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Italiani invocano difesa privacy online ma postano la loro vita su Facebook

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Contrappunti/ Il pudore di Internet

di M. Mantellini

Temono il Grande Fratello ma postano tutta la loro vita su Facebook. Invocano l’intervento dello Stato. Gli Italiani in Rete sono soggetti passivi: alla mercé di social network e business altrui

Più di un italiano su due interpellato dal Censis chiede norme più severe per la difesa della propria privacy online. E già questo è strano, l’Italia è probabilmente uno dei paesi al mondo con le normative più stringenti per quanto riguarda la tutela della riservatezza. Una simile invocazione, fatta da un popolo di persone che poco o nulla fa per tutelare la propria privacy online, sembra la usuale delega in bianco data al potere salvifico della norma: scriviamo abbastanza leggi, articoli e commi e i problemi di cui trattano come per magia scompariranno.

Sono dati importanti quelli raccontati dal Censis perché, leggendoli in maniera non casuale, raccontano l’esatto opposto di quello che sembrerebbero dirci ad un esame superficiale. L’83 per cento dei navigatori pensa che sia pericoloso lasciare online le proprie informazioni, il 72 per cento ritiene che tali dati possano essere utilizzati per scopi commerciali, l’88 per cento pensa che Google e Facebook abbiano raccolto enormi database con informazioni personali. Contemporaneamente tutti usiamo i servizi di Google e oltre 20 milioni di italiani gestiscono un profilo su Facebook. Come se non bastasse, quando si affrontano temi del genere torna sempre a galla la usuale paranoia italica sull’utilizzo della carta di credito in Rete: dieci anni di demonizzazione sui media hanno del resto saputo produrre i loro effetti.

Gli italiani, per riassumere, non fanno nulla per tutelare la propria privacy in Rete, ma interpellati al riguardi sono prodighi di consigli su norme più stringenti e mostrano di conoscere perfettamente i rischi del Grande Fratello che però scelgono di ignorare appena l’intervistatore gira l’angolo. Inoltre il grande pericoloso e infido raccoglitore di dati è ai loro occhi quasi sempre un soggetto economico: la grande azienda Internet Usa, il sistema bancario, l’hacker cattivo che ci clonerà la carta di credito. Mai o quasi mai il sistema politico al quale anzi, curiosamente, scegliamo in massa di affidarci per risolvere i nostri problemi di riservatezza. E questa forse è la curiosità delle curiosità.

Nel frattempo il mondo va avanti e sembra disinteressarsi dei moralismi sulla riservatezza dei cittadini italiani: nel corso degli ultimi giorni, per rimanere ai soggetti appena citati, Google ha annunciato una variazione dei termini di servizio che consentirà di utilizzare le nostre foto e i nostri dati nelle pubblicità dei suoi inserzionisti mentre Facebook ha sancito definitivamente l’impossibilità di essere iscritti alla propria piattaforma senza essere rintracciabili da altri utenti. Si tratta di due ennesimi passettini che vanno nella direzione solita della maggiore esposizione possibile dei dati che ciascuno di noi fornisce alle piattaforme di rete. Una tattica passo a passo che ricorda molto mia figlia quando gioca a uno-due-tre-stella. Tutto, ogni volta che giriamo la testa sembra placidamente immobile ma ogni volta il nostro avversario, se così lo vogliamo chiamare, è più vicino.

La terza notizia di questa settimana è che Mark Zuckerberg, definitivamente dismessi i panni del nerd che si disinteressa di quisquiglie come domicilio ed arredamento, ha acquistato per circa 30 milioni di dollari le quattro proprietà che confinano con la sua a Palo Alto. Come tanti italiani voleva essere sicuro che la propria privacy fosse tutelata e che i confinanti non sbirciassero in casa sua. In un mondo perfetto Mark, supremo esempio contemporaneo del predicatore che razzola male, avrebbe scelto i vicini dall’elenco “persone che potresti conoscere”.

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Fonte: Punto Informatico

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Come evitare di essere tracciati da Google nelle ricerche sul Web

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Quando cerchi con Google, e clicchi su un link, il tuo termine di ricerca viene solitamente inviato a quel sito, insieme alle informazioni sul tuo browser e sul tuo computer, che spesso possono identificarti univocamente.

Tutto ciò é spaventoso, ma d’altronde a chi interessa di qualche sito casuale?

Quei siti di solito hanno pubblicità di terze parti e quelle terze parti costruiscono profili sulla tua persona, ecco perchè quelle pubblicità ti seguono ovunque.

Anche questo è spaventoso, ma a chi possono interessare delle pubblicità sull’herpes? Il tuo profilo può anche essere venduto e potenzialmente apparire in posti indesiderati, come prezzi più alti e stipulare un’assicurazione.

Ma c’è di più. Ricordi le tue ricerche? Google salva salva (anche) quelle (full sentence is “Ricordi le tue ricerche? Google salva [=saves] anche [=also] quelle [=them]) .

Le tue ricerche salvate possono venire richieste legalmente  e poi ti si ritorcono contro (può succedere).

Oppure un malintenzionato impiegato di Google potrebbe mettersi a curiosare (può succedere).

O i server di Google potrebbero essere violati (può succedere).

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Ecco perchè noi non inviamo le tue ricerche ad altri siti.

O perchè non memorizziamo alcuna informazione personale.

Questa é l’essenza della la nostra politica sulla Privacy.

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Perciò non farti tracciare quando cerchi.

Usa DuckDuckGo invece.  Add to Browser

La Privacy è solo una (ragione) or un (motivo) dei tante (ragioni) or tanti (motivi) motivi per il quale è fantastico.

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Fonte: http://donttrack.us/

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Facebook: ancora problemi di privacy per gli utenti

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Immagine di Arcadio Esquivel

Immagine di Arcadio Esquivel

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Non c’è pace per la privacy su Facebook

di Alessandro Del Ninno

Facebook si sta preparando a una nuova battaglia per la gestione dei dati personali dei suoi utenti con le sei principali organizzazioni americane che difendono la privacy. I legali delle associazioni hanno infatti inviato una lettera alla Federal Trade Commission (Ftc), l’ente governativo per la protezione dei consumatori, e ai politici degli Stati Uniti sostenendo che i recenti cambiamenti fatti dal colosso dei social network violano i termini di un accordo del 2012 siglato da Facebook con la stessa Ftc.

In pratica Facebook, nel nuovo accordo che fa firmare ai suoi utenti, sostiene di avere il diritto di usare le informazioni dei profili e le immagini dei suoi iscritti per fare campagne pubblicitarie agli amici senza chiedere alcun consenso e senza dare alcun compenso agli interessati. Secondo le associazioni invece l’accordo stipulato con la Ftc un anno fa prevede che Facebook non possa condividere informazioni dei suoi utenti senza chiedere ogni volta il permesso in modo esplicito e senza pagare per l’uso dei dati. Presupposti che, nelle nuove regole che entreranno in vigore nei prossimi giorni, sono del tutto assenti.

Le associazioni hanno espresso indignazione anche per un cambiamento apportato alle politiche sulla privacy per i minori di 18 anni. Dando il loro consenso alle nuove regole, infatti, i giovani user dichiarano che anche i loro genitori sono concordi con quanto firmato.

La nuova polemica che si è innescata sull’utilizzo dei dati personali e sulle privacy policies di Facebook (soggette a cambiamenti e integrazioni con cadenza ormai frequentissima) costituiscono l’occasione per una riflessione – che possiamo definire “filosofica” – riassunta dalla domanda: quale è oggi il senso ultimo delle rivendicazioni circa la tutela della privacy nel mondo digitale iperconesso, globalizzato e tecnologizzato?

Ha in parte affrontato la questione – partendo dal caso Snowden e dal ruolo della NSA americana – Evgeny Morozov nel suo interessante articolo “Addio privacy” (pubblicato su “Internazionale” del 6 settembre 2013). In questa sede appare significativo – della vicenda Facebook – che le sei associazioni USA a tutela della privacy abbiano contestato il mancato pagamento degli utenti per l’uso dei dati che il social network intende fare inviando alla rete di loro amici messaggi promozionali e commerciali. Emerge cioè nel dibattito un aspetto spesso sottaciuto nelle “crociate” a tutela della riservatezza: quello del valore commerciale dei dati personali come merce primaria nel mercato globalizzato.

Non si è contestato a Facebook (solamente) l’utilizzo senza consenso dei dati: si è contestata la violazione (commerciale) di un uso gratuito delle informazioni. Non si è contestata la violazione della riservatezza come indebita invasione in una sfera privata e intima (concetto novecentesco e ante Terza Rivoluzione Industriale di Internet), ma si è contestato il fatto che gli utenti di Facebook (e i loro amici) perdono il potere di libera e autonoma auto-determinazione (anche di tipo economico-commerciale) sui propri dati. E’ esattamente questo il senso ultimo – diremmo quasi la ontologia – della privacy nell’attuale Società della Informazione Globale: il senso del diritto alla riservatezza non è più quello – come qualcuno ha detto – di “farsi Robinson Crusoe nel mondo iperconesso”, ma è il potere di controllo (mediante corrette e preventive informative) che ciascuno deve avere sulle informazioni che lo riguardano. E solo da questo potere di controllo – che sia però effettivo e concreto – può nascere la libera e consapevole autodeterminazione circa l’autorizzazione a terzi (mediante i meccanismi di consenso) a fare uso dei nostri dati personali. E’ solo con la certezza di poter controllare i nostri dati (decidendo anche di farne oggetto di transazioni commerciali, di vera e propria vendita) che ci rendiamo disponibili a diffondere, condividere, trasmettere, comunicare nel mare magnum della Rete una massa enorme di informazioni, nell’ambito di un fenomeno (quello dei social network) che appare caratterizzato dalla volontà degli stessi utenti di cancellare la propria privacy, rendendo partecipi i terzi (sia pure “amici”) di ogni minuto della nostra vita (digitale e reale).

Ogni privacy policy che ci sottragga il controllo (anche economico) sulle nostre informazioni, non potrà che scatenare polemiche: ma non perché viene violato “the right to bel et alone” di ottocentesca memoria (prima teorizzazione del right to privacy nel 1896), ma perché ci viene tolta appunto la condivisione su scelte primarie e su beni economici primari quali sono i dati nella società del XXI secolo.

Alessandro del Ninno è avvocato presso la Tonucci &Partners e professore universitario

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Fonte: TAFTER.it

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