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WikiLeaks: Dichiarazione di Edward Snowden da Mosca

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Lunedi 1 luglio 21:40 UTC

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Una settimana fa ho lasciato Hong Kong dopo che è apparso chiaro che la mia libertà e la sicurezza per rivelare la verità erano sotto minaccia. La mia attuale libertà è dovuta agli sforzi di amici vecchi e nuovi, di famiglia, e di altri che non ho mai incontrato e che probabilmente mai incontrerò. Mi fido di loro e con la mia vita sono tornato ad aver fiducia e fede in me per questo  sarò sempre loro grato.

Giovedi ‘, il presidente Obama ha dichiarato di fronte al mondo che lui non avrebbe permesso ad alcun diplomatico “intrallazzi” sul mio caso. Eppure, ora viene riportato che dopo aver promesso di non farlo, il presidente ha ordinato al suo Vice Presidente di fare pressione sui leader delle nazioni da cui ho chiesto protezione per negare le mie suppliche di asilo.

Questo tipo di inganno da un leader mondiale non è giusto, e così anche la sanzione extralegale dell’esilio. Questi sono i vecchi, brutti strumenti di aggressione politica. Il loro scopo è quello di spaventare, non me, ma chi potrebbe venire dopo di me.

Per decenni gli Stati Uniti d’America sono stati uno dei più forti difensori del diritto umano e di asilo. Purtroppo, questo diritto,  votato dagli Stati Uniti di cui all’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani, ora viene respinto dal governo attuale del mio paese. L’amministrazione Obama ha ora adottato la strategia di usare la cittadinanza come arma. Anche se io sono condannato per nulla, ha unilateralmente revocato il passaporto, lasciandomi apolide. Senza alcun ordine giudiziario, l’amministrazione ora cerca di impedirmi l’esercizio di un diritto fondamentale. Un diritto che appartiene a tutti. Il diritto di chiedere asilo.

Alla fine l’amministrazione Obama non ha paura degli informatori come me, Bradley Manning o Thomas Drake. Siamo apolidi, imprigionati, o impotenti. No, l’amministrazione Obama ha paura di voi. Si ha paura di un popolo consapevole, arrabbiato che chiede al governo costituzionale quello che è stato promesso – e che dovrebbe essere mantenuto.

Sono indomito nelle mie convinzioni ed impressionato dagli sforzi compiuti da tanti.

Edward Joseph Snowden

Lunedi 1 luglio 2013

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Fonte: WikiLeaks

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Stati Uniti: Michael Moore indica come fermare la lobby delle armi

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Le vittime del massacro di Sandy Hook. A destra in alto la madre dell’omicida, uccisa anch’essa, e, in basso, l’omicida.

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Stati Uniti, non distogliete lo sguardo! (Come farla finita con la lobby delle armi)

di Michael Moore

L’anno era il 1955. Emmett Till era un giovane ragazzo afroamericano di Chicago in visita a parenti nel Mississippi. Un giorno Emmett fu visto “flirtare” con una giovane della città e a causa di ciò fu mutilato e assassinato all’età di quattordici anni. Fu trovato con una parte di una sgranatrice di cotone legata attorno al collo con un pezzo di filo spinato. I suoi assassini, due uomini bianchi, gli avevano sparato in testa prima di gettarlo nel fiume.

Il corpo di Emmett Till fu ritrovato e rimandato a Chicago. Con sconvolgimento di molti sua madre insisté per una cassa aperta al suo funerale, in modo che il pubblico potesse vedere cosa succede al corpo di un ragazzino quando i fanatici decidono che lui è meno che umano. Volle che i fotografi scattassero delle foto del suo figlio mutilato e le pubblicassero liberamente. Più di 10.000 parteciparono al funerale e la foto di Emmett Till apparve sui quotidiani e le riviste di tutta la nazione.

“Volevo soltanto che il mondo vedesse,” disse la madre. “Volevo soltanto che il mondo vedesse.”

Il mondo vide davvero e nulla fu più lo stesso per i suprematisti bianchi degli Stati Uniti d’America. Grazie a Emmett Till, grazie alle fotografie sconvolgenti del suo piccolo corpo morto, solo pochi mesi più tardi “iniziò ufficialmente la rivolta il 1 dicembre 1955” (da Eyes on the Prize), quando Rosa Parks decise di non cedere il suo posto sull’autobus a Montgomery, Alabama. Lo storico boicottaggio degli autobus ebbe inizio e, con le immagini di Emmett Till ancora fresche nella mente di molti statunitensi, non ci fu modo di tornare indietro.

Nel marzo del 1965 la polizia di Selma, Alabama, picchiò, innaffiò e sparò brutalmente gas lacrimogeni contro un gruppo di afroamericani soltanto perché aveva attraversato un ponte durante una marcia di protesta. La nazione fu sconvolta dalle immagini di neri brutalmente malmenati e feriti. E’ lo stesso accadde al Presidente. Solo una settimana dopo Lyndon Johnson convocò una seduta del Congresso statunitense e si presentò alla sessione congiunta e disse ai parlamentari di approvare una legge che stava proponendo quella sera: la Legge sul Diritto di Voto del 1965. E solo cinque mesi dopo il Presidente Johnson firmò, promulgandola, la Legge sul Diritto di Voto.

Nel marzo del 1968 soldati statunitensi massacrarono 500 civili a My Lai, in Vietnam. Un anno e mezzo dopo il mondo finalmente vide le fotografie, di mucchi di contadini morti coperti di sangue, di un bambino terrorizzato pochi secondi prima di essere abbattuto e di una donna con il cervello fatto letteralmente schizzare fuori dal cranio. (Tali fotografie sarebbero andate ad aggiungersi ad altre foto della guerra del Vietnam, tra cui quella di una bambina nuda ustionata dal napalm in fuga su una strada e di un generale sud-vietnamita che si avvicina a un sospetto in manette, estrae la pistola e gli fa saltare la testa sul notiziario serale della NBC).

Con questa valanga di immagini orribili il pubblico statunitense si rivoltò contro la guerra del Vietnam. Il renderci conto di ciò di cui eravamo capaci di fare ci sconvolse a tal punto che divenne molto difficile per i futuri presidenti (fino a George W. Bush) invadere di punto in bianco una nazione sovrana ed entrare in guerra per un decennio.

Bush è stato in grado di scatenarla perché i suoi gestori, i signori Cheney e Rumsfeld, sapevano che la cosa più importante da fare fin dall’inizio era controllare le immagini della guerra, assicurarsi che nulla di simile alle fotografie di My Lay comparisse mai sulla stampa statunitense.

E questo è il motivo per cui non vedrete mai più una foto del tipo di morte e distruzione che potrebbe farvi balzare dal divano e correre fuori urlando ‘maledetti assassini’ ai responsabili di quelle atrocità.

E’ questo il motivo per cui ora, dopo il massacro dei bambini a Newtown, assolutamente l’ultima cosa che la National Rifle Association vuole che sia di pubblico dominio è QUALSIASI immagine di ciò che è accaduto in quel tragico giorno.

Ma ho una profezia. Sono convinto che qualcuno a Newtown, Connecticut – un genitore in lacrime, un agente della polizia sconvolto, un cittadino che ne ha abbastanza di questo carnaio nel nostro paese – qualcuno, tra non molto, farà uscire le foto della scena del crimine del massacro della Scuola Elementare di Sandy Hook. E quando il popolo statunitense vedrà cosa possono fare al corpo di un bambino le pallottole di un fucile d’assalto sparate a distanza ravvicinata, quello sarà il giorno in cui le danze saranno finite per la NRA. Sarà il giorno in cui il dibattito sulle armi arriverà al termine. Non resterà nulla di cui discutere. E ogni statunitense sano di mente esigerà provvedimenti.

Naturalmente ci saranno urli e strepiti bigotti da parte dei guru che deprecheranno la pubblicazione di quelle raccapriccianti fotografie. Quelli che le pubblicheranno o le metteranno in rete saranno definiti “scandalosi” e “vergognosi” e “di cattivo gusto”. Come può un canale mediatico essere così insensibile nei confronti dei bambini morti? Qualcuno poi comincerà a boicottare la rivista o il sito web che le pubblicherà.

Ma si tratterà di indignazione falsa. Perché la verità vera è questa: non vogliamo che ci vengano mostrate le conseguenze concrete di una società violenta. Di una società che scatena guerre illegali, che giustizia criminali (o presunti tali), che aggredisce e picchia le proprie donne ogni 15 secondi e spara ogni giorno a 30 dei propri cittadini. Oh no!, per favore, NON FATECI VEDERE QUESTO!

Perché se davvero dovessimo guardare i venti bambini massacrati – intendo dire guardarli sul serio, con i corpi fatti a pezzi, molti così irriconoscibili che l’unico modo in cui i genitori hanno potuto identificarli è stato grazie agli abiti che indossavano – quale sarebbe la nostra scusa per non agire? Adesso. Proprio in questo momento. Esattamente ora! Come diavolo potrebbe qualcuno non buttarsi ad agire nello stesso momento dopo aver visto i corpi devastati dai proiettili di questi bambini e bambine?

Non sappiamo cosa esattamente mostrino quelle foto di Newtown. Ma voglio che tu, sì, tu, la persona che legge questo in questo momento, pensi a cosa effettivamente sappiamo:

I bambini di sei e sette anni uccisi nella Scuola Elementare di Sandy Hook sono stati colpiti fino a undici volte da un fucile semi-automatico  Bushmaster AR-15. La velocità iniziale di un fucile come l’AR-15 è circa tre volte quella di una pistola. E poiché l’energia cinetica di una pallottola è uguale alla metà della massa del proiettile moltiplicata per la sua velocità al quadrato, la forza distruttiva potenziale di una pallottola sparata da un fucile è circa nove volte maggiore di quella di un proiettile simile sparato da una pistola.

Nove volte. Ho parlato con il dottor Victor Weedn, presidente del Dipartimento di Scienze Forensi presso l’Università George Washington, il quale mi ha detto che i raggi X al torace di una persona colpita da un fucile hanno spesso l’aspetto di una “tempesta di neve”, perché le ossa sono ridotte in frantumi. Questo succede non solo a causa dell’impatto diretto del proiettile, ma perché ogni proiettile trasmette un’onda d’urto agli organi molli del corpo, un’onda così potente che può spezzare le ossa anche senza averle colpite. Un video qui mostra gli effetti dell’onda d’urto sulla “gelatina balistica” utilizzata dagli esperti per simulare un tessuto umano. (Gabby Giffords sarebbe sopravvissuta se le avessero sparato con un fucile anziché con una pistola Glock? Probabilmente no, dice il dottor Weedn: l’onda d’urto avrebbe danneggiato le parti più critiche del suo cervello).

Per quanto orribile sia questo, c’è di peggio, di molto peggio. Il dottor Cyril Wecht, ex presidente dell’Accademia Statunitense delle Scienze Forensi, mi ha detto questo:

“Il tipo di munizioni usato dall’assassino di Newtown deve aver prodotto lesioni molto estese, gravi e mutilanti alla testa e al volto di queste piccole vittime. A seconda del numero di colpi alla testa di un bambino, considerevoli parti della testa sarebbero scagliate via. Il tessuto cerebrale sottostante sarebbe estesamente lacerato con porzioni di tessuto cerebrale emorragico in fuoruscita dalla parte anteriore e da quella basale del cranio, parte delle quali rimarrebbe su segmenti del volto … l’effettiva identificazione fisica di ciascun bambino sarebbe estremamente difficoltosa e in molti casi impossibile, anche da parte di genitori di ciascun bambino specifico.”

Secondo il dotto Wecht sappiamo anche questo:

“In un caso i genitori hanno commentato pubblicamente le lesioni al loro bambino, riferendo che il suo collo e la sua mano sinistra mancavano. Molto probabilmente quel bambino aveva portato la mano al volto per lo shock e per proteggersi e ha avuto la mano tranciata via assieme alla parte inferiore del volto.”

Veronique Pozner, madre di Noah, il bambino di sei anni descritto dal dottor Wecht ha insistito che il governatore del Connecticut guardasse Noah nella bara aperta. “Sentivo di dover essere sincera con lui,” ha detto. Il governatore ha pianto.

Le fotografie che mostrano tutto questo oggi esistono, da qualche parte negli archivi della polizia e dell’anatomopatologo in Connecticut. E da oggi abbiamo in qualche modo tutti deciso insieme che non abbiamo necessità di vederle, che in qualche modo siamo a posto con quello che c’è in quelle fotografie (dopotutto più di 2.600 statunitensi sono stati uccisi da colpi d’arma da fuoco dopo Newtown), fintanto che non guardiamo di persona quelle foto.

Ma oggi io vi dico che verrà il momento delle foto di Newtown. E dovrete guardarle. Dovrete guardare chi e cosa sono e cosa abbiamo permesso che accadesse. Alla fine della seconda guerra mondiale il generale Eisenhower ordinò che migliaia di civili tedeschi fossero obbligati a marciare attraverso i campi di concentramento in modo da poter essere testimoni di quello che accadeva appena di là dalla loro strada negli anni in cui avevano guardato da un’altra parte, o non avevano chiesto, o non avevano fatto nulla per fermare l’omicidio di milioni di persone.

Noi non abbiamo fatto nulla dopo Columbinenulla – e in conseguenza ci sono stati più di trenta omicidi di massa da allora. La nostra inerzia significa che siamo tutti, a qualche livello, responsabili e perciò, per aver nascosto la testa nella sabbia, dobbiamo essere obbligati a guardare i venti bambini morti alla Scuola Elementare di Sandy Hook.

Le persone a favore delle quali abbiamo votato dopo Columbine – ad eccezione di Michael Bloomberg – quasi tutte, Democratici e Repubblicani, non hanno osato parlare contro la NRA prima di Newtown e tuttavia noi, il popolo, abbiamo continuato a votarle. E per questo siamo responsabili, ed è per questo che dobbiamo guardare i venti bambini morti.

La maggior parte di noi continua a dire che noi “sosteniamo il Secondo Emendamento” come se fosse stato scritto da Dio (oppure perché temiamo di essere considerati antiamericani). Ma quell’emendamento fu scritto da quegli stessi bianchi che pensavano che un negro fosse solo per tre quinti umano. Non abbiamo fatto nulla per rivedere o revocare questo, e ciò ci rende responsabili, ed è per questo che dobbiamo guardare le fotografie dei venti bambini morti, distesi con quel che resta dei loro corpi sul pavimento dell’aula di Newtown, Connecticut.

E mentre guardiamo quelle atroci fotografie dobbiamo cercare di dire ad alta voce: “Sostengo il Secondo Emendamento!” Qualcosa, scommetto, suonerebbe sbagliato. Ù

Sì, un giorno o l’altro una madre di Sandy Hook – o una madre di Columbine, o una madre di Aurora, o una madre di un massacro ancora di là da venire – dirà, come la madre di Emmett Till: “Ho voluto soltanto che il mondo vedesse.” E poi nulla, a proposito delle armi in questo paese sarà più lo stesso.

Fa’ le valige NRA. Stanno per mostrarti la porta. Perché ci rifiutiamo di permettere che un altro bambino sia ucciso in questo modo. Capito? Spero di sì.

Tutto quello che adesso puoi sperare è che nessuno diffonda quelle foto.

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Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/america-you-must-not-look-away-how-to-finish-off-the-nra-by-michael-moore

Originale: Michaelmoore.com

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo

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Hugo Chávez

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Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra. È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grande latinoamericana. Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.

L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”. Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale. Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali. Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica, massacrava nell’89 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.

Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.

Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.

Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari. Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.

È questo che la sinistra da operetta europea non ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia. È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte degli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.

Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito. Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.

Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!

Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa. La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.

Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.

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Fonte: Giornalismo partecipativo

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