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Crisi ucraina e il principio di “Non Primo Uso” delle armi nucleari

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Dichiarazione di Daisaku Ikeda sulla crisi ucraina e sul principio di “Non Primo Uso” delle armi nucleari

Di Daisaku Ikeda

12 gennaio 2023

La crisi ucraina, scoppiata nel febbraio dello scorso anno, continua senza prospettive di cessare.
L’intensificarsi delle ostilità ha inflitto grandi sofferenze nei centri abitati e distrutto le infrastrutture, costringendo un gran numero di civili, tra cui molti bambini e donne, a vivere in uno stato di costante pericolo. Più di 7,9 milioni di persone sono state costrette a trovare rifugio in altri Paesi europei e circa 5,9 milioni sono sfollate all’interno della stessa Ucraina.

La storia del XX secolo, che ha visto gli orrori causati da due conflitti globali, avrebbe dovuto insegnare che nulla è più crudele e miserabile della guerra. Quando ero adolescente, durante la seconda guerra mondiale, ho assistito al bombardamento di Tokyo. Ancora oggi, ricordo vividamente di essere stato separato dai membri della mia famiglia mentre fuggivamo disperatamente attraverso un mare di fiamme, e di aver saputo che erano salvi solo il giorno successivo. Mi è rimasta indelebile anche l’immagine di mia madre, con la schiena scossa dai singhiozzi dopo che le fu comunicato che mio fratello maggiore, che era stato arruolato e aveva assistito con angoscia alle barbarie commesse dal Giappone, era stato ucciso in battaglia.
Quante persone hanno perso la vita o i mezzi di sostentamento nella crisi in corso, quante hanno visto il proprio stile di vita e quello delle loro famiglie improvvisamente e irrevocabilmente alterato?

Per la prima volta in quarant’anni, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha chiesto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di convocare una sessione speciale d’emergenza basandosi sulla risoluzione Uniting for peace (la risoluzione 377 A dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1950 n.d.t.). Successivamente, il Segretario generale António Guterres si è impegnato ripetutamente con i leader nazionali di Russia, Ucraina e altri Paesi per cercare una mediazione. Eppure, la crisi continua. Non solo ha acuito le tensioni in tutta Europa, ma ha avuto anche gravi ripercussioni su molti altri Paesi sotto forma di restrizioni dei rifornimenti alimentari, impennate dei prezzi dell’energia e blocco dei mercati finanziari. Questi sviluppi hanno accresciuto la disperazione di un gran numero di persone in tutto il mondo, già afflitte da eventi meteorologici estremi causati dal cambiamento climatico e dalla sofferenza e dalla morte causate dalla pandemia da COVID-19.

È cruciale trovare una soluzione per evitare un ulteriore peggioramento delle condizioni in cui versano le persone in tutto il mondo, per non parlare del popolo ucraino che è costretto a vivere con forniture di elettricità inadeguate e incerte in un inverno sempre più rigido e in un conflitto militare sempre più intenso. Invito pertanto a organizzare urgentemente un incontro, sotto l’egida delle Nazioni Unite, tra i ministri degli Esteri di Russia, Ucraina e altri Paesi chiave, al fine di raggiungere un accordo sulla cessazione delle ostilità. Chiedo inoltre di intraprendere serie discussioni volte alla realizzazione di un vertice che riunisca i capi di tutti gli Stati interessati al fine di trovare un percorso per il ripristino della pace. Quest’anno ricorrono gli ottantacinque anni dall’adozione, da parte dell’Assemblea Generale della Società delle Nazioni, di una risoluzione sulla protezione dei civili dai bombardamenti aerei. È anche il settantacinquesimo anniversario dell’adozione da parte delle Nazioni Unite della Dichiarazione universale dei diritti umani, che esprimeva il voto comune di realizzare una nuova era in cui la dignità umana non sarebbe mai più stata calpestata e abusata. Ricordando l’impegno a proteggere la vita e la dignità che è alla base del Diritto internazionale umanitario e del Diritto Internazionale dei Diritti umani, esorto tutte le parti a porre fine al più presto all’attuale conflitto.

Oltre a chiedere una risoluzione quanto più rapida possibile della crisi ucraina, desidero sottolineare l’importanza cruciale di attuare misure per prevenire l’uso o la minaccia di uso di armi nucleari, sia nella crisi attuale sia in quelle future.

Con il protrarsi del conflitto e l’inasprimento della retorica nucleare, il rischio che queste armi vengano effettivamente utilizzate è oggi al livello più alto dalla fine della Guerra Fredda. Anche se nessuna delle parti cerca la guerra nucleare, la realtà è che, con gli arsenali nucleari in continuo stato di massima allerta, è notevolmente aumentato il rischio di un uso involontario di armi nucleari come risultato di un errore di dati, di un incidente imprevisto o di confusione provocata da un attacco informatico.

L’ottobre dello scorso anno ha segnato il sessantesimo anniversario della Crisi dei Missili di Cuba, che portò il mondo a un passo dalla guerra nucleare. Nello stesso periodo la Russia e la NATO hanno organizzato esercitazioni dedicate alle proprie squadre di comando nucleare. Alla luce delle tensioni crescenti, il Segretario Generale Guterres ha sottolineato che le armi nucleari «non offrono alcuna sicurezza – solo carneficina e caos». [1] Essere consapevoli di questa realtà deve essere il fondamento comune per la vita nel XXI secolo. Come affermo da tempo, se consideriamo le armi nucleari solo dal punto di vista della sicurezza nazionale, rischiamo di trascurare questioni di importanza fondamentale. Nelle mie quaranta proposte di pace annuali pubblicate a partire dal 1983, ho sostenuto che la natura disumana delle armi nucleari deve essere il fulcro di qualsiasi discorso o discussione. Ho anche sottolineato la necessità di affrontare apertamente l’irrazionalità delle armi nucleari, con la loro capacità di distruggere e rendere illeggibili tutte le prove delle nostre vite individuali e dei nostri impegni condivisi come società e civiltà.

Un altro punto che desidero sottolineare si potrebbe definire come un’attrazione gravitazionale negativa insita nelle armi nucleari. Intendo con ciò che l’escalation delle tensioni legate al possibile uso di armi nucleari crea un senso di urgenza e di crisi che tiene in pugno le persone come una sorta di forza gravitazionale, privandole della capacità di fermare l’intensificazione del conflitto.
Durante la Crisi dei Missili di Cuba, il Segretario Generale sovietico Nikita Krusciov (1894–1971) scrisse al Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy (1917–63): «Arriverà il momento in cui il nodo sarà così stretto che neanche coloro che lo hanno legato potranno scioglierlo, e sarà dunque necessario reciderlo… ». [2] Dal canto suo, si riporta che Kennedy disse che il mondo sarebbe rimasto ingestibile fino a quando fossero esistite le armi nucleari. Queste dichiarazioni esprimono quanto i leader delle due potenze nucleari fossero consapevoli che le circostanze del tempo erano fuori dal loro controllo. Se si dovesse arrivare a prendere in considerazione il lancio di missili armati di testate nucleari, non ci sarebbe né il tempo né la capacità delle istituzioni di sondare le opinioni dei cittadini delle parti in conflitto, tanto meno quelle dei popoli del mondo, su come evitare gli orrori catastrofici che si scatenerebbero. La politica di deterrenza dipendente dalle armi nucleari è il modo in cui uno Stato cerca di esercitare il proprio controllo e affermare la propria autonomia. Ma quando si raggiunge il precipizio e si è sull’orlo dell’abisso, i cittadini di quello Stato e del mondo finiscono per essere intrappolati, privati di ogni libertà d’azione. Questa è la realtà delle armi nucleari, rimasta immutata dall’inizio della Guerra Fredda, una realtà che sia gli Stati dotati di armi nucleari sia quelli dipendenti dal nucleare devono affrontare in tutta la sua durezza.

Nel settembre 1957, quando il mio maestro, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda (1900-58), lanciò il suo appello per la messa al bando delle armi nucleari, la corsa agli armamenti nucleari stava rapidamente accelerando: i test di lancio di missili balistici intercontinentali erano riusciti, e ciò significava che ogni luogo della Terra diventava ora un potenziale obiettivo di un attacco nucleare. Pur rilevando l’importanza della crescita del movimento che chiedeva di mettere fine ai test nucleari, Toda era convinto che la soluzione definitiva al problema risiedesse nel totale rifiuto di ogni forma di pensiero che ne giustificasse il loro uso. Quando diede voce alla sua determinazione di “denudare e strappare gli artigli che si celano nelle estreme profondità di simili ordigni”[3], espresse la sua indignazione nei confronti di quelle logiche che ammettevano la possibilità di sottoporre l’umanità a tali orrori catastrofici. Il fulcro della sua Dichiarazione risiedeva nell’appello a un profondo autocontrollo da parte di coloro che occupano posizioni di autorità politica, che hanno in mano la vita o la morte di un gran numero di persone. Un altro obiettivo era contrastare il senso di rassegnazione delle persone di fronte alle armi nucleari, la sensazione che le proprie azioni non possano cambiare il mondo. In questo modo, ha cercato di aprire una strada che permettesse ai cittadini comuni di essere i protagonisti dell’impegno della messa al bando le armi nucleari. Toda considerava questa Dichiarazione come espressione delle ultime e fondamentali istruzioni che lasciava ai suoi discepoli; io ho inteso le sue parole come un appello a tracciare una linea che non dovrà mai essere oltrepassata, un’indispensabile indicazione per il futuro dell’umanità. Per far sì che ciò diventasse realtà, nei miei incontri con i leader politici e intellettuali di diversi Paesi, ho continuato a sottolineare l’assoluta necessità di risolvere la questione delle armi nucleari. Allo stesso tempo, con l’obiettivo di porre fine all’era delle armi nucleari, la Soka Gakkai Internazionale (SGI) ha allestito una serie di mostre e si è impegnata in iniziative educative di sensibilizzazione nei Paesi di tutto il mondo.

Nel 2007, cinquantesimo anniversario della dichiarazione di Toda, la SGI ha lanciato People’s Decade for Nuclear Abolition e, collaborando con la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (ICAN), iniziata nello stesso periodo, ha lavorato per la realizzazione di uno strumento giuridicamente vincolante per mettere al bando le armi nucleari.
Il desiderio e la determinazione della società civile, rappresentata dalle vittime dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, che la tragedia dell’uso delle armi nucleari non debba mai più essere vissuta dalla popolazione di nessun Paese, si sono cristallizzati nel 2017 con l’adozione del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), entrato in vigore nel 2021. Questo, per noi, ha rappresentato un progresso verso la realizzazione della Dichiarazione lasciata in eredità da Josei Toda.
Il TPNW mette completamente al bando tutti gli aspetti delle armi nucleari, non solo il loro uso o la minaccia di uso, ma anche il loro sviluppo e possesso. Per quanto gli Stati che possiedono armi nucleari possano trovare difficoltà ad abbracciare il Trattato, dovrebbe almeno esserci un riconoscimento comune e condiviso dell’importanza di prevenire le conseguenze catastrofiche del loro uso. Oltre a ridurre le tensioni con l’obiettivo di risolvere la crisi in Ucraina, ritengo di fondamentale importanza che gli Stati possessori di armi nucleari intraprendano azioni per ridurre i rischi nucleari allo scopo di garantire che non si verifichino – né ora né in futuro – situazioni in cui si profila la possibilità dell’uso di armi nucleari. È in quest’ottica che, nel luglio dello scorso anno, ho rilasciato una dichiarazione alla Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (NPT) in cui esortavo i cinque Stati dotati di armi nucleari a impegnarsi prontamente e senza ambiguità a non essere mai i primi a lanciare un attacco nucleare, adottando quindi il principio del “Non Primo Uso”.

Purtroppo, la Conferenza di revisione del NPT di agosto non è riuscita a raggiungere un consenso per la stesura di un documento finale. Ma questo non significa affatto che gli obblighi di disarmo nucleare stabiliti nell’articolo VI del Trattato non siano più validi. Come indicano le varie bozze del documento finale, c’è stato un ampio sostegno per le misure di riduzione del rischio nucleare, come l’adozione di politiche di “Non Primo Uso” e l’estensione delle garanzie negative di sicurezza, attraverso le quali gli Stati dotati di armi nucleari si impegnano a non usare mai le armi nucleari contro gli Stati che non le possiedono.

Sulla base di queste delibere, è assolutamente necessario sostenere lo stato di “Non Primo Uso”, che nonostante tutto è stato mantenuto negli ultimi settantasette anni, e far avanzare il processo di disarmo nucleare verso l’obiettivo dell’abolizione. Esiste già una base comune da cui partire: la dichiarazione congiunta rilasciata lo scorso gennaio (2022) dai leader di Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina, nella quale affermano che “una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta”[4]. Durante la Conferenza di revisione del Trattato NPT, molti governi hanno richiamato i cinque Stati nucleari al rispetto di quanto dichiarato a gennaio, e a mantenere una posizione di autocontrollo. I rappresentanti di questi cinque Stati hanno tutti fatto riferimento alla dichiarazione congiunta nel parlare delle proprie responsabilità in quanto Stati nucleari. Utilizzando l’esempio di un cerchio per descrivere la responsabilità degli Stati dotati di armi nucleari nel mantenere l’autocontrollo sull’uso di tali ordigni, l’impegno espresso nella dichiarazione congiunta di prevenire la guerra nucleare costituirebbe la metà di tale cerchio. Tuttavia, questo da solo non è sufficiente per eliminare completamente la minaccia dell’uso di armi nucleari. Credo che la chiave per risolvere questa sfida sia che gli Stati si impegnino a adottare il principio di “Non Primo Uso”. Durante la Conferenza di revisione del NPT, la SGI ha collaborato con altre organizzazioni e ONG per organizzare un evento collaterale alle Nazioni Unite incentrato sull’urgenza di adottare questo principio, e sono certo che se le promesse del “Non Primo Uso” saranno collegate alla dichiarazione congiunta di gennaio, il cerchio potrà essere completato, contenendo la minaccia nucleare che da tempo incombe sul mondo e aprendo così la strada per compiere finalmente progressi sul disarmo nucleare. Lo scorso novembre, il Toda Peace Institute, da me fondato, ha organizzato in Nepal un laboratorio per promuovere questo tipo di cambiamento di paradigma. I partecipanti hanno concordato sulla necessità che il Pakistan si unisca alla Cina e all’India nel dichiarare l’impegno a adottare il “Non Primo Uso”, affermando così questo principio in tutta la regione dell’Asia meridionale. Hanno inoltre condiviso opinioni sull’importanza di stimolare il dibattito internazionale sul “Non Primo Uso”, in modo da consentire a tutti gli Stati dotati di armi nucleari di compiere passi in questa direzione. Questo mi riporta alla mente il punto di vista del dottor Joseph Rotblat (1908-2005), che per molti anni è stato presidente del PUGWASH (Pugwash Conferences on Science and World Affairs). Nel dialogo che abbiamo pubblicato insieme parlò di un accordo sul “Non Primo Uso”, affermando che sarebbe il passo più importante verso l’abolizione totale delle armi nucleari e chiedendo la realizzazione di un trattato a tal fine.

Il professor Rotblat era anche profondamente turbato dai pericoli insiti nelle politiche di deterrenza dipendenti dalle armi nucleari e radicate in un clima di paura reciproca. Le strutture di base della deterrenza nucleare non sono cambiate negli anni successivi al nostro dialogo del 2005, e la crisi attuale ha messo in evidenza la necessità vitale per l’umanità di superare queste politiche. L’impegno a adottare il principio di “Non Primo Uso” delle armi nucleari è una misura che gli Stati dotati di armi nucleari possono adottare anche mantenendo per il momento i loro attuali arsenali. Ciò non significa che la minaccia delle circa 13.000 testate nucleari esistenti oggi nel mondo si dissolva rapidamente. Tuttavia, ciò che vorrei sottolineare è che, se questa politica dovesse prendere radici tra gli Stati dotati di armi nucleari, creerebbe un’apertura per eliminare il clima di paura reciproca. Ciò, a sua volta, potrebbe consentire al mondo di cambiare rotta, abbandonando lo sviluppo crescente di armi nucleari basato sulla deterrenza per passare al disarmo nucleare e scongiurare la catastrofe.

Guardando indietro, l’epoca della Guerra Fredda fu segnata da una serie di crisi apparentemente insolubili che scossero il mondo, diffondendo violente ondate di insicurezza e paura. Eppure, l’umanità è riuscita a trovare strategie per uscire con successo da tali crisi. Ne sono un esempio i Negoziati per la limitazione delle armi strategiche (SALT) tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’intenzione di tenere questi colloqui fu annunciata il giorno della cerimonia di firma del NPT del 1968, che era stato stipulato in risposta alle amare lezioni della crisi dei missili di Cuba. I negoziati SALT furono i primi passi compiuti dagli Stati Uniti e dall’URSS per frenare la corsa agli armamenti nucleari sulla base degli obblighi di disarmo nucleare previsti dall’articolo VI del NPT.
Per chi era coinvolto in quei colloqui, non doveva essere facile imporre vincoli alle politiche nucleari sviluppate come prerogativa esclusiva del proprio Stato. Tuttavia, si trattava di una decisione indispensabile per la sopravvivenza non solo dei cittadini delle rispettive nazioni, ma dell’intera umanità. Per me il nome di questi negoziati – SALT (sale) – richiama alla mente la complessità di questo contesto. Avendo sperimentato in prima persona il terrore di trovarsi sull’orlo di una guerra nucleare, le persone di allora fecero emergere un potere di immaginazione e creatività di portata storica. Ora è il momento, per tutti i Paesi e i popoli del mondo, di unirsi per liberare ancora una volta questo potere creativo e dare vita a un nuovo capitolo della storia umana.
Lo spirito e l’unità di intenti che prevalsero al momento della nascita del NPT sono in risonanza e complementari agli ideali che hanno motivato la stesura e l’adozione del TPNW. Mi appello a tutte le parti affinché esplorino nuove strade, e amplino quelle esistenti, allo scopo di unire tutti gli sforzi compiuti per realizzare questi due trattati, traendone gli effetti sinergici per costruire un mondo libero da armi nucleari.

Fonte: Senzatomica

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Note

[1] Nazioni Unite, “Secretary-General’s Remarks for the International Day for the Total Elimination of Nuclear Weapons,” consultato giorno 11 gennaio 2023, https://www.un.org/sg/en/content/sg/speeches/2022-09-26/secretary-generals-remarks-for-the-international-day-for-the-total-elimination-of-nuclear-weapons

[2] Office of the Historian, “Telegram from the Embassy in the Soviet Union to the Department of State,” consultato giorno 11 gennaio 2023,, https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1961-63v06/d65

[3] Josei Toda, “Dichiarazione contro le armi nucleari,” consultato giorno 11 gennaio 2023, https://senzatomica.it/dichiarazioni-onu/dichiarazione-contro-le-armi-nucleari/.

[4] Ambassade de France en Italie, “Dichiarazione congiunta dei capi di Stato e di Governo per prevenire la guerra nucleare e evitare la corsa agli armamenti,” consultato giorno 11 gennaio 2023, https://it.ambafrance.org/Dichiarazione-congiunta-dei-capi-di-Stato-e-di-Governo-per-prevenire-la-guerra

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A New York grande manifestazione per la pace: “Espansione della NATO NO – Pace in Ucraina SÌ!”

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Anche negli USA si chiede la pace in Ucraina e il ritiro della NATO

Di Patrick Boylan

14 gennaio 2023

A New York, nella centralissima Times Square e poi presso il People’s Forum lì vicino, si è svolta una grande manifestazione per la pace con uno slogan che la dice tutta: Espansione della NATO NO – Pace in Ucraina SÌ!

Ma com’è possibile riportare la pace in Ucraina dicendo NO alla NATO? Che c’entra la NATO?
Ce lo spiegano gli Statunitensi per la Pace e la Giustizia di Roma, in un loro documento diffuso in occasione della manifestazione dei fratelli newyorkesi. Eccone un brano esteso:

Il conflitto in Ucraina non nasce dal tanto sbandierato “desiderio di impero” del presidente russo, Vladimir Putin, bensì dal molto meno sbandierato “desiderio di impero” della NATO… e di Wall Street. Si tratta di un desiderio di dominare e di sfruttare altri paesi, lo stesso impulso che ha portato alle invasioni (rivelatesi poi ingiustificate) dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria e poi, nel 2014, della stessa Ucraina quando, ad assaltare Kiev e ad imporre un leader voluto da Washington, erano le milizie ucraine filo naziste addestrate nelle caserme NATO in Polonia.

Oggi – come nel lontano 2014 – si vede a malapena la mano della NATO dietro l’insorgere dei tragici eventi in Ucraina. Ma c’è. E riconoscere questo fatto è importante perché ci consente, a noi pacifisti occidentali, di poter agire da protagonisti per riportare la pace.

Prima, però, dobbiamo renderci pienamente conto in che maniera la NATO ha agito e agisce.

Secondo la Narrazione Ufficiale, appena ricordata, il conflitto in Ucraina sarebbe dovuto esclusivamente al sogno del sig. Putin di diventare un nuovo Hitler e di conquistare il mondo. Solo che, sogni a parte, Putin sa benissimo – come i fatti stanno a dimostrare – che la Russia è sì una potenza nucleare, ma non ha le forze per condurre una guerra planetaria e nemmeno una guerra su scala europea; addirittura, ha molta difficoltà a fare una guerra nella sola regione est dell’Ucraina, il Donbass. Quindi, a meno di non essere completamente pazzo, il sig. Putin non può aver attaccato l’Ucraina, come ha fatto, convinto di essersi lanciato alla conquista del mondo, un pezzo alla volta, come recita la propaganda del Pentagono ripresa dai mass media mainstream.

Putin ha attaccato l’Ucraina perché la NATO lo ha provocato a farlo, annunciando (poi smentendo, poi annunciando di nuovo, poi smentendo, poi riannunciando, in una calcolata guerra dei nervi) il suo intento di espandersi fino ai confini russo-ucraini, costruendo lungo quei confini diversi siti per missili nucleari che i russi non potrebbero abbattere, essendo il punto di lancio così vicino a Mosca.

In altre parole, la Russia ha attaccato perché la NATO ha tirato fuori un coltello (l’Ucraina, appunto) e glielo sta puntando alla gola.

Come bisogna reagire a un bullo (in questo caso, la NATO) che tira fuori un coltello e te lo punta alla gola? Devi supplicarlo di risparmiarti? Devi gridare “aiuto”? Per il sig. Putin, né l’uno né l’altro. Egli ha scelto di usare la violenza contro la minaccia di violenza, attaccando per prima: un crimine secondo il diritto internazionale e un tragico errore che sta costando caro alla Russia.

Inoltre, quella scelta ha dimostrato quanto è sbagliato rispondere alla violenza con la violenza.

Ma dobbiamo concludere che essa dimostra anche che il sig. Putin sia davvero pazzo o, come minimo, un bugiardo? In fondo, egli afferma di aver dovuto fare una guerra preventiva contro un pericolo che non è nemmeno imminente.

Nel fare così, tuttavia, egli può vantare degli illustri predecessori. Gli USA, ad esempio, l’hanno fatto più volte. Nel 2003, il Presidente Bush invase l’Iraq per impedirlo di usare delle ipotetiche armi di distruzione di massa mai trovate, occupando poi illegalmente il paese per altri dieci anni, senza subire sanzioni o condanne da parte dell’Unione Europea. E nel 1962, il Presidente Kennedy rispose al presunto intento dell’allora URSS di installare missili nucleari a Cuba, a meno di 90 km dagli Stati Uniti, apprestandosi a dichiarare la Terza Guerra Mondiale! Malgrado il fatto che egli sapesse benissimo che questa sua decisione, se messo in pratica, sarebbe stata giudicata dalla Storia un errore criminale, in quanto gli ipotetici missili sovietici non rappresentavano ancora un pericolo imminente contro gli USA. Kennedy si discolpò presso l’opinione pubblica affermando che nessun paese può accettare nemmeno i preparativi per l’installazione di missili nucleari sui propri confini.

Fortunatamente, nel 1962, l’URSS fece marcia indietro e rinunciò all’installazione dei suoi missili a Cuba (anche perché aveva ottenuto, come contropartita in trattative segrete, lo smantellamento di una base missilistica USA in Turchia). Così fu scongiurata una conflagrazione nucleare.

Oggi, però, la NATO si rifiuta di fare marcia indietro.

Anzi, sta suonando i tamburi di guerra, ufficialmente per aiutare l’Ucraina a riconquistare il Donbass e la Crimea in nome della sua sovranità ma in realtà per poter poi installare le sue basi missilistiche proprio lì.

In altre parole, Wall Street e la NATO (braccia armata dell’alta finanza USA) hanno ogni intenzione di tenere il coltello puntato alla gola della Russia, installando missili balistici sui confini russo-ucraini. In tal modo potranno costringere la Russia a capitolare su tutta la linea – pena l’annientamento. Ad esempio, potranno imporre alla Russia un Presidente pro USA, disposto a cedere alle multinazionali statunitensi e in particolare quelle britanniche, a prezzi stracciati, le vaste risorse energetiche russe, come gli USA fece fare ad Eltsin negli anni ‘90.

Ora, riflettiamoci un istante.

Cosa faremmo NOI se ci trovassimo in una situazione del genere? Cioè, se fossimo la Russia.

(1.) Non potremmo accettare un coltello alla gola.

(2.) Ma non potremmo nemmeno reagire con un attacco, perché ciò peggiorerebbe le cose.

Esiste forse una terza via?

È quello che dirà la manifestazione odierna a New York. Esiste sì una terza via, diranno ad esempio le donne dell’ONG Code Pink, co-organizzatrici. E’ una via, però, che non esige dalla Russia, come invece fanno Washington e Kiev, il ritiro unilaterale russo dall’Ucraina per lasciar entrare la NATO, in quanto ciò equivarrebbe a chiedere alla Russia di suicidarsi.

Perciò la risposta è proprio quella opposta: esigere dalla NATO di ritirarsi. Perché può e deve farlo.

Infatti, la NATO non ha nessun bisogno di installare i suoi missili sui confini russo-ucraini, dove non potrebbero essere abbattuti. Quei missili rappresentano già un deterrente sufficiente collocati laddove si trovano ora.

Inoltre, sappiamo (dall’offerta di negoziati che la Russia ha fatto PRIMA dell’invasione, nel dicembre 2021) che Putin è più che disposto a fare concessioni. Quindi la NATO potrebbe verosimilmente ottenere una contropartita accettabile (come Krusciov da Kennedy nel 1962) se solamente accettasse, in via definitiva mediante trattato, di non espandersi fino all’Ucraina.

“Ma l’Ucraina non è libera di entrare nella NATO, se vuole?”, si chiede spesso. La risposta è negativa. “La mia libertà finisce dove comincia la vostra” disse Martin Luther King. Non abbiamo la libertà di stoccare bombe nel nostro giardino se ciò mette in pericolo i nostri vicini. Per lo stesso motivo, il Messico non è libero di aderire alla CSTO (la versione russa della NATO) e di lasciar installare missili russi lungo i suoi confini con gli USA. O l’Ucraina di aderire alla NATO. La libertà non è incondizionata, è sempre vincolata dal rispetto per l’incolumità degli altri.

Ciò significa che, nel pretendere che la NATO faccia marcia indietro, non stiamo chiedendole di arrendersi a un bullo. La NATO non avrebbe dovuto fare la sua provocazione per cominciare. Perciò fare marcia indietro significa semplicemente “resettare” le cose al punto di partenza.

In conclusione, dunque, esiste sì una possibilità di pace in Ucraina e ce l’abbiamo nelle nostre mani. Perché solo NOI possiamo fermare l’espansione della NATO all’est.

La Russia non riesce a farlo, lo si vede. La Cina si rifiuta di schierarsi. L’Europa o guarda dall’altra parte (Austria, Irlanda, ecc.) o appoggia la NATO fornendo armi per alimentare la guerra in Ucraina (Italia, Francia, ecc.). L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non ha il potere di fermare l’espansione della NATO e il Consiglio di Sicurezza, che avrebbe il potere, non lo farà mai perché tra i membri permanenti, con diritto di veto, ci sono paesi appartenenti all’Alleanza Atlantica.

Ciò significa che spetta ai popoli degli stessi paesi della NATO premere sui propri governi per fermare la sua espansione all’est. Questa è l’UNICA strada per ripristinare la pace.

Ed è l’unica maniera per aiutare davvero i poveri ucraini. Infatti, “aiutarli” non significa inviare loro più armi, checché se ne dica. Non dobbiamo ascoltare quegli ucraini che ripetono la linea del Pentagono chiedendo “più armi” per farsi poi uccidere e consentire così alla NATO di sfinire la Russia in una lunghissima guerra di attrizione. Dovremmo ascoltare, invece, gli ALTRI ucraini, quelli che il governo “democratico” non ha ancora ucciso o incarcerato per aver chiesto la pace. Quelli che vogliono che l’Ucraina resti fuori dalla NATO, per garantire quella pace. (I nostri media non lo dicono, ma l’Ucraina ha ucciso o fatto “sparire” più di 80 blogger e giornalisti, considerati traditori perché avevano osato chiedere la pace e la neutralità.)

Dovremmo ascoltare loro, i coraggiosi ucraini non ancora “fatti scomparire”, invece dei tirapiedi del Pentagono che vediamo sempre in TV.

Perciò lo slogan della manifestazione di oggi a New York è una proclama che tutti noi possiamo sottoscrivere, insieme a tutti gli ucraini amanti della pace. E cioè:

ESPANSIONE DELLA NATO — NO!

PACE IN UCRAINA — SÌ!

L’ONU non può fermare l’espansione della NATO ad est? Tocca a noi farlo, per riportare la pace.

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Fonte: Peacelink

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VIDEO
(Coro! Coro! Coro! & Patti Smith cantano ‘PEOPLE HAVE THE POWER’ a New York con Stewart Copeland) https://www.youtube.com/watch?v=y6Wz3i_BYUc

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Distruzione gasdotti attacco alla UE

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Il sabotaggio del Nord Stream 1 e 2 è un atto di guerra contro la popolazione europea

Giorgio Ferrari 29/09/2022

Nella notte tra il 26 e il 27 settembre, a distanza di 6 ore una dall’altra, sono state registrate dall’istituto di sismologia svedese due forti esplosioni localizzate a sud est dell’isola di Bornholm appartenente alla Danimarca. Enormi bolle di gas sono apparse sulla superficie del mare nel mentre che i tecnici della AG, società danese che gestisce il terminale di arrivo dei gasdotti Nord Stream 1 e 2, vedevano ridursi drasticamente la pressione nei tubi. Scartata l’ipotesi di un terremoto e di una esplosione sotto il fondo del mare, le autorità militari svedesi e danesi sono arrivate a concludere che la rottura delle tubazioni dei due gasdotti è stata causata da una esplosione in acqua e dunque da un atto deliberato di sabotaggio che ha definitivamente messo fuori servizio i due gasdotti.

Fin da subito i commenti apparsi sulla stampa internazionale hanno alluso alla possibilità che il sabotaggio fosse opera dei russi (l’Ucraina lo ha sostenuto senza mezzi termini) sulla falsariga di quanto accaduto con la centrale nucleare di Zaporizhia: i russi non sono solo perversi – dato che bombardano una centrale da loro occupata e difesa per motivi che ho spiegato più volte – ma anche incredibilmente stupidi dato che, invece di chiuderne semplicemente i rubinetti, fanno esplodere i tubi di due gasdotti che gli sono costati decine di miliardi di dollari.

A smentire questa ennesima manipolazione, sono intervenuti due fattori: il primo è dato dal fatto che le coordinate geografiche del sabotaggio lo collocano in acque controllate scrupolosamente da Svezia e Danimarca. Il secondo riguarda le dichiarazioni dell’ex ministro degli esteri polacco (ora europarlamentare) Radoslaw Sikorski e dello stesso presidente USA Joe Biden.

Sikorski, con riferimento al sabotaggio del Nordstream, ha scritto un tweet i in cui ringrazia gli USA per quella che definisce “Una piccola cosa, ma di grande gioia” arrivando a citare quanto detto da Biden in una intervista del 7 febbraio 2022 a proposito del Nordsteam 2.

In questa intervista, riproposta dal settimanale Newsweek, Biden dichiara che se i russi avessero invaso l’Ucraina, gli USA avrebbero messo fine al Nordstream 2 e rispondendo all’obiezione di un giornalista che gli faceva presente essere questo gasdotto sotto il controllo della Germania, Biden rincarava la dose dicendo: “Te lo prometto: saremo in grado di farlo”.ii

A corollario di questa orchestrazione va sottolineato che, contemporaneamente alla esternazione del segretario di stato Blinken, il quale ha dichiarato che il danneggiamento dei gasdotti non giova a nessuno, l’ambasciata USA di Mosca invitava tutti cittadini statunitensi ad abbandonare immediatamente la Russia.

Nulla di tutto ciò compare sui mezzi di informazione, tanto meno le dichiarazioni della portavoce del ministero degli esteri russo che invita il presidente USA a smentire ogni suo coinvolgimento in questo sabotaggio,iii ma soprattutto non si tiene conto che con la distruzione dei due gasdotti si preclude ulteriormente la via del negoziato e si consegna l’Europa intera alla dipendenza prolungata dalle importazioni di gas statunitense con conseguenze incalcolabili sul tenore di vita della popolazione.

Anche volendo prescindere dalla premeditazione di questo atto di sabotaggio da parte degli USA, è sempre più evidente che i paesi della Nato e la stessa Unione Europea non solo non intendono parlare di pace, ma operano concretamente per la continuazione della guerra. L’aumento delle spese militari e delle forniture di armi all’Ucraina (così si era espresso Draghi e così ha annunciato la presidente del consiglio in pectore, Giorgia Meloni), al pari del richiamo all’austerità e ai sacrifici, non avviene, peraltro, sulla base di un consenso popolare diffuso e consapevole, ma di una campagna mediatica intimidatoria e fuorviante che è divenuta parte integrante della guerra. Attribuire il sabotaggio dei gasdotti russi alla stessa Russia fa parte di questa logica, ma l’atto in sé del sabotaggio è un atto di guerra indirizzato non tanto contro la Russia, ma contro tutte e tutti noi che ne dovremo sopportare i costi. Sarebbe ora di prenderne atto e agire di conseguenza.

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Fonte: Pressenza

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