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Barbiana 2020: una scuola alternativa per cambiare il mondo

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Barbiana e la scuola 2020

Dimitris Argiropoulos

14 Settembre 2020

Non abbiamo bisogno di un ritorno a scuola, ma di una scuola che contribuisca a cambiare il mondo. Non abbiamo bisogno solo di protocolli da rispettare, ma di ripensare l’educazione come liberazione e la scuola come un insieme di luoghi nei quali ognuno è allievo e nello stesso tempo maestro. Non abbiamo bisogno di straordinari ministri dell’istruzione, ma di insegnanti capaci di coltivare pensiero critico, come Lorenzo Milani, la cui pedagogia ribelle si sviluppa con la costante critica al sistema scolastico e con la sperimentazione di un’istruzione alternativa e fortemente comunitaria. Abbiamo bisogno prima di tutto di piccoli gruppi di studentesse e studenti protagonisti del proprio apprendimento, come i ragazzi di Barbiana, autori di un testo meraviglioso e attualissimo, Lettera a una professoressa. Per questo la pubblicazione in Italia di quel testo in un volume che raccoglie anche la traduzione in lingua araba (studiata a Barbiana in quanto lingua degli oppressi), curata da Dimitris Argiropoulos per Athenaeum, ci sembra una splendida notizia per cominciare l’anno scolastico e volare in alto. Anzi, in basso, l’unico luogo, secondo don Milani, in cui è possibile cambiare il mondo in profondità.

L’edizione in lingua araba di Lettera a una professoressa comprende una prefazione di Francesco Gesualdi e una di Dimitris Argiropoulos, tradotte in inglese e francese. Pubblichiamo uno dei paragrafi della prefazione, dal titolo “La pedagogia della Scuola di Barbiana in Lettera a una professoressa“. In questo link invece è leggibile la versione araba.

La pedagogia di Barbiana… (leggi)

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Fonte: comune-info.net

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Scuola e violenza | Analisi comportamentale in campo educativo

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La violenza nella e della scuola

di Paolo Mottana*

Come è noto in questi tempi quasi ogni giorno si ha notizia di violenza nella scuola. La cronaca ne è piena, con una particolare sottolineatura per quanto riguarda la violenza di ragazzi nei confronti di altri ragazzi ma anche di ragazzi verso i professori e di genitori verso i professori. Meno si ha notizia di violenza da parte di professori nei confronti dei ragazzi e meno ancora di violenze di professori verso i genitori.

Cerchiamo, senza retorica, senza scorciatoie, senza l’enfasi che la voglia di schierarsi imprime al dibattito, dividendo tra assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni facili e talora miopi. La questione è molto complessa e richiede di tenere conto di un grande insieme di variabili, in assenza delle quali il giudizio è semplificatorio e inutile.

Anzitutto chiediamoci. A che tipo di violenze assistiamo nella scuola e, in secondo luogo, è la scuola un luogo violento? Io credo che le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se molte di esse risultano spesso poco visibili e ignorate, mentre di fatto vanno chiamate in causa per capirci qualcosa.

La scuola è un’istituzione normativa e, in parte, violenta. Lo è anzitutto in quanto “obbliga” bambini e ragazzi a trasferirsi massicciamente dai loro ambienti propri in ambienti fortemente regolati e estranei che non hanno scelto e all’interno dei quali sono tenuti a osservare moltissime norme che limitano pesantemente la loro libertà di muoversi, di essere soggetti a pieno titolo e di esprimersi spontaneamente.

Questo non dobbiamo mai dimenticarlo. La nostra società ha scelto, con piena corresponsabilità di tutti, genitori compresi, di rinchiudere bambini e ragazzi all’interno di una struttura che loro non hanno scelto e riguardo alla quale hanno una possibilità molto limitata di incidere e di far valere il proprio punto di vista. Questo vale anche per i genitori e per alcuni insegnanti più sensibili a questo ordine di obblighi non sempre sensati per quanto attiene i processi di apprendimento che dovrebbero verificarsi al suo interno.

Noi chiediamo ai nostri bambini e ragazzi (e mi scuso se ogni volta non aggiungo, come sarebbe giusto, bambine e ragazze ma è per semplicità) di alzarsi molto presto la mattina (cosa che in molti casi è una vera e propria violenza ai loro ritmi biologici) e di trasferirsi dai loro luoghi famigliari in luoghi non proprio esaltanti sotto il profilo estetico, del clima umano e dell’ospitalità, che noi chiamiamo scuole.

All’interno di questi luoghi poi vengono concentrati in gruppi che non scelgono, di fatto al comando di adulti, gli insegnanti,  che hanno il compito di far rispettare una disciplina piuttosto esigente (silenzio, ordine, riduzione radicale del libero movimento e della libera espressione ecc.) per effettuare attività principalmente cognitive non sempre gradite sotto la minaccia di valutazioni, sanzioni, procedure punitive ecc. I corpi e le menti dei bambini e dei ragazzi trattati in questo modo soffrono di una palese repressione e di una costante vigilanza che spesso travalica anche il buon senso, arrivando a censurare abbigliamenti, linguaggi, gesti che appartengono di fatto alla pienezza di espressione dei piccoli in crescita.

Ciò che si fa nella scuola è spesso fratturato in piccole unità difficili da ricomporre e delle quali comprendere il senso, è appesantito da compiti e prove continue o comunque molto frequenti non sempre rispettose delle esigenze individuali di tempi di apprendimento non standardizzabili specie su grandi numeri.

A tutto questo e altro che ora non posso, per esigenze di spazio, mettere in luce (organizzazione del tempo libero e delle uscite dalla classe, tempi fisiologici di riposo e “ricreazione”, tempo di libera espansione corporale ed espressiva ecc. ecc.), si aggiunge talora l’atteggiamento autoritario e minaccioso di alcuni adulti insegnanti, il che non fa che aumentare il carico di umiliazioni, soggiogamento e minaccia talora gratuita che i piccoli devono sopportare sempre in assenza di un loro spontaneo e attivo consenso.

Noi non possiamo mai dimenticare tutto questo, in special modo se teniamo conto, come dimostrano innumerevoli studi, del ruolo che la libertà relativa, il clima affettivo e supportivo e soprattutto il coinvolgimento appassionato ha sul processo di apprendimento, su qualsiasi processo di apprendimento.

Intendiamoci, non che queste norme non valgano in parte anche per gli insegnanti, che si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi per le loro risorse, a dover impartire insegnamenti che appunto impattano nel disinteresse dei soggetti in carico e di dover, sempre in ragione della strutturazione disciplinare e ricattatoria dell’insegnamento, trattare una popolazione sofferente e poco propensa a seguirli.

E tuttavia è chiaro che le punizioni, le sanzioni e la minaccia aumentano in proporzione diretta con il grado di sofferenze, di mancato coinvolgimento e di libertà che i soggetti in apprendimento sperimentano all’interno della struttura “concentrazionaria” nella quale sono obbligati a restare per una parte preponderante del loro tempo di vita.

In un contesto di tale genere io credo che si debba parlare di violenza diffusa, con gradazioni e sfumature anche molto diverse ma intrinseca al funzionamento dell’istituzione stessa.

I bambini e i ragazzi sono molto diversi gli uni dagli altri, come è normale che sia, e reagiscono a questo trattamento in maniera molto diversa. Ci sono alunni che, per ragioni anche di ordine psicologico, beneficiano di una strutturazione anche rigida, cioè trovano nella “funzione quadro” garantita dal contesto, come spiega René Kaes in un testo ormai vecchio ma sempre verde, L’istituzione le istituzioni, un ancoraggio rassicurante e funzionale. Per altri invece una tale strutturazione, spesso imbastardita dall’eccesso di controllo e di sanzioni, è insopportabile. In mezzo ci sono molte sfumature.

Fino a qualche decennio fa tutto questo sembrava pacifico. Secondo una visione piuttosto ottusa, mi si conceda, della psicologia dei bambini, si riteneva che l’obbligo, la frustrazione, il sacrificio, fossero in sé cosa buona e giusta per farli crescere. Un’idea antica e profondamente legata a una formazione adattiva per contesti di vita molto difficili e conflittuali che teneva in considerazione l’individualità e la soggettività dei bambini ben poco.

Nel giro di alcuni decenni, a partire dagli anni Sessanta ma anche molto prima in modo meno massiccio, si è allargata la nostra visione (anche grazie ai molti studi di pedagogia nuova e attiva che apparivano via via e alle sperimentazioni ad essi legate) a una comprensione più ampia del bambino e della necessità di tenere più conto di un processo che dobbiamo chiamare di soggettivazione individuale, di scoperta e coltivazione dei suoi talenti specifici e di autonomia. Pedagogisti, educatori e molti genitori si sono andati via via sensibilizzando intorno questa diversa comprensione e non hanno più colluso con un trattamento educativo fondato sulla sofferenza, sul rigore e sulla frustrazione.

Nel contempo tuttavia la società ha continuato ad essere un luogo di conflitti, di vera e propria guerra sempre più individualizzata e disorganizzata per il lavoro, per il successo e per il denaro. Teniamo conto anche di questo perché è questo che vedono, manifesto in ogni luogo, i nostri cuccioli intorno a loro, spesso nei loro genitori o nei ragazzi più grandi o, in mole davvero pervasiva, attraverso i media.

Tutto ciò non può che fare cortocircuito. Oggi molte famiglie sono sensibili alla salute psichica, fisica e affettiva dei propri figli (quello che viene chiamato il fenomeno della “famiglia affettiva” nei confronti della quale francamente non riesco a trovare nessun elemento di recriminazione perché finalmente è una famiglia che “vede” i propri bambini, o almeno ci prova e non è più disposta a delegarne completamente l’educazione a una struttura così poco comprensiva come quella scolastica). Gli insegnanti stessi, in una misura notevole, hanno cominciato a rendersi conto che occorre cambiare registro, anche se l’organizzazione scolastica ha fatto ben poco per venire loro incontro e, di fatto, il funzionamento dell’istituzione è cambiato, specie sotto il profilo disciplinare, ben poco. Come poco è cambiato sul piano dei saperi da apprendere, del modo di trattarli e delle prove di valutazione, che semmai sono diventate ancora più invasive e persecutorie.

Noi non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione. La scuola è un luogo violento, dove si consuma violenza quotidiana, dove le libertà essenziali dei bambini e dei ragazzi sono ridotte al minimo vitale.

È chiaro che oggi nel mondo c’è un clima che tende anche a incoraggiare questa ribellione, c’è più comprensione, c’è più contraddizione. Ma intendiamoci, e qui mi permetto di prendere posizione, questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione.

I bambini e i ragazzi sono soggetti a pieno titolo che hanno il diritto di essere accolti nel migliore dei modi possibile, di essere incoraggiati a trovare e intraprendere le “loro” strade, che devono essere valorizzati nelle loro differenze e ascoltati, che devono avere tempi di riposo, di libertà, di scatenamento come è consono con le esigenze dei loro corpi e della loro età.

Finiamola con il moralismo becero del tipo che occorre frustrarli perché altrimenti se ne occuperà la società. Un bambino frustrato non sarà per questo più capace di affrontare le frustrazioni della vita. Si abituerà solo a sopportarle e a non criticarle, a non cercare di cambiarle, avendo introiettato gli schemi della sottomissione e dell’accettazione.

Perché mettiamo i nostri figli al mondo se davvero crediamo che la realtà faccia schifo e che loro devono imparare da subito a essere sanzionati, normati, privati delle loro libertà? Stiamo scherzando? Con questo non voglio giustificare nessuno. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità ma non dobbiamo dimenticarci mai quale sia l’origine del problema, dove si annidi, chi siano i suoi attori primari. Il resto sono conseguenze, più o meno folli. Ma il punto di scaturigine sta in un meccanismo sbagliato ab initio.

Occorre cambiare, se vogliamo che domani cambi anche una società che non ha di meglio da dire ai suoi cuccioli se non imparate oggi a soffrire perché domani sarà peggio.

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Fonte: comune-info.net

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* Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione. Tra i suoi ultimi libri La città educante (Asterios). Altri articoli di Mottana sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna di Comune Un mondo nuovo comincia da qui

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Educare alla pace al tempo della guerra permanente

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Educare alla pace. Ma cosa significa?

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Educare alla pace: questione complessa. Intanto c’è la parola “educare” che ha valenze differenti per chiunque la pronunci, valenze che per ogni cultura e per ogni diversità di genere, di nazionalità, di religione, hanno differenti sfumature.

Sì, non è facile. Bellissimo osservare la marcia della pace Perugia-Assisi, le persone colorate di sorrisi e parole gentili reciproche, portatrici di un segno di amore e di esempio. Tuttavia, l’educare non parte soltanto da chi come loro è già”arrivato” ad Assisi, parte dal momento della nascita e dai contatti, dalla rete di relazioni quotidiane e dentro la rete. Sicuramente la scuola, fin dal nido, si accorge per prima che i gruppi giocosi e sereni dei piccoli hanno già in sé il germe dei contrasti, e su quei contrasti dovrebbe riflettere e infine agire a seconda delle situazioni affettive ed emotive che si creano volta per volta.

Educare, estrarre il succo più dolce da ognuno e ognuna, presuppone un avvicinamento delicatissimo alla persona del piccolo e ai suoi giovani genitori. Anche ai genitori, i quali appena divenuti tali, vengono toccati dal soffio delle parole “mio”e”io” “la mia educazione è questa”: parole che del resto ogni essere umano “sente” prepotenti dentro di sé allo sbocciare delle relazioni con sconosciuti un po’ “ingombranti”. Inizia qui l’avventura dell’”educazione alla pace”: dai primi passi, i quali, uno dopo l’altro, si mettono in un cammino in una marcia delicata sul duro terreno di “mio”, “io”, “la mia educazione è questa”.

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La figura di chi educa è importante, così come sono importanti la Costituzione e le Leggi. Insieme potrebbero cominciare ad accordarsi ricordando che esse sono qui proprio perché da tempi innumerabili ce ne è bisogno per condurci alla fine, fine che perdura in tempi futuri altrettanto innumerabili. Di esse c’è estremo bisogno e sappiamo bene che non bastano a regolare la convivenza in casa, per le strade, fra amici e, in particolare, insieme con quelli che si considerano gli “altri”.
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Ma se chi educa, chi fa le Leggi, chi dovrebbe tenere in alta considerazione una Costituzione nata proprio per scongiurare le guerre di qualsiasi tipo, da quelle interne a quelle esterne, trova espedienti per aggirare gli ostacoli e riportare il tutto sulla strada della velocizzazione delle scelte che riguardano un intero popolo, si rischia di riprodurre il seme della guerra. Il rischio di una politica del “fare” velocemente è quello di far dimenticare che la democrazia è lenta (per approfondire il bisogno di educare alla lentezza, leggi il quaderno Ci vuole il tempo che ci vuole), che ancora non è compiuta, che sovente dà spazio a chi ha la lingua più lunga e l’intelligenza per portare acqua al proprio “io”, al proprio “mio”, alla convinzione che esista un unico tipo di “educazione”, quella che rispetta i tempi in cui si vive, ma non rispetta quelli a venire. Cioè quelli dell’utopia.
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Tante sono le “scuole” di pensiero e di azione per educare l’infanzia, tuttavia quella costituzionale dei diritti e dei doveri di ogni cittadino e cittadina dovrebbe farci meditare su numerose scelte che sono state fatte e che si fanno per comprendere che per marciare in direzione della “pace”, i singoli della marcia contano eccome, e chi ha a che fare con l’inizio della camminata, insieme con i piccoli singoli che incontra, sa che procede sul territorio minato delle differenti provenienze e, senza annullarle, sa che deve armonizzarle e farle sfociare nell’interiorizzazione del rispetto verso la fioritura di un’affettività accogliente e serena.
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Ma il come farlo è complesso e insidioso perché studi e teorie, cuori e intelligenze proprie e di altri indicano strade che di primo acchito possono sembrare scintillanti di luci, piane e percorribili in velocità, adornate del “nuovo” che avanza per tutto velocizzare e rendere concreto e pragmatico, in linea con i tempi del presente, il quale sempre pretende soluzioni pratiche e di pubblica e facile comprensione. La semplificazione pare bella, eppure va in direzione contraria all’educazione alla pace. A essa sfuggono il tempo della mediazione, il tempo della ricerca, il tempo del dialogo che si fa conversazione, il tempo dei corpi che si devono avvicinare negli spazi dati, il tempo del compromesso verso l’alto, il tempo del giudizio che scarta, sfuggono gli scarti da recuperare, le ferite da curare.

Educare alla pace si potrebbe, se si comprendesse che la guerra nasce nel cuore dei piccoli di tutto il mondo quando li si induce con strumenti educativi a marcare più le differenze d’origine che non ad esaltare le possibilità della “bravura” individuale costruita insieme con altre “bravure” individuali.

La guerra nasce nei cuori dei piccoli quando li si educa a essere principi unici e li si esalta per un principato che esclude le ragioni dell’altro, i procedimenti dell’altro, le debolezze e i punti di forza dell’altro. Nasce così e si perpetua nella Storia dei popoli.

La guerra è qui, nei nostri condomini, nei nostri giardini, nei giocattoli dei piccoli, nei cortili, in spiaggia, in montagna e tante volte nella nostra scuola dei piccoli quando non li aiuta a gioire delle proprie scoperte, a mediare i conflitti, a imparare a diventare maestri di se stessi, quando li differenzia con scale di giudizio o parole giudicanti. Ma la guerra è nei cuori dei bambini anche se si sentono presi per il naso da adulti insinceri che invece di aiutarli ad accedere al sapere in modo profondo e competente, li blandiscono e non li ascoltano ragionare, sbagliare, riprendersi e ricadere, quando non li avviano alla bellezza dello studio personale che dà ai singoli la possibilità di sapere il perché della propria storia e di quella della Terra su cui vivono, il perché delle cose, il perché delle differenze fra culture e costumi. La via della pace è fatta di scalini che andrebbero saliti ogni giorno insieme, proprio a cominciare dal respingere tutto ciò che non ha sfumature, che ha fretta, che può rientrare in schemi, per inglobare, stringere, rafforzare tutto ciò che è complesso, inaspettato, nuovo e diverso. Sorprendentemente chi insegna per educare e anche istruire alla pace per mezzo dello studio della storia degli altri, sa che tutte le programmazioni e i progetti, anche i più straordinari e comprensivi di aneliti di libertà e creatività rassicurano a tal punto l’adulto da rischiare di trasformarlo in un despota inconsapevole se la sua sicurezza viene minata dagli innumerevoli “casi” dell’umanità che lo stesso adulto incontra mentre “pretende” adesione a ciò in cui crede. La guerra nasce dai piccoli dispotismi di ogni giorno. E la pace nasce da un ascolto talmente difficile ma talmente necessario da diventare quello che indica giorno per giorno una programmazione e una progettazione diversi.

E a ogni buon conto, l’idea di cosa sia la pace nasce ogni attimo nel quotidiano quando riconosciamo il seme della guerra in noi e negli altri nel momento in cui abbandoniamo lo sforzo del cammino sulla strada tortuosa della democrazia, sforzo immane che spesso stanca e fa prendere scorciatoie, le quali però portano dritte dritte al sentimento guerriero che alberga in chi si sente respinto e abbandonato al proprio destino solitario.

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* Maestra, autrice di “2014, odissea nella scuola”, ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme

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Fonte: comune-info

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