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La scuola non è un’azienda!

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Matite spuntate

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Che le prove Invalsi siano una incredibile spesa inutile ormai nessuno lo mette più in dubbio. Eppure ci avviamo al 5 e al 6 maggio con tutto il carrozzone che arranca fra incubi di tagli, nelle nostre stesse aule di sempre, con gli stessi strumenti di sempre. Che Paese! Se dovessi definirlo come fosse una persona, direi che è borioso, vanaglorioso, sputasentenze… insomma una specie di Capitan Fracassa dalla grancassa stonata. Peccato che ad abitarlo siano tanti inconsapevoli innocenti sottoposti a insensati bla bla su tutto.

Intanto noi maestre e maestri siamo alle prese col cesello, col lavoro da gioielliere. Una pressione qui, un alleggerimento là, molti sì, pochi no, ma ben tenuti, educare, accompagnare, risollevare, sostenere, frenare, spingere, in un lavorio continuo di minime costruzioni e ricostruzioni di apprendimenti, relazioni, rievocazioni, cadute e riprese. Su ogni bambino e bambina una scommessa e un investimento mettendo a disposizione totalmente il corpo e la mente.

Matite spuntate

Di tutta “La buona scuola” di questo governo poi non ho capito niente. Sono ignorante, piccola ed evidentemente vecchia, da rottamare. Sono alle prese con matite spuntate, penne che si perdono, gomme mangiucchiate, litigi e paci raggiunte, pianti, urli, risate, forchette lanciate, bronci e ed entusiasmi da sostenere senza mai sottovalutare una smorfia, un sorriso, una parola detta e non detta… sono qui tra un mare di bambine e bambini che mi chiamano “maestraaaa, maestraaa, maestraaa” senza perdere di vista letture, sintassi, testi, poesie, musiche, balli, colori e forme, in un vortice di passioni, cedimenti, pigrizie, iperattività. Io sono qui come quei segnali su una mappa da cui si dipartono tante strade sconosciute da imboccare o evitare.

No, non capisco il linguaggio de “La buona scuola”, mi è lontano mille miglia quando ogni giorno sono china su ognuno e conduco la regia dei difficilissimi apprendimenti, quando posso quasi udire gli ingranaggi delle menti dei bambini e delle bambine che si misurano con le asperità dell’espressione linguistica e mi chiedono di essere aiutati a uscire dalla gabbia della mancanza del lessico per dire parole di gioia, di tristezza, di emozioni, sentimenti, esperienze. È un lavoro lento, paziente, che parte da lontano, dal corpo, dalle mani, dai piedi, dalla conquista dell’equilibrio nello spazio, dalla percezione del tempo, dalla musica, dal disegno, dalla verbalizzazione di ogni attimo, dal mio ascolto attento, continuo… perché io devo favorire gli apprendimenti di ognuno e ognuna usando le discipline al servizio della persona e non viceversa.

Finanziamenti, competizione, differenziazione

Io non devo creare musicisti, letterati, ginnasti, pittori, matematici, ecc… ma creare i presupposti per la formazione della persona. Io so che la Costituzione mi chiede di fondare le basi per i futuri cittadini e le future cittadine nella loro interezza, affinché possano avere pari opportunità, sapere quali sono i loro diritti e i loro doveri nel rispetto delle diversità. “La buona scuola” mi parla di lustrini, di finanziamenti, di competizione, di differenziazione, di frammentazione… non mi parla di pedagogia, di pazienza, di tempi garantiti e continuativi, della compresenza difesa, di insegnamenti integrati che rispettino la persona nella sua interezza, non mi parla di rispetto per la valutazione formativa, di lavoro collegiale, di tempo pieno.

No, decisamente non capisco dal mio piccolo mondo di rapporti a due, maestre e lei/lui, maestre e classe,  la sua lingua, essa mi è estranea. E allora ho scelto la Lip, l’ho adottata anche se “lei” non lo sa, perché ci respiro Costituzione, rispetto per la nostra storia, per ciò che di buono aveva prodotto, per il suo parlare chiaramente di attenzione alla persona, alla Costituzione, al lavoro, alle componenti della comunità scolastica, per la sua attenzione al concreto, riferendosi anche chiaramente al numero degli alunni per classe, al sostegno. La capisco e la condivido per la sua nitidezza e pulizia prive di annunci mirabolanti. È fatta di discrezione e rispetto per le idee pervenute dalle tante persone di buona volontà che la scrissero e raccolsero firme nei banchetti per le  strade e nelle nostre case, anche la notte. È stata sudata e amata da tanti e tante di noi, sconosciute e sconosciuti lavoratrici e lavoratori che non si stancavano e non si stancano di essere al fianco di Viperetta e Pierino… La Lip ama Pierino e Viperetta e, se andrà in porto, sarà ricambiata.

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* maestra, autrice di “2014, odissea nella scuola

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Fonte: comune-info.net

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La melodia magica ed ipnotica del Canone di Pachelbel

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Johann Pachelbel (1653 – 1706)

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Canone e giga in re maggiore per tre violini e basso continuo, meglio noto semplicemente come il Canone di Pachelbel, è una composizione musicale scritta nel XVII secolo – in forma appunto di canone – dal religioso e musicista tedesco Johann Pachelbel.

Pachelbel lo compose intorno al 1680, ovvero in piena epoca barocca, come parte di una pièce di musica da camera per tre violini e basso continuo.

Il Canone di Pachelbel rappresenta uno degli esempi più importanti di crossover in ambito musicale: a partire dagli anni settanta è infatti passato dall’essere un’opera poco conosciuta della musica barocca al diventare un elemento culturale universalmente noto.

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Ecco alcuni dei musicisti o gruppi pop/rock che hanno riadattato il Canone o che comunque hanno riutilizzato la progressione di accordi:

Aphrodite’s Child, The Beatles, Bob Marley, Village People, Aerosmith, Oasis, Brian Eno, Joe Satriani, Yngwie Malmsteen, etc…

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Fonte: Wikipedia

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Don Milani, Gramsci e la scuola pubblica italiana

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Milani, Gramsci e i bisogni educativi speciali

di  Antonio Vigilante*

Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all’esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d’accusa contro la scuola pubblica italiana che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio «socio-economico, linguistico, culturale»); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.

Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l’hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C’è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente ‒ nel senso etimologico: che esclude ‒ borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura.

Voleva, don Milani, che la scuola non fosse più espressione della sola classe borghese, che si aprisse ad accogliere le culture altre, che comprendesse il mondo dei contadini e degli operai non meno del mondo borghese. Voleva una scuola in cui si studiasse il contratto dei metalmeccanici, e non solo i classici della letteratura.

Ed ecco invece cosa succede. Chiunque provenga da una cultura non borghese viene dichiarato svantaggiato. «Svantaggio socio-culturale» è il nome che si dà ora qualsiasi modo di essere che non rientri nei canoni borghesi, così come comportarsi in modo non conforme alle aspettative della scuola borghese significa essere non scolarizzati (espressione atroce tristemente diffusa nel linguaggio dei docenti).

Invece di fare una scuola diversa, che dia voce anche a chi non è borghese, consideriamo chi non è borghese come un poveraccio di cui avere compassione, uno che senza avere colpa si trova indietro, e nei cui confronti bisogna essere comprensivi. Se don Milani era esigentissimo con i suoi ragazzi, non risparmiando loro nemmeno la frusta, ora agli svantaggiati si dà una scuola diluita, meno impegnativa, più facilmente digeribile. Ricorrere all’etichettamento – un etichettamento che avrà naturalmente conseguenze non lievi – è molto più semplice ed economico che ripensare a fondo la scuola.

Accade, insomma, quello che per Antonio Gramsci bisognava evitare. Nei Quaderni del carcere il filosofo prevedeva la situazione che si sarebbe creata con la nascita della scuola di massa: il figlio dell’operaio, non abituato al lavoro intellettuale, va a scuola e trova molte più difficoltà del ragazzino di una famiglia con tradizione intellettuale.

Ecco perché ‒ scriveva ‒ molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuoi dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. (Gramsci 1975, 1549-1550)

Il trucco in effetti c’era e c’è, e non è soltanto nel fatto che chi viene da una famiglia di operai e contadini non è avvezzo a certe fatiche. L’esperienza di Barbiana dimostra che dei figli di contadini possono sobbarcarsi un lavoro intellettuale anche molto consistente, se si tratta di un lavoro che ha contatti reali con la loro vita e la loro cultura. La disaffezione per la scuola nasce da altro. I figli dei contadini provano disaffezione per una scuola in cui si impara a vergognarsi dell’essere contadini; l’alternativa è che amino la scuola e si vergognino delle loro origini.

La scuola attuale si pretende multiculturale, anzi interculturale. I documenti che la riguardano sostengono che le differenze culturali di cui i sempre più numerosi studenti stranieri sono portatori devono essere valorizzate nel modo migliore, e ciò può accadere solo se la cultura dominante, quella che ospita, entra in dialogo con esse, in un fecondo rapporto di scambio reciproco. Chiacchiere. Quella che abbiamo è, invece, una scuola penosamente monoculturale. Il crocifisso alle pareti, difeso con un fanatismo degno di miglior causa, esprime la chiusura sostanziale dell’istituzione a qualsiasi identità religiosa che non sia quella cattolica. La storia, la filosofia, la poesia, l’arte che si studiano sono quelle occidentali. La cultura manuale ed il lavoro, di cui i più grandi pedagogisti hanno affermato l’insostituibile valore educativo, sono banditi dalla scuola. L’ideale umano che la scuola impone oscilla tra l’intellettuale borghese, l’impiegato statale e l’uomo d’affari. Buona parte del compito sociale della scuola consiste nel giustificare le attribuzioni di status e la distribuzione dello stigma sociale. Grazie alla scuola, chiunque aderisca alla cultura borghese, ai suoi valori, al suo stile di vita (che, ricordava Illich, è anche uno stile di consumo) ha uno status sociale elevato; chi lo contesta, in modo più o meno consapevole, è colpito dallo stigma sociale. Grazie alla scuola, la mano che tiene la penna è più socialmente apprezzata e riconosciuta della mano che tiene la zappa.

l compianto Gianfranco Zavalloni, preside-contadino, raccontava la sua esperienza come presidente di commissione all’esame di licenza media (Zavalloni 2012). Agli orali gli annunciarono che lo studente che stavano per esaminare era il peggiore della scuola. Si trattava di un ragazzone di campagna, che lavorava le terre insieme a suo nonno. Zavalloni lo interrogò di persona: non sul programma scolastico, ma sui dettagli del suo lavoro, sul passaggio dei prodotti dalla terra al mercato, fino alla vendita. Lo studente si espresse con proprietà di linguaggio, mostrando il possesso di conoscenza multidisciplinari connesse al suo lavoro. Fece, insomma, un buon esame; e «i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”». Con i bisogni educativi speciali i professori potranno continuare a «non sapere nulla di tutto questo» ‒ dei mondi culturali che sono oltre il raggio della cultura scolastica ‒, illudendosi per giunta di essere inclusivi.

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Fonte:  comune-info.net

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* Antonio Vigilante vive a Siena, dove insegna psicologia e scienze umane in un istituto professionale. Si occupa di teoria e storia della nonviolenza, di pedagogia e di filosofia interculturale. Il suo ultimo libro è: L’educazione è pace (Edizioni del Rosone, Foggia 2014). Possiede un blog personale all’indirizzo: http://antoniovigilante.blogspot.it

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