppure mettere sul tavolo proposte che riguardano il proprio paese, per non parlare di proposte per l’eurozona nel suo complesso. Ho fatto esperienza dell’eurozona molto da vicino ed è stato evidente che non si trattava di una sede in cui discutere come stabilizzare l’economia sociale europea, o come democraticizzarla. Questo è semplicemente impossibile; non si può fare.

Così, sai, quando il nostro governo in effetti si è auto-rovesciato, poiché è questo che abbiamo fatto, ci siamo auto-rovesciati, il nostro programma …

AS: Un auto-colpo di stato?

YV: Sì, ma naturalmente quella era precisamente l’intenzione della troika. E’ questo che amano davvero fare. Non solo farci rinnegare tutto quello che avevamo detto, ma anche costringerci a essere quelli che devono mettere in atto proprio il programma che respingevamo e che eravamo stati eletti che contrastare.

Così una volta successo questo la sola domanda è rimasta: valeva la pena di avviare qualcosa da capo in Grecia? Avere una ripartenza? Ricercare una seconda opportunità? E la mia conclusione è stata che la risposta a questo era no. Che vantaggio ci sarebbe stato ad avviare una nuova campagna per due anni – è il tempo che ci sarebbe voluto – solo per tornare dove eravamo, dove io ero, uno contro diciotto?

Se la mia diagnosi è corretta, ciò che sta succedendo in Grecia è semplicemente un riflesso, un’eco, di una crisi molto più profonda in tutta l’eurozona, che non può essere risolta a nessun livello di stato membro nazionale. L’ovvia conclusione che si deve ricavare da questo è che o si sostiene lo scioglimento dell’unione monetaria, e poi si può riparlare molto sensatamente di politica nazionale, o si deve parlare di un movimento pan-europeo per il cambiamento nell’intera eurozona. O una cosa o l’altra.

Oggi la prima conclusione attrae molti. E questo è un dibattito in corso anche in Gran Bretagna, fuori dall’unione monetaria, ma all’interno dell’Unione Europea. A me non piace. Non perché io coltivi una qualsiasi illusione riguardo a Bruxelles, a Francoforte e all’Unione Europea. Ho scritto ampiamente e parlato chiaro estesamente contro il DNA stesso dell’Unione Europea. Tuttavia una cosa è criticare un insieme di istituzioni come l’Unione Europea, criticare il modo in cui è stata messa insieme e il modo in cui funziona. Tutt’altra cosa è sostenere che andrebbe smantellata. E’ ciò che in matematica chiamiamo isteresi. Il percorso che si è scelto per arrivare da qualche parte, una volta arrivati non esiste più. Non possiamo semplicemente tornare al percorso originale e ritrovarci fuori al punto di partenza. Dunque dobbiamo percorrere questa via verso una particolare unione, per quanto tossica possa essere, e se cerchiamo di far marcia indietro, finiremo giù in un burrone.

Questa è la mia idea. E’ esattamente ciò che accadde negli anni ’20. C’era un’unione all’epoca. Non era formalizzata ma era molto forte. Era il tallone aureo. La sua frammentazione portò a perdite umane apocalittiche e io temo moltissimo che avremmo la stessa cosa oggi.

Perciò ho proseguito la mia riflessione a fondo, nella misura che mi riesce, logicamente e sono giunto alla conclusione che la sola soluzione è un movimento pan-europeo. Suona utopica, ma questa idea mi si è cementata nella mente in agosto, quando ho cominciato a girare per l’Europa e mi sono reso conto che c’era una gran quantità di fame e set di tale idea, dovunque andassi.

Venivano ad ascoltarmi a migliaia e non perché volessero particolarmente manifestare solidarietà alla Grecia, o a me, bensì perché semplicemente l’esperienza di questo negoziato tra Grecia e troika aveva toccato un nervo sensibile dovunque. E le persone che vengono ad ascoltarmi e a discutere con me e con i miei colleghi sono preoccupate per sé stesse, per i loro paesi, per l’Europa. Così ho fatto due più due e sono finito col concludere, almeno per me personalmente, che la sola cosa per cui val la pena di battersi è questa aggregazione a livello europeo attorno a un’idea molto semplice, ma radicale: democraticizzare l’Europa.

C’è chi potrebbe dire: “Puah! L’Europa è democratica”. No, non lo è. Non è per nulla democratica. Perciò democraticizzarla è in realtà un’idea molto radicale che va contro ogni fibra del corpo e dell’anima di quelli a Bruxelles.

AS: Dicci un po’ di più su con chi hai parlato sinora nei tuoi viaggi e che speri di far aderire a questa piattaforma.

YV: Questo è un motivo, secondo me, per cui questo dovrebbe essere un movimento, e non un partito né una élite. Non si tratta di presentare una lista, un elenco di politici notevoli. Se è un movimento deve essere un movimento di base. Così sono appena di ritorno da Coimbra in Portogallo. Prima ero a Barcellona con il nuovo magnifico sindaco, Ada Colau, che collabora con me su questo. In Francia c’è un mucchio di persone, una vasta gamma di persone interessate: accademici, attivisti, sindacalisti, politici. Arnaud Montebourg è una persona che è decisamente con noi. Abbiamo persone della Die Linke, del Partito Socialdemocratico in Germania e persone molto in gamba, veramente in gamba del Kreisky Forum in Austria. Così, come ho detto prima, non sto ingolosendo: ci vuole tempo prima che lanciamo questo.

AS: Alcune di queste persone sarebbero a favore di uscire dalla UE? Includeresti nel tuo movimento persone che sono arrivate a tale conclusione diversa?

YV: Beh, io non credo in un partito di tipo leninista, in cui si decidono in anticipo i parametri e poi si accolgono le persone affinché si mettano al loro servizio. Non penso che chi vuole uscire dalla UE sarebbe attratto da questo, perché questo sarebbe un movimento per la democraticizzazione dell’Europa. Può esserci, e ci sarà, un mucchio di dibattito sulla moneta, su che cosa succede quanto abbiamo una ripetizione dell’esperienza che ho avuto io, sentendomi dire che o si accetta l’ordine stabilito delle cose oppure là c’è la porta. Dunque non ci sarà alcuna posizione precostituita sulla moneta, salvo che non ci sarà neppure alcuna posizione precostituita a favore dell’uscita dall’eurozona.

La mia idea personale, e continuo a ripeterla, è che è politicamente un errore e finanziariamente un errore cominciare a pianificare lo scioglimento dell’eurozona come qualcosa che si vuol conseguire. Non dovremmo essere spaventati da minacce di essere cacciati dall’eurozona. Ma questa è un’altra storia.

AS: Dunque Jeremy Corbyn sarebbe il benvenuto nel vostro movimento?

YV: Assolutamente. Ma, vedi, è importante fissare questo punto. Questa non sarà una coalizione di partiti. Dovrebbe essere una coalizione di cittadini. Possono appartenere a qualsiasi partito vogliano. Non saranno ammessi partiti. Non è un partito né un’alleanza di partiti. L’idea è di creare un movimento di base in tutta Europa di cittadini europei interessati a democraticizzare l’Europa. Possono appartenere a qualsiasi partito. Ovviamente saranno coinvolti in altre campagne nelle loro comunità locali, nei loro stati membri, nelle loro nazioni. Forse avremo persone di partiti diversi dello stesso paese. Posso facilmente immaginare questo, e in realtà mi piacerebbe. Perché se l’idea è di non replicare politiche nazionali, perché dovremmo avercele? Ma personalmente conto molto sui seguaci di Corbyn.

AS: State stilando un manifesto?

YV: Sì, ci stiamo lavorando.

AS: Chi lo sta scrivendo?

YV: Non ti farò nomi e non lo firmeremo quando lo lanceremo. Sarà un testo fluttuante.

AS: Puoi darci una data stimata di pubblicazione?

YV: Sarà prima di Natale.

AS: Nel Regno Unito stiamo affrontando questo referendum su se andarcene o restare. OpenDemocracy ha discusso come questo sarà inquadrato nei media e pensiamo che potrà ridursi a qualcosa del tipo: “Ci piacciono gli affari più di quanto odiamo gli immigrati, o odiamo gli immigrati più di quanto amiamo gli affari?”

YV: E’ un modo interessante di presentare la cosa.

AS: Ma non è questo il dibattito che dovremmo avere sull’Europa. Si tratta di una scelta incredibile, epocale che il Regno Unito ha di fronte. Come ti piacerebbe vedere inquadrato il dibattito sul nostro rapporto con l’Europa e che cosa dovremmo pretendere dall’Europa?

YV: “Vogliamo un’Europa democratica o no?” Torniamo a quanto ho detto in precedenza. L’Europa e l’Unione Europea non sono la stessa cosa. Il problema con la UE è che ha tutta la regalità di uno stato sovranazionale, senza esserlo. Non è solo che formalmente non è uno stato. Il suo DNA, la sua storia, il modo in cui è stata assemblata sono completamente diversi da come emerge uno stato. Uno stato emerge come risultato della necessità politica di un meccanismo, un meccanismo collettivo d’azione, che migliori i conflitti di classe e i conflitti di gruppo.

Così, prendiamo gli Stati Uniti o il Regno Unito. Lo stato inglese è cominciato con la necessità di trovare un qualche genere di equilibrio tra differenti signori e baroni. La Magna Charta fu uno scontro tra l’autorità centrale del re e i baroni, e successivamente si ebbe lo scontro tra l’aristocrazia terriera e i mercanti. Arrivano gli industriali e arriva la classe operaia. Gruppi diversi si scontrano ferocemente per il controllo. E lo stato emerge attraverso questo scontro di placche tettoniche tra loro e lo stato diviene l’insieme di istituzioni che hanno legittimità, o cercano di basare la loro legittimità su un mandato della popolazione nel suo complesso, al fine di creare un qualche genere di equilibrio di potere, di equilibrare questi conflitti, di stabilizzarli.

Dunque è così che si forma lo stato. Per definizione lo stato, anche se non è democratico, come ad esempio la Cina, ciò nonostante è un processo puramente politico con lo scopo di stabilizzare i conflitti sociali. Ora l’Europa, Bruxelles, non è emersa così. L’Europa è emersa come un cartello dell’industria pesante. E’ cominciata con il carbone e con l’acciaio, e poi ha cooptato i coltivatori, poi ha cooptato i banchieri, poi l’industria automobilistica e alla fine le industrie dei servizi, e via di seguito. E’ stato un tentativo di creare prezzi stabili, di limitare la concorrenza, l’opposto della ragion d’essere dello stato britannico e ovviamente dello stato statunitense. Così l’idea era di stabilizzare i prezzi e di fermare lo scontro tra l’industria tedesca, l’industria francese, l’industria dell’Italia settentrionale, l’industria olandese … quel genere di cosa.

C’è un’enorme differenza tra uno stato che emerge come mezzo politico per stabilizzare i conflitti di classe e il personale amministrativo di un cartello. L’industria britannica non ha mai fatto parte del cartello ed è per questo che la Gran Bretagna è arrivata così tardi nel Mercato Comune Europeo. La Gran Bretagna vi è, in effetti, entrata per sostituire un impero perduto avendo accesso a questi mercati. Ma i mercati erano già monopolizzati dal cartello dell’Europa centrale. Dunque il motivo per cui l’establishment britannico non è mai stato innamorato dell’Unione Europea è perché non ha mai fatto parte del processo di creazione del cartello che ha fatto ascendere Bruxelles. Non è una cattiva cosa. Ma sto cercando di spiegare perché in Germania, Olanda, Belgio, l’establishment, le élite, non mettono mai in discussione l’Unione Europea, mentre in Gran Bretagna è messa in discussione.

Dunque qui, in Gran Bretagna, finite in una situazione in cui non piace a nessuno. Non piace alla classe lavoratrice, perché la UE non ha in mente gli interessi della classe lavoratrice britannica. Ma al tempo stesso l’industria britannica non ha lo stesso interesse in essa. La City vi ha interesse, e alcune società, anche un piccolo gruppo di società ce l’ha. Tutto consegue da questo. L’Unione Monetaria ha dovuto sviluppare una moneta comune perché se stai costruendo un cartello devi avere prezzi stabili. Per i primi vent’anni la stabilità dei prezzi era garantita da Bretton Woods. Dopo il 1971 l’Europa cerca di creare il proprio sistema da tallone aureo alla Bretton Woods, che è divenuto l’Euro. Dunque la Gran Bretagna è in una situazione precaria nei confronti della UE. La Gran Bretagna continua a dire al mondo che vuole il mercato unico ma non vuole Bruxelles. Ma non può ottenerlo.

AS: Beh, solitamente fanno l’esempio di Norvegia o Svizzera.

YV: Beh, Norvegia e Svizzera si sono già rimesse a Bruxelles. Volete questo?

AS: Solitamente il dibattito non arriva fin lì.

YV: Sì, beh dovrebbe arrivarci. Dunque la domanda è, anche se si esce dall’Unione, gli standard del lavoro, dell’ambiente saranno alla fine dettati a livello dell’Europa.

AS: Perché le nostre economie sono semplicemente troppo globalizzate e troppo interconnesse?

YV: Guarda il TPP, il TTIP e tutte quelle cose. Non si tratta più di dazi e di quote; si tratta di standard. Si tratta di standard industriali, di standard ambientali, di standard del lavoro e di brevetti. Dunque chi scrive queste regole? Non sarà un negoziato tra Gran Bretagna e UE a scrivere queste regole. Sarà a Bruxelles che queste regole saranno scritte. E la Gran Bretagna non avrà altra scelta che prendere o lasciare, lasciare la UE.

Dunque la mia idea è che i problemi con la UE abbiano a che fare innanzitutto con il modo in cui è stata costruita come zona priva di democrazia. E’ una zona completamente priva di democrazia per progetto. La Gran Bretagna non lo è, a causa della differenza di Bruxelles rispetto a Londra in termini di DNA. Dal mio punto di vista i progressisti britannici non hanno altra scelta che rimanere nella UE e unirsi a noi nel tentare di democraticizzarla. Se non riusciamo da democraticizzare la UE non fa davvero grande differenza se siamo dentro o fuori. A meno che, naturalmente, la Gran Bretagna non trovi un modo per sostituire il 60% dei suoi scambi oggi con la UE con qualcun altro. Non sarà in grado di farlo.

AS: Owen Jones sta sollecitando quella che chiama la Lexit, un’uscita della sinistra [Left] dall’Europa. Che cosa diresti a chi appoggiasse tutto quello che dici a proposito dell’Europa e della democrazia ma che tuttavia vuole lasciare la UE?

YV: Beh, mi trovo ad affrontare questo genere di argomento nel mio paese con i miei ex compagni di governo che hanno lasciato e hanno creato il Partito di Unità Popolare, che dicono esattamente la stessa cosa. Non possiamo avere un vero dialogo con l’Eurogruppo, perciò l’uscita è l’unica soluzione.

La mia tesi è che non ci sono soluzioni facili. Mi piacerebbe che potessimo creare un universo alternativo in cui fosse possibile avere un certo grado di autonomia, di autarchia, che consenta di ripulire le stalle di Augia. Non è possibile. L’idea di tornare a una vita agricola pastorale è assurda. Oggi persino le mietitrebbie sono governate da elettroniche che i nostri paesi non necessariamente producono.

Non ci si può ritirare dal mercato globalizzato e specialmente dal mercato europeizzato. Dunque se si esce senza avere alcuna capacità di partecipare alla democraticizzazione di tale mercato allora si sarebbe sempre soggetti a un mercato amministrato da tecnocrati e si avrà un grado di libertà minore di quello che si ha ora.

Penso sia importante non cadere nella trappola nazionalista di pensare che si possa ritornare nel bozzolo dello stato nazione. Ciò non significa che dovremmo assecondare Bruxelles. Io sono favorevole a restare nella UE e giocare la nostra partita. Penso di aver provato questo oltre ogni ragionevole dubbio. Credo nel rimanere per rovesciare le regole. Anche passare a una campagna di disobbedienza civile all’interno. Questa per me è la strategia della sinistra, non la “Lexit”.

AS: Quanto potere hanno i governi nazionali sulla politica economica? Quando eri ministro delle finanze, ti sentivi davvero al comando del destino del tuo paese?

YV: No. Beh, dipende. La Gran Bretagna è molto diversa dalla Grecia. Non sono perché è un’economia più vasta e considerevole, ma anche perché non è nell’eurozona. Se non si è nell’eurozona si ha un certo grado di libertà, non ci sono dubbi al riguardo. E vorrei che non fossimo mai entrati nell’eurozona, che non è la stessa cosa che io dica che dovremmo uscirne. C’è una grande differenza.

Così, quando si è dentro l’eurozona, il proprio grado di libertà è minimo, se non addirittura zero. La sola cosa che abbiamo potuto fare è stata rinegoziare l’intero pacchetto, per ottenere un certo grado di libertà. Dunque una delle cose che questo movimento proporrà sono modi in cui possiamo combinare una maggior europeizzazione di particolari settori, come la gestione del debito, come il settore bancario, gli investimenti aggregati, la lotta alla povertà, per trovare soluzioni europee per essi al fine di creare maggior decentramento, di dare maggiori gradi di libertà alle politiche sociali ed economiche al livello delle regioni, delle città e, ovviamente, della nazione. Io credo che questo sia possibile. Suona come una contraddizione, ma io credo che sia possibile guadagnare questi gradi di libertà se europeizziamo alcuni grandi problemi.

AS: Questa opposizione economica di sinistra all’ordoliberalismo dovrebbe allora andare oltre Keynes?

YV: Oltre il Keynes dei manuali, senz’altro. Ma questa sarebbe una nuova varietà di Keynes adattata alle situazioni dell’Europa. Da anni ormai con i miei amici James Galbraith e Stuart Holland, ex parlamentare laburista del Vauxhall, siamo andati assemblando quella che chiamiamo “una modesta proposta”, appropriandoci del titolo di Jonathan Swift, che è un’idea keynesiana di che cosa fare con l’eurozona che si applica al livello dell’eurozona e non al livello degli stati nazione.

Così in essa abbiamo spiegato come le istituzioni esistenti – la banca centrale, il meccanismo europeo di stabilità, la banca europea per gli investimenti – possono essere utilizzate al fine di creare un nuovo patto europeo. Un nuovo patto verde per l’Europa guidato da investimenti, con la banca per gli investimenti che svolga il ruolo che sotto il New Deal di Roosevelt svolse il tesoro federale, emettendo buoni del tesoro con il fine di raccogliere risparmio in eccesso per canalizzarlo verso gli investimenti. Penso che possiamo far questo con la nuova banca europea per gli investimenti, sostenuta dalla banca centrale europea, anziché mediante alleggerimenti quantitativi di acquisto di debito governativo. Potrebbe acquistare titoli della banca per gli investimenti, in tal modo assicurando che qualsiasi nuovo alleggerimento quantitativo abbia luogo vada direttamente agli investimenti, specialmente in tecnologie verdi. Ci sono modi che si possono immaginare per intervenire immediatamente oggi nella crisi per stabilizzare il capitalismo europeo al fine di essere in grado di cominciare a discutere di progetti politici per democraticizzarlo. La scelta è tra questo e la barbarie.

AS: O lo status quo?

YV: Lo status quo non è più una scelta, perché si sta sbriciolando. Non credo che lo status quo sia sostenibile, e penso che tutti lo sappiano. Prendiamo l’Italia. L’Italia è un paese che ha un avanzo di parte corrente. E’ debitrice di sé stessa quanto alla maggior parte del debito pubblico, in che è un bene. Ma non è sostenibile. Ha avuto un avanzo primario tra il 2 e il 2,3 per cento negli ultimi anni e tuttavia il suo rapporto debito/PIL sta aumentando esponenzialmente. Ora, ciò ci dice che qualcosa è profondamente sbagliato, quando si ha un paese come l’Italia, sofisticato, che produce di tutto, da Armani a Ferrari a Fiat, e ha un avanzo di parte corrente; ha due avanzi, un avanzo commerciale e un avanzo nel settore dei servizi e poi ha un avanzo nei conti principali del governo. E tuttavia sta affondando nel debito. Questo dice qualcosa.

Renzi l’altro giorno è venuto fuori a dire qualcosa di particolarmente notevole. Ha detto che se Bruxelles respingerà il suo bilancio, lui glielo risottoporrà tale e quale. E’ una sfida aperta al patto fiscale dell’Unione Europea. Perché lo sta facendo? E’ un rivoluzionario? No. Perché sa che se segue le regole il suo paese finirà in un buco nero o lo rifiuterà. Troviamo la stessa cosa in Francia, in Spagna che pubblicizzata, mentre parliamo, come una grande storia di successo: sono insostenibili. E anche Schaeuble sa questo. Sa che l’eurozona non è in grado di subire e assorbire un’altra onda d’urto nell’economia internazionale, il tipo di onda d’urto che si sta formando ora. Dunque non penso che lo status quo sia un’opzione.

AS: Puoi spiegare in linguaggio per profani che cosa implicava il tuo Piano B?

YV: In realtà lo chiamavo Piano X – giusto per essere precisi – ed era composto da due parti. Di fatto erano due piani separati. Uno riguardava come gestire la situazione se fossimo stati cacciati dall’euro. Perché c’erano queste minacce e anche se io non le ritenevo credibili e pensavo che non l’avrebbero mai fatto, anche se volevano farlo, e pensavo fosse illegale da parte loro farlo che avrebbero avuto seri problemi se lo avessero fatto, ciò nonostante io, da ministro delle finanze, avevo l’obbligo di redigere piani d’emergenza nel caso riuscissero a farci uscire.

E dunque questo è, era, principalmente il Piano X. Quando cominciavi a far mente locale su come avrebbe avuto luogo questa ridenominazione di ogni cosa in una diversa moneta, quanto più ci pensavi tanto più la cosa sembrava complicata. Ogni volta che pensavi di aver risolto un problema ne avevi creati altri dieci. Così la mia squadra che lavorava a questo stava lavorando giorno e notte per cercare di immaginare tutti gli scenari. E naturalmente la difficoltà con questo era che doveva essere una squadra piccola, altrimenti sarebbe stata una profezia auto-avverante. Dunque questo era il Piano X.

Ma c’era un altro piano, non un piano d’emergenza bensì un insieme di reazioni che stavo preparando da parecchio, da almeno un anno, per restare nell’euro dopo che ci avessero chiuso le banche. Sapevo che ci avrebbero minacciato con le banche e lo sapevo da molto prima che fossimo eletti. E i tre passi che raccomandavo come ritorsione erano, innanzitutto annunciare la creazione di un sistema parallelo di pagamenti, un sistema elettronico denominato in euro; in secondo luogo un taglio o una dilazione di 30 anni del rimborso dei titoli del debito governativo greco detenuti dalla BCE a livello di 27 miliardi. Sarebbe stata una grossa arma da usare, per l’intero programma QE della BCE avrebbe avuto grosse difficoltà se avessimo fatto questo. E, terzo, cambiare la legge che regola in funzionamento della banca centrale greca. Dunque questo era al fine di restare nell’euro con le banche chiuse, dopo una mossa aggressiva della BCE.

Era questo il piano che io ritenevo cruciale, non il Piano X. Il Piano X era nel caso fossimo spinti fuori dall’euro. Non pensavo che ciò fosse credibile ma dovevo averlo, proprio come il Ministero della Difesa deve avere piani d’emergenza nel caso la Turchia ci invada, anche se non crede che la Turchia ci invaderà.

Ma quelle tre politiche con cui reagire alla chiusura delle banche, quelle erano la partita vera per me. Era un piano per restare nell’euro e riuscire a sopravvivere al suo interno, con le banche chiuse, mentre i negoziati producevano l’esito appropriato. Avevo sempre saputo che a meno che avessimo dimostrato la capacità di non arrenderci dopo che le banche fossero state chiuse per una settimana o due, saremmo stati ridotti sul lastrico.

AS: E tu pensi che un paese piccolo, alla bancarotta, senza alleati nell’eurozona avrebbe potuto fare ciò?

YV: Sì, assolutamente. Guarda a come Mario Draghi tiene insieme l’euro. Senza QE non ci sarebbe euro. Il QE è in un equilibrio molto precario da un punto di vista legale perché Draghi affronta molte contestazioni da parte della Bundesbank e la contestazione maggiore è che i suoi acquisti di attivi potrebbero subire un taglio di valore e la risposta consueta della Banca Centrale è che essa non tollererà un taglio del valore. Se io annuncio un taglio in reazione a una mossa molto aggressiva di chiusura delle nostre banche, allora l’interno programma di alleggerimento quantitativo (QE) ne sarebbe compromesso. Weidmann e la Bundesbank direbbero: “Vedete, state acquistando titoli che adesso sono sottoposti a un taglio”. Dunque avevamo un’arma, ma mi è stato impedito di usarla.

AS: A openDemocracy siamo ossessionato dal TTIP. Un ministro di Syriza con cui ho parlato recentemente ha detto di ritenere che un governo di Syriza non dovrebbe mai approvare il TTIP. Ci sono mai state discussioni sul TTIP mentre tu eri al governo?

YV: No, mai. Sono sicuro che questo sia un sentimento genuino. Ma allora, di nuovo, lascia che ti ricordi, Alex, che abbiamo continuato a dire per anni e durante i mesi del negoziato, ogni giorno, che non avremmo mai firmato un terzo memorandum.

AS: Dunque .. pensi che la pressione sarebbe troppo forte se si arrivasse a quel punto?

YV: Ti ho già risposto.

AS: La mia ultima domanda riguarda i media e come reagirai. Come gestirai i media in rapporto con il tuo nuovo movimento? Può non essere molto …

YV: Oh, non preoccuparti. Ho avuto un sacco di addestramento.

AS: Dunque hai appreso lezioni …

YV: La singola lezione più importante che ho appreso è che non contano. Perché se il messaggio è forte, considerata la necessità di un movimento che esprima questa brama di un minimo di controllo democratico sulle fonti del potere in Europa, io credo che sarà l’onda della gente, come ha fatto in Grecia, a trasportarci. Abbiamo conquistato il 61,3% dei voti contro ogni singola televisione, stazione radiofonica e contro ogni giornale. Tutti facevano campagna per il sì. Abbiamo potuto farlo in Grecia, potremmo farlo in Europa.

E, in ultima analisi, è come ci ha insegnato Omero. Non è tanto il viaggio che conta, quanto la destinazione. E’ una buona lotta e dobbiamo combatterla.

Yanis Varoufakis è l’ex ministro delle finanze della Grecia, professore di economia all’università di Atene e docente ospiti alla Scuola di Specializzazione Lyndon B. Johnson in Affari Pubblici, Università del Texas, Austin. E’ autore di ‘Il Minotauro globale’ [Edito in Italia da Asterios]. Il suo blog è qui.

Alex Sakalis è condirettore di openDemocracy. Revisiona il dibattito “Can Europe Make It?” [L’Europa può farcela?].

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Fonte: ZNet Italy .

Originale:  openDemocracy

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