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“Draquila l’Italia che trema” di Sabina Guzzanti a Pordenone Lunedì 10 maggio

 
PRIMA DI CANNES A PORDENONE SABINA
GUZZANTI CON UN FILM ATTUALISSIMO
 
 
 
 
Torna al cinema Sabina Guzzanti con un documentario che racconta le
incongruenze nella gestione della ricostruzione delle case dopo il
terremoto che ha colpito l’Abruzzo il 6 aprile del 2009. Dichiara la Guzzanti:
«Una mia amica giornalista un giorno mi dice: “Ho conosciuto un signore
che racconta storie stranissime su L’Aquila. Non ho capito molto di
quello che diceva, ma gli ho detto di parlare con te perché questo è il
genere di cose che ti interessano”. Non aveva torto. Era luglio, a breve
sarebbe iniziato il G8 ed ero decisa a incontrare il signore in
questione. Ma in quei giorni la città era sotto assedio e andarci
significava farsi fermare dai militari ogni tre metri. Quindi me la
prendo comoda, avrei aspettato che i giorni dei grandi della terra
fossero passati. Qualche tempo dopo, alla fine di uno spettacolo, io e
due amiche ci rimettiamo in marcia verso L’Aquila partendo da Arezzo. Il
signore che avrebbe detto delle cose che mi avrebbero impressionato,
era di casa in un campo autogestito. È stata una serata bellissima, io
lì in mezzo al loro, alcuni ragazzi mi hanno offerto l’imitazione di un
loro professore in cambio di un Berlusconi. Poi il clima goliardico
della serata è andato sfumando e hanno iniziato a dare spazio ai loro
pensieri. La cosa che mi ha colpito è che tutti avevano un’adorazione e
una gratitudine sconfinata per i volontari e i vigili del fuoco mentre
nei confronti dei dirigenti della della Protezione Civile era diffuso un
sentimento di diffidenza e di paura.
Ho cominciato ad osservare
quello che succedeva. C’era una popolazione per lo più di anziani e una
buona parte di famiglie affrante sì, ma convinta che nella disgrazia non
gli poteva andare meglio. E una popolazione che mugugnava impaurita e
sospettosa. Qualcuno di questi partecipava a comitati cittadini e si
affannava a parlare nel vuoto. Alcuni dei ribelli dicevano: “Qui si sta
facendo un esperimento. Quello che succede qui è quello che vogliono che
succeda in tutta Italia.” Mi sono fatta suggestionare e ho provato
l’emozione di scoprire dal vivo quello che tutta Italia oggi sta
scoprendo sui giornali. (leggi tutto)
 
 
Fonte: Cinemazero
 
 

Agorà (il film): Abbiamo liberato Ipazia grazie alla Rete!

Agorà è un film dedicato alla filosofa e scienziata egiziana Ipazia. Donna “martire” del pensiero libero. Fu trucidata dai monaci cristiani nel V secolo per ordine di Cirillo, vescovo di Alessandria. Da allora il suo nome e la sua opera sono stati praticamente cancellati. Invece, come insegna la storia delle religioni, Cirillo fu fatto santo.
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Sapete chi dovete ringraziare se dal 23 aprile potete godervi il film?  “la Rete” naturalmente, e la Petizione partita nel 2009 (http://www.petitiononline.com/agorait/petition.html).  (madu)
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LA SCIENZA DILANIATA NEL CORPO DI IPAZIA

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Sulla scia di un doppio mistero arriva finalmente sui nostri schermi, Agora del regista nato a Santiago del Cile (padre cileno, madre spagnola) Alejandro Amenabar, 37 anni, autore di The Others (2001) e Mare dentro (Oscar miglior film straniero 2004). Presentato fuori concorso a Cannes l’anno scorso, il film, molto atteso, era svanito nel nulla e un tam tam della Rete avvertiva che «non lo vedrete mai». Agora è dedicato a Ipazia, filosofa e astronoma egiziana (numero speciale di Alias del 10 aprile 2010) nata a metà del IV secolo, avvolta nell’enigma di una morte violenta per mano dell’integralismo cristiano. Rachel Weisz indossa un’espressione fiera e tuniche leggere, bellissima come l’originale, icona di donna laica e maestra del cielo.
Ipazia si dedicò alla relazione tra filosofia e scienza e per prima scoprì – un’intuizione poetica di Amenabar – che i pianeti compiono un’ellissi intorno al sole. Nel 1600 Keplero arrivò allo stesso risultato. Ma solo adesso Ipazia diventa una «star» nel kolossal che le rende per la prima volta omaggio, un film da 50 milioni di euro, tutto di produzione europea.
A prima vista, Amenabar segue un modello hollywoodiano, ma non siamo dalle parti di Cleopatra (gli egiziani però dovevano avere tutti la pella candida?), il set è uno spazio chiuso nel perimetro che circonda la Biblioteca di Alessandria, scrigno della cultura greca e pre-greca, una delle meraviglie del mondo e che sarà ancora una volta distrutta. Istruita dal padre Teone, la giovane scienziata, che preferisce la passione astrale a quella maschile, è l’anima della biblioteca, eccentrica e provocante con il suo fazzoletto intriso di sangue mestruale per far desistere gli allievi adoranti. Un fazzoletto che cade, attratto dalla forza di gravità, fenomeno inspiegabile al pari
della terra rotonda, da cui nessuno miracolosamente, si chiedono gli scolari, precipita nell’universo.
La vediamo nel suo peplum bianco insegnare che la verità non è un dogma divino, che nella multietnica Alessandria elleni, egizi, ebrei possono convivere creativamente ma l’onda del cristianesimo conquista la città sotto i kaftani neri dei parabolani, anticristi capeggiati da un feroce saltimbanco (cammina sul fuoco per testimoniare la superiorità del suo dio). E lei, che si è sempre sottratta alla corte insistente dell’amico e allievo Oreste, diventato prefetto sotto il dominio romano, resterà sola. Abbandonata anche dallo schiavo Davus, devastato dall’amore impossibile per la sua «padrona» e passato nelle fila dei parabolani.
Il film (distribuito dalla Mikado) è stato tagliato dallo stesso regista di venti minuti rispetto alla versione passata sulla Croisette. Così le «lezioni» di Ipazia si alleggeriscono, ma soprattutto ne risente la sequenza dove i parabolani massacrano a colpi di pietra un gruppo di ebrei riuniti in una cerimonia festosa. La spedizione punitiva ebraica risulta così sproporzionata (Amenabar ha seguito qualche suggerimento dall’alto?).
L’atto d’accusa però resta. È guerra di religione ad Alessandria, le squadre sotto il segno della croce infiammano Alessandria in una caccia all’eretico, guidate dal patriarca Cirillo che rivolgendosi ai suoi sgherri pronuncia l’anatema contro i giudei: «Piangete per loro, gli assassini di Cristo, perché saranno perseguitati in eterno» e dà il via al primo pogrom. E se per i film di Ron Howard sul Codice da Vinci la Chiesa poteva invocare la fanta-religione, qui siamo nella Storia. Precursori dei talebani, gli incappucciati neri allagano nel sangue la città, dopo aver elargito il pane ai poveri e la libertà agli schiavi, sistema caritatevole facilmente strumentalizzato dai «moralizzatori» integralisti di ogni latitudine. «Solo Gesù poteva perdonare perché è Dio, non vorrai paragonarti a lui?», risponde l’invasato capo parabolano a Davus, l’ex schiavo arruolato nelle file cristiane, vacillante di fronte ai corpi degli ebrei in fiamme. In mezzo alle carneficine, di anno in anno, Ipazia, seguace del neoplatonismo, fa appello alla filosofia, all’amore per la conoscenza scientifica, alla convivenza religiosa. È uno spazio «teatrale», l’agora, il luogo dove Amenabar concentra azione e pensiero (mentre le scene di massa sono elaborate al computer) e nei meravigliosi interni della biblioteca, dove statue e papiri, bassorilievi e arazzi saranno devastati dalle orde cristiane.
L’ultimo ostacolo sarà Ipazia, la donna che «parla», che insegna agli uomini. Lei che osserva il cielo e traccia nella sabbia le parabole rivelatrici. Anche il devoto Oreste dovrà piegarsi alla legge della curia che ha declassato le donne a sottospecie umana, e l’innamorato Davus alla furia assassina dei parabolani, Hypatia invece non si piega, conferma la sua laicità. Nel marzo del 415 viene trascinata al tempio, denudata e uccisa. È la mano di Davus, incapace di ribellarsi a un’altra schiavitù, a soffocarla prima che gli incappucciati di Cristo la massacrino a colpi di pietra (in realtà, fu accecata e scorticata viva con pezzi di conchiglie, le armi erano un’esclusiva dei romani).
Il corpo di Ipazia straziato come la Biblioteca di Alessandria. Resta la memoria di tanta bellezza più delle macerie e del sapere bruciato, quasi una poesia quella di Amenabar alla vagabonda delle stelle, e un risarcimento alla filosofa indimenticabile.
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Approfondimento
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Il festival di Redford giudica l’America

ll Sundance premia come miglior film fiction
«Winter’s Bone» di Debra Granik, storia di povertà e ribellione nel
profondo Sud. «Restrepo» vince nella sezione documentari. Diretto da due
inviati sul fronte afghano, è il ritratto di una guerra insensata.
Miglior regista Eric Mendelsohn per la saga su Long Island.

 

 

di Giulia D’Agnolo Vallan 

PARK CITY

Le vite pericolose dei soldati americani in
Afghanistan e di una ragazza
nei boschi irsuti del Missouri, quelle placide e depresse dei sobborghi
di Long Island, un film danese a uno australiano tra i vincitori del
26esimo Sundance Film Festival .
La manifestazione di Robert Redford,
diretta per la prima volta da John Cooper (con Trevor Groth a capo
della programmazione ) si è chiusa a Park City sabato sera. Con il cielo
che si apriva dopo giorni e giorni di neve quasi ininterrotta, le
giurie hanno dato il loro verdetto su un festival in
larga misura apprezzato sia dal pubblico che dalla critica. Scemato
l’hype quasi nevrotico che impazzava per le scivolose strade di Park
City fino a due o tre anni fa, la più importante vetrina di cinema
indipendente Usa puntava quest’anno (il secondo di una crisi economica
che ha duramente colpito l’industria indie) a ricongiungere la sua
identità con le sue radici. I premi confermano, almeno in parte, che
l’idea non solo è piaciuta ma aveva senso.
Una giuria composta dallo
scrittore Russell Banks, dalla regista Karyn Kusama, dal produttore
Jaso Kliot, dal direttore della fotografia (e frequente collaboratore di
Wes Anderson) Robert Yeoman e dall’attrice Parker Posey ha assegnato il
gran premio per il miglior film di fiction del concorso Usa a Winter’s
Bone, di Debra Granik, un ipnotico squarcio di poverissimo e feroce
gotico meridionale, tra metanfetamina cucinata in casa e barbarici
rituali di famiglia, forte dell’interpretazione luminosa di Jennifer
Lawrence nei panni di una teen-ager sulle orme gelide, fangose e dense
di pericolo di un padre ricercato dalla polizia.
Winter’s Bone (che a
Park City è stato acquistato per la distribuzione Usa da Roadside
Attractions) ha vinto anche per la miglior sceneggiatura. È andato
invece all’obliquo e vagamente surrealista lirismo suburbano di Eric
Mendelsohn (già a Sundance e poi a Cannes, dieci anni fa, con Judy
Berlin) il premio per la miglior regia. Il film è 3 Backyards, terzo
capitolo di una bella trilogia che il regista/sceneggiatore ha dedicato
alla nativa Long Island. (leggi
tutto
)

 

Fonte: Il
Manifesto

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Approfondimento:

Robert Redford

Sundance Film Festival

Sundance Festival 2010 (sito ufficiale en)