Campagna "Diritto di rete" di Altroconsumo
Leggi il testo dell’appello
Antipirateria: firma la nostra petizione
Campagna Altroconsumo per lo sviluppo della cultura in rete: aderisci al gruppo su Facebook
"L'informazione è potere! L'informazione deve essere libera!"
Leggi il testo dell’appello
Antipirateria: firma la nostra petizione
Campagna Altroconsumo per lo sviluppo della cultura in rete: aderisci al gruppo su Facebook
Tibet libero! (madu)
TIBET: UN MONACO SI AUTOIMMOLA DANDOSI FUOCO. LA POLIZIA GLI SPARA
Hong Kong, 27 febbraio 2009. Lhadon Tethong, direttore
esecutivo di Students for a Free Tibet, in una drammatica
corrispondenza da Hong Kong conferma la notizia, trapelata in
mattinata, che la polizia cinese ha sparato a un monaco tibetano che si
era dato fuoco autoimmolandosi in segno di protesta.
Testimoni oculari hanno riferito che Tape, un giovane monaco di
età compresa tra i venti e i trent’anni, appartenente al monastero di
Kirti, nella città di Ngaba (Tibet orientale), si è cosparso di benzina
e, portando una bandiera fatta in casa e un ritratto del Dalai Lama, si
è diretto lungo via che conduce al mercato centrale gridando slogan.
Giunto all’incrocio principale, si è dato fuoco. La polizia ha sparato
tre colpi dei quali almeno uno è andato a segno. Il suo corpo è stato
immediatamente portato via e al momento non è possibile sapere se Tape
è vivo oppure morto.
Il gesto di Tape è avvenuto dopo che la polizia
ha impedito a mille monaci del monastero di Kirti, incluso il giovane
religioso, di entrare nella principale sala di preghiera per adempiere
i riti del terzo giorno del Losar. I monaci si sono seduti all’esterno
della sala e si accingevano a recitare le loro preghiere quando un
monaco anziano li ha implorati di andarsene. I religiosi sono tornati
alle loro stanze. Poco dopo, Tape è uscito dal monastero e, portando con sé la
bandiera tibetana, si è diretto verso il mercato, a pochi minuti di cammino.
“Il fatto che un giovane monaco si senta costretto ad
auto immolarsi in segno di protesta mostra che la repressione cinese in
Tibet sta portando i tibetani alla disperazione”, scrive Ladhon
Tethong. “Questo gesto è un segnale della grande frustrazione e del
dolore che i tibetani provano dopo essere stati per un anno oggetto
dell’oppressione delle autorità cinesi e dopo aver subito per
cinquant’anni il giogo del governo di Pechino”.
Facciamo in modo che la notizia circoli e partecipiamo tutti inviando e-mail di protesta. (madu)
Nell’ottobre del
2007 è stato
incarcerato, nella provincia di Balkh
(nel nord dell’Afghanistan), il giovane
giornalista Parwiz Kambakhsh.
Parwiz è stato accusato di blasfemia per aver
distribuito un articolo, stampato da Internet,
nel quale si parlava dei diritti delle donne
nell’Islam.
Inizialmente condannato a morte
dall’oscurantista consiglio dei religiosi
di Balkh, Parwiz ha aspettato per un anno, in
galera, la sentenza della corte d’appello e ora
la sua esecuzione è stata trasformata in 20
anni di reclusione. I suoi avvocati vogliono
ricorrere alla corte suprema, ma senza una
mobilitazione internazionale a favore di Parwiz
la condanna sarà probabilmente confermata.
Le infamanti accuse nei confronti di Parwiz da
parte dei tribunali afghani dimostrano come in
Afghanistan, a sette anni dall’invasione
militare americana, la libertà di stampa sia
totalmente negata e come non sia in vigore
una giustizia che possa definirsi tale.
Un altro esempio è quello di Naseer Fayyaz, un
altro coraggioso giornalista, che per aver
criticato il governo è stato minacciato di morte
e perseguitato dai servizi
segreti afghani (KHAD), finché si è trovato
costretto a lasciare il Paese.
In Afghanistan
quella in vigore è solo la legge del più
forte, e chiunque osi opporsi ai
fondamentalisti al potere e alle autorità
religiose viene punito con condanne esemplari,
minacciato, costretto ad allontanarsi dal paese,
ucciso, indagato dai servizi segreti.
Durante la
legislatura di centrodestra (2005-2006), il
governo italiano – secondo le direttive
varate dopo le conferenze di Bonn (2001) e di
Londra (2006) – ha messo in piedi un
costosissimo programma giustizia (71
milioni di euro, spesi dai contribuenti
italiani) al quale hanno lavorato centinaia di
esperti italiani, e con cui si sarebbe dovuto
ricostruire il sistema giuridico afghano.
L’assurda
condanna di Parwiz Kambakhsh dimostra quanto
il programma giustizia promosso dal nostro
governo sia stato fallimentare, soprattutto
a fronte dell’enorme spesa sostenuta. È anche
un’ulteriore disfatta per Karzai e per i governi
occidentali che hanno vestito dei noti criminali
di guerra in giacca e cravatta definendoli
democratici e portandoli al potere.
Chiediamo
che tutti i sinceri democratici, coloro che
credono che non esista una giustizia di serie A,
per gli occidentali, e una di serie B, per tutti
gli altri, alzino la loro voce mobilitandosi
in tutti i modi possibili e a tutti i livelli,
per assicurare la libertà a Parwiz Kambakhsh
e la libertà di espressione e la
legalità a tutti i giornalisti e democratici
afghani.