Monthly Archives: Aprile 2012

Rabbit Revolution: video-inchiesta sugli allevamenti dell’orrore

Nessuno dovrebbe tollerare che vengano inflitte agli animali delle sofferenze e neppure declinare le proprie responsabilità. Nessuno dovrebbe starsene tranquillo pensando che altrimenti si immischierebbe in affari che non lo riguardano. Quando tanti maltrattamenti vengono inflitti agli animali, quando essi agonizzano ignorati per colpa di uomini senza cuore, siamo tutti colpevoli.
Albert Schweitzer (1875-1965).

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In alcuni Paesi europei oltre 326 milioni di conigli vengono allevati in gabbie ristrettissime e inadatte a garantire il benessere dell’animale. È quanto denuncia la video-inchiesta della Compassion in World Farming che lancia la campagna Rabbit Revolution.

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di   Tamara Mastroiaco

La Compassion in World Farming lancia la campagna Rabbit Revolution dopo aver visitato alcuni allevamenti intensivi di conigli in Francia, Spagna e Italia. Oltre 326 milioni di conigli vengono allevati in gabbie simili a quelle utilizzate per le galline ovaiole vietate dal 1 gennaio 2012 in tutta l’UE.

L’indagine, attraverso un video, mostra ancora una volta allevamenti dell’orrore, con alti tassi di mortalità, nessuno stimolo di interazione, fabbriche fatiscenti, in cui il vincolo del benessere degli animali è inesistente laddove dovrebbe essere invece garantito dagli allevatori stessi.

La prima fase dell’operazione lanciata dalla Compassion in World Farming (CIWF) sarà una campagna di sensibilizzazione pubblica. Riteniamo che debba essere esteso l’obbligo di origine anche per le carni di coniglio, sostiene Emma Slawinski, responsabile campagne della CIFW. Attualmente il settore europeo della cunicoltura non ha l’obbligo di etichettatura, esteso invece a tutte le carni fresche; a luglio del 2011, infatti, 27 Stati membri dell’UE hanno imposto l’obbligo di indicare il paese d’origine sull’etichetta per le carni suine, avicole, ovi-caprine e pollami, escludendo, dunque, la carne di coniglio.

Se le persone diventassero più consapevoli, sceglierebbero sicuramente gli animali che provengono da allevamenti in cui il benessere sia prioritario, afferma la Slawinski e dichiara: “Vogliamo che la gente sappia che i conigli che giungono alla vendita sprovvisti di etichetta di origine quasi certamente provengono da allevamenti in batteria”. Dil Peeling, direttore della CIWF, sostiene: “È uno scandalo che le gabbie come quelle che vediamo nell’investigazione siano state abolite per le galline ovaiole ma siano ancora considerate adatte per i conigli dall’UE”.

L’indagine ha interessato allevamenti situati in Francia, Spagna e Italia. Uno dei testimoni oculari, che ha partecipato all’inchiesta, è rimasto scioccato soprattutto da una fabbrica visitata in una delle regioni della Spagna, ben nota per gli allevamenti di conigli. Ha dichiarato che il luogo era fatiscente, la struttura era aperta ai lati, non vi erano mura di cemento ma solo teli di plastica come copertura. Ha visto lunghe file di gabbie di rete metallica dalle quali fuoriuscivano ciuffi di peli bianchi: in ogni gabbia vi erano almeno 8 cuccioli di coniglio.

Polvere e sporcizia, montagne di feci e urine accatastate in cumoli sotto le gabbie: sembrava non fossero pulite da diverse settimane. Alzando lo sguardo, ha notato centinaia di minuscole zampette che spuntavano dai fili metallici senza alcuna base di protezione. Nessun arricchimento ambientale, seppur avessero voluto apportare qualche miglioria, non vi era neanche lo spazio sufficiente; in ogni gabbia erano ammassati otto/dieci conigli e ogni coniglio aveva al massimo lo spazio di un foglio A4. Molti avevano lo sguardo spento, sembravano molto deboli e il testimone ha pensato che se fosse tornato nello stesso allevamento dopo qualche giorno, li avrebbe trovati morti come i poveri conigli accatastati in un bidone.

“L’allevamento più sporco e squallido che abbia mai visto – ha dichiarato – in cui la sofferenza era terrificante”. Durante le sue visite alle aziende agricole di conigli in Francia e in Italia, purtroppo, ha constatato le medesime condizioni. “Questa non è agricoltura – ha dichiarato – è crudeltà approvata su scala industriale”.

La CIWF sostiene che dobbiamo garantire sistemi di allevamento umani in cui gli altri animali possano vivere un’esistenza libera dal dolore, dal disagio psichico ed essere in grado, almeno, di esprimere i loro comportamenti naturali. Mantenere migliaia di conigli in piccole gabbie sterili è assolutamente inaccettabile. Abbiamo il dovere di fermare tanta sofferenza.

Abbiamo ‘bandito’ gli allevamenti in batteria per le galline ovaiole, adesso, dobbiamo lottare per i conigli.

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Fonte:  il Cambiamento

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I lavoratori dipendenti italiani tra i più protetti d’Europa? Ma mi faccia il piacere!

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Le fandonie sui lavoratori troppo protetti

In Italia i lavoratori sono meno protetti che in Francia e Germania. L’accanimento sull’art.18 è inutile e solo simbolico. Il vero problema è la scarsa produttività del sistema

Il Governo ha approvato il testo del disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro da presentare alle Camere. La sostanza delle variazioni apportate all’assetto del mercato è relativamente limitata e non va sempre nel senso di un miglioramento. Salvo alcuni effetti di breve periodo auspicabilmente positivi derivanti dall’introduzione dell’Aspi, l’altra principale modifica, quella dell’art.18 potrebbe portare essenzialmente ad un aumento del contenzioso, peggiorando i rapporti di lavoro. Sembra quasi che le ragioni della riforma siano essenzialmente di natura cosmetica (abbattimento di simboli che denoterebbero l’attuale presunto ingessamento del mercato del lavoro italiano). Una ventata di liberismo, da lungo tempo auspicata dalla grancassa mobilitata dal più becero capitalismo nostrano e stranamente sostenuta e utilizzata in alcuni ambienti accademici, doveva essere il suggello della positiva novità apportata dal governo Monti alla licenziabilità dei lavoratori a tempo indeterminato.

È strano però che questa ripetizione di falsità che accreditano l’idea di lavoratori italiani eccessivamente protetti non regga il confronto dei dati. A parte il fatto che ormai 3/4 dei nuovi lavori sono di carattere temporaneo e assolutamente non protetti, ciò che accomuna l’Italia a pochi altri paesi europei, quella che è stata per anni la stessa giustificazione di questa anomalia, ossia l’esistenza di lavoratori a tempo indeterminato eccessivamente protetti, è infondata. Infatti, l’indice di protezione contro i licenziamenti dei lavoratori permanenti elaborato dall’Ocse è in Italia inferiore da tempo a quello dei nostri principali concorrenti, in primis Francia e Germania (in una scala di crescente protezione, 1,69 contro 2,60 e 2,85, rispettivamente, nel 2008) (cfr. Figura 1).


Scala da “0” (massima possibilità di licenziare) a “6” (minima possibilità di licenziare). Protezione dei lavoratori permanenti contro i licenziamenti individuali

Fonte: OECD indicators on Employment Protection (Version 2 - Last updated 24-09-2010) - OCSE

Figura 1 – Protezione dell’occupazione in alcuni paesi dell’Unione Europea 2008

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Si sono perciò preferiti target simbolici rispetto ad obiettivi reali, eludendo il principale problema del quale soffre il nostro sistema economico, quello della bassa crescita della produttività. Per ciò che si è appena detto, questo problema non può avere fondamento in una scarsa collaborazione dei lavoratori dovuta alla loro elevata protezione. La scarsa dinamica della produttività non è imputabile a lavoratori fannulloni perché protetti, semplicemente perché la nostra legislazione non protegge i lavoratori più di quanto essi non siano protetti all’estero; anzi, li protegge di meno. Ciò a cui essa va invece imputata è l’incapacità della nostra classe dirigente, sia imprenditori sia politici. I primi hanno seguito strategie aziendali di breve respiro, che sono risultate negative per il nostro sistema economico (scarsa innovazione tecnologica e organizzativa e mancato riposizionamento della specializzazione produttiva). I secondi hanno peggiorato la performance del settore pubblico, contribuendo negativamente ai fattori esterni all’impresa che influenzano la produttività.

Ma il paese sembra avere le energie per rinascere. Si tratta soltanto di individuare le modalità per valorizzarle, anziché farle retrocedere nella spirale che ha operato a partire dagli anni Novanta, per gli effetti prodotti sulle strategie aziendali dalla tregua salariale, prima, e dall’’invenzione’ di soluzioni di ripiego come quella del lavoro temporaneo, nonché per le conseguenze negative della ridotta efficienza del settore pubblico. Partendo da produzioni mature, con limitati incrementi di produttività che ‘giustificano’ una bassa dinamica salariale e, negli intendimenti dell’attuale governo, con liberalizzazioni tendenti a ridurre le presunte incrostazioni del mercato del lavoro, ma che abbassano ulteriormente i salari si riducono ulteriormente le spinte alla crescita della produttività e si rimane confinati entro le nicchie delle produzioni mature.

La ricetta non può dunque essere il liberismo, ma proprio quella di un’appropriata concertazione tra le forze sociali più produttive e il policy maker, criticata invece da Monti in molteplici dichiarazioni, che ne ha enfatizzato alcuni aspetti deteriori della pratica italiana. Il Presidente ne ha però dimenticato le potenzialità e, al tempo stesso, ha sottovalutato i danni della soluzione alternativa, fondata su un liberismo spinto, specialmente se applicato ad un mercato, quello del lavoro, nel quale l’oggetto del lavoro non riguarda cose, ma coinvolge la vita, le aspirazioni e i sentimenti di persone. Dopo le mancate concertazioni sulla riforma delle pensioni, sugli ammortizzatori sociali e soprattutto sui criteri di licenziabilità dei singoli lavoratori, appare estremamente difficile poter contare sulla collaborazione del movimento dei lavoratori per affrontare eventuali ulteriori sacrifici, qualora non si riuscisse a contenere le bramosie degli speculatori internazionali, dei corrotti della politica e degli evasori-elusori fiscali.

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Fonte: Sbilanciamoci.info

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I Comuni si liberano di Equitalia

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“Abbiamo cacciato Equitalia e ci abbiamo guadagnato”

di Lidia Baratta

Sbarazzarsi di Equitalia si può. Basta fare ricorso alla legge 166/2011, che stabilisce che i Comuni possano non servirsi della società creata da Agenzia delle entrate e Inps per la riscossione dei tributi. È quello che ha fatto Luca De Carlo, sindaco di Calalzo di Cadore, in provincia di Belluno. E tutto sembra andare meglio.

Sbarazzarsi di Equitalia si può. Niente pacchi bomba o proiettili, basta fare ricorso alla legge numero 166 del settembre 2011, che stabilisce che i Comuni possano non servirsi della società creata da Agenzia delle entrate e Inps per la riscossione nazionale dei tributi. È quello che ha fatto Luca De Carlo, il sindaco di Calalzo di Cadore, sulle montagne di Belluno, che dalla fine del 2011 ha deciso di affidare la raccolta coattiva dei crediti insoluti alla Comunità montana Valbelluna. «In un momento di crisi e difficoltà per le famiglie», dice De Carlo, «abbiamo cercato di umanizzare il servizio disumano da sceriffo di Nottingham adottato da Equitalia, risparmiando per di più ben 13 mila euro all’anno».

Già alla fine del 2010, in base al decreto legislativo 446 del 1997 e alla legge 338 del 2000, il giovane sindaco veneto aveva affidato al servizio tributi della Comunità montana la riscossione delle tasse ordinarie, come l’imposta comunale sui rifiuti. Dal marzo scorso, poi, approfittando dell’entrata in vigore della legge 166/2011, Equitalia è stata estromessa pure dalla riscossione coattiva dei crediti insoluti, che può portare al pignoramento dello stipendio, del conto corrente, dei beni mobili e immobili dei cittadini. Anche questo servizio è stato affidato alla Comunità montana Valbelluna, attrezzata per la riscossione delle tasse grazie ai contributi della Regione Veneto. «Non c’erano casi emblematici nel paese, anche perché la quasi totalità dei cittadini di Calalzo è puntuale nel pagamento dei tributi», dice De Carlo, «ma abbiamo avvertito qualche segnale di disagio».

Così, nonostante la legge numero 166 preveda che il passaggio della riscossione agli enti locali diventi obbligatorio dal 2013, continua De Carlo, «noi non abbiamo voluto aspettare perché non volevamo più essere complici di questa maniera di agire di Equitalia, che non fa differenza tra un poveretto che non ce la fa a pagare le tasse e i furbetti del quartierino». Affidando la riscossione alla Comunità montana, spiega, «siamo invece in grado di monitorare i pagamenti, capire dove esistono le situazioni di disagio e intervenire prima che i calaltini rischino il pignoramento della casa».

E il risparmio è assicurato: calcolando che ogni Comune paga a Equitalia quasi 6 euro a cittadino, il ricavo complessivo per Calalzo di Cadore (2250 abitanti) è di 13 mila euro. Un bel gruzzoletto, a cui Luca De Carlo ha subito riservato un posto nel bilancio comunale, reinvestendo i risparmi da “de-equitalizzazione” in servizi per i concittadini: bonus bebè da 300 euro, bonus libri da 150 euro e un contributo al trasporto locale, che fa risparmiare 240 euro all’anno a ogni studente. «In questo modo», spiega De Carlo, «eliminiamo le spese inutili». Con una novità: «La percentuale di pagatori puntuali», aggiunge, «è maggiore di prima, perché l’idea di dare soldi al proprio Comune, che poi li reinveste sul territorio, rende le tasse più belle».

Dopo Calalzo, la lista di città “de-equitalizzate” si allunga di giorno in giorno. Si sono già mossi il vicino Comune di Santo Stefano di Cadore e i sei municipi della destra e della sinistra del Piave. E sembra che anche Perarolo, Domegge e tutti i Comuni della Comunità montana Feltrina e Agordina siano intenzionati ad abbandonare Equitalia. «Auspico che altri Comuni italiani», dice De Carlo, «facciano lo stesso, anche perché con la crisi i casi di disagio dei cittadini potrebbero aumentare e il metodo di riscossione dei tributi adottato da Equitalia potrebbe colpire sempre più persone».

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Fonte: LINKIESTA

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