Agorà è un film dedicato alla filosofa e scienziata egiziana Ipazia. Donna “martire” del pensiero libero. Fu trucidata dai monaci cristiani nel V secolo per ordine di Cirillo, vescovo di Alessandria. Da allora il suo nome e la sua opera sono stati praticamente cancellati. Invece, come insegna la storia delle religioni, Cirillo fu fatto santo.
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Sulla scia di un doppio mistero arriva finalmente sui nostri schermi, Agora del regista nato a Santiago del Cile (padre cileno, madre spagnola) Alejandro Amenabar, 37 anni, autore di The Others (2001) e Mare dentro (Oscar miglior film straniero 2004). Presentato fuori concorso a Cannes l’anno scorso, il film, molto atteso, era svanito nel nulla e un tam tam della Rete avvertiva che «non lo vedrete mai». Agora è dedicato a Ipazia, filosofa e astronoma egiziana (numero speciale di Alias del 10 aprile 2010) nata a metà del IV secolo, avvolta nell’enigma di una morte violenta per mano dell’integralismo cristiano. Rachel Weisz indossa un’espressione fiera e tuniche leggere, bellissima come l’originale, icona di donna laica e maestra del cielo.
Ipazia si dedicò alla relazione tra filosofia e scienza e per prima scoprì – un’intuizione poetica di Amenabar – che i pianeti compiono un’ellissi intorno al sole. Nel 1600 Keplero arrivò allo stesso risultato. Ma solo adesso Ipazia diventa una «star» nel kolossal che le rende per la prima volta omaggio, un film da 50 milioni di euro, tutto di produzione europea.
A prima vista, Amenabar segue un modello hollywoodiano, ma non siamo dalle parti di Cleopatra (gli egiziani però dovevano avere tutti la pella candida?), il set è uno spazio chiuso nel perimetro che circonda la Biblioteca di Alessandria, scrigno della cultura greca e pre-greca, una delle meraviglie del mondo e che sarà ancora una volta distrutta. Istruita dal padre Teone, la giovane scienziata, che preferisce la passione astrale a quella maschile, è l’anima della biblioteca, eccentrica e provocante con il suo fazzoletto intriso di sangue mestruale per far desistere gli allievi adoranti. Un fazzoletto che cade, attratto dalla forza di gravità, fenomeno inspiegabile al pari
della terra rotonda, da cui nessuno miracolosamente, si chiedono gli scolari, precipita nell’universo.
La vediamo nel suo peplum bianco insegnare che la verità non è un dogma divino, che nella multietnica Alessandria elleni, egizi, ebrei possono convivere creativamente ma l’onda del cristianesimo conquista la città sotto i kaftani neri dei parabolani, anticristi capeggiati da un feroce saltimbanco (cammina sul fuoco per testimoniare la superiorità del suo dio). E lei, che si è sempre sottratta alla corte insistente dell’amico e allievo Oreste, diventato prefetto sotto il dominio romano, resterà sola. Abbandonata anche dallo schiavo Davus, devastato dall’amore impossibile per la sua «padrona» e passato nelle fila dei parabolani.
Il film (distribuito dalla Mikado) è stato tagliato dallo stesso regista di venti minuti rispetto alla versione passata sulla Croisette. Così le «lezioni» di Ipazia si alleggeriscono, ma soprattutto ne risente la sequenza dove i parabolani massacrano a colpi di pietra un gruppo di ebrei riuniti in una cerimonia festosa. La spedizione punitiva ebraica risulta così sproporzionata (Amenabar ha seguito qualche suggerimento dall’alto?).
L’atto d’accusa però resta. È guerra di religione ad Alessandria, le squadre sotto il segno della croce infiammano Alessandria in una caccia all’eretico, guidate dal patriarca Cirillo che rivolgendosi ai suoi sgherri pronuncia l’anatema contro i giudei: «Piangete per loro, gli assassini di Cristo, perché saranno perseguitati in eterno» e dà il via al primo pogrom. E se per i film di Ron Howard sul Codice da Vinci la Chiesa poteva invocare la fanta-religione, qui siamo nella Storia. Precursori dei talebani, gli incappucciati neri allagano nel sangue la città, dopo aver elargito il pane ai poveri e la libertà agli schiavi, sistema caritatevole facilmente strumentalizzato dai «moralizzatori» integralisti di ogni latitudine. «Solo Gesù poteva perdonare perché è Dio, non vorrai paragonarti a lui?», risponde l’invasato capo parabolano a Davus, l’ex schiavo arruolato nelle file cristiane, vacillante di fronte ai corpi degli ebrei in fiamme. In mezzo alle carneficine, di anno in anno, Ipazia, seguace del neoplatonismo, fa appello alla filosofia, all’amore per la conoscenza scientifica, alla convivenza religiosa. È uno spazio «teatrale», l’agora, il luogo dove Amenabar concentra azione e pensiero (mentre le scene di massa sono elaborate al computer) e nei meravigliosi interni della biblioteca, dove statue e papiri, bassorilievi e arazzi saranno devastati dalle orde cristiane.
L’ultimo ostacolo sarà Ipazia, la donna che «parla», che insegna agli uomini. Lei che osserva il cielo e traccia nella sabbia le parabole rivelatrici. Anche il devoto Oreste dovrà piegarsi alla legge della curia che ha declassato le donne a sottospecie umana, e l’innamorato Davus alla furia assassina dei parabolani, Hypatia invece non si piega, conferma la sua laicità. Nel marzo del 415 viene trascinata al tempio, denudata e uccisa. È la mano di Davus, incapace di ribellarsi a un’altra schiavitù, a soffocarla prima che gli incappucciati di Cristo la massacrino a colpi di pietra (in realtà, fu accecata e scorticata viva con pezzi di conchiglie, le armi erano un’esclusiva dei romani).
Il corpo di Ipazia straziato come la Biblioteca di Alessandria. Resta la memoria di tanta bellezza più delle macerie e del sapere bruciato, quasi una poesia quella di Amenabar alla vagabonda delle stelle, e un risarcimento alla filosofa indimenticabile.
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Approfondimento
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