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Il referendum sulle trivellazioni petrolifere. Di che si tratta?

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Il 17 aprile si vota per il referendum sulle trivellazioni petrolifere

di Pio Russo Krauss

Il Governo ha deciso: il 17 aprile si voterà il referendum sulle trivellazioni petrolifere. Di che si tratta? Per spiegarlo bisogna fare qualche passo indietro.

Ricordate lo Sblocca Italia? Il decreto di 296 pagine sugli argomenti più disparati diventato legge nel 2014? Questo discusso decreto (vedi i nostri messaggi del 6/11/2014 e del 28/5/2015) permette di ricercare ed estrarre petrolio anche ad una distanza dalla costa e da aree marine protette minore di 12 miglia, anche nei parchi nazionali e nelle aree protette, anche se la Regione è contraria. Contro l’approvazione di questo decreto si erano espresse le associazioni ambientaliste, quelle turistiche (es. il Touring Club Italia), centinaia di comitati locali, la Conferenza delle Regioni, le Conferenze episcopali di Abruzzo e Molise (due delle Regioni più tartassate dal decreto), intellettuali ecc.

Successivamente all’approvazione del decreto, 10 Regioni (Liguria, Veneto, Marche, Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria Sardegna) hanno presentato richiesta di 6 referendum.

Il Governo, per paura di perdere, ha inserito nella legge di stabilità alcune disposizioni, quali il divieto di ricerca ed estrazione nella fascia di 12 miglia dalla costa e dalle aree marine, il coinvolgimento delle Regioni ecc. che in parte accolgono le richieste delle Regioni e degli ambientalisti. Dei 6 referendum è stato così ammesso solo uno (su altri due la Corte Costituzionale si dovrà esprimere tra pochi giorni).

Il referendum del 17 aprile chiede che sia abrogata la norma che stabilisce che le concessioni alla ricerca e all’estrazione siano a tempo illimitato. Va detto, infatti, che il Governo ha chiuso le stalle dopo che ha fatto uscire le vacche: al 31 dicembre 2015 aveva già concesso, secondo le vecchie norme dello Sblocca Italia, 90 permessi sulla terra ferma e 24 in mare (una concessione permette di ricercare petrolio nel Golfo di Taranto a solo 1,16 miglia da un’area protetta, il Sito di Importanza Comunitaria “Amendolara”). Se passa il referendum tutte queste concessioni possono essere ridiscusse, se non passa, le aziende petrolifere avranno mano libera. Insomma, come ha detto il WWF, il Governo ha fatto il furbo: si è affrettato a concedere quante più autorizzazioni è possibile, senza rispettare il limite dei 12 Km, senza sentire le Regioni ecc. e poi ha concesso quello che chiedevano gli ambientalisti e le Regioni, quando ormai i giochi erano compiuti. Ovviamente non ha potuto concedere che le autorizzazioni fossero a tempo e ridiscutibili, perchè avrebbe vanificato tutta la sua strategia.

Un sondaggio ha evidenziato che oltre l’88% degli italiani è contrario alle ricerche petrolifere in mare sotto le 12 miglia. Quindi vittoria facile del referendum? Tutt’altro. Il Governo, malgrado i molti appelli ad accorpare le elezioni amministrative col referendum, ha deciso che questo si terrà prestissimo, il 17 aprile. Appare chiaro che Renzi cerca di fare in modo che non si raggiunga il quorum del 50% dei votanti. E per farlo fa spendere agli italiani circa 350 milioni di euro (tanto si sarebbe risparmiato se si accorpavano le due votazioni in un unico giorno). Inoltre, se la Corte Costituzionale desse il via libera agli altri due referendum, questi non potrebbero tenersi il 17 aprile, perché la data è troppo vicina, quindi altri 350 milioni da spendere inutilmente.

Nel merito di questa strategia pro-petrolio del Governo va detto che:

  1. i giacimenti di petrolio quasi certi (probabilità al 90%) non sono molti in Italia (coprirebbero il fabbisogno di petrolio dell’Italia per soli 3 mesi). Secondo stime ottimiste si potrebbero trovare giacimenti che riuscirebbero a coprire il fabbisogno nazionale al massimo per 2-3 anni.

  2. Il petrolio italiano non è di buona qualità. Quello Adriatico è troppo denso: l’indice API è 9, quando un petrolio di buona qualità ha un indice superiore a 40. Quello della Val d’Agri è migliore (più fluido), ma, come il resto del petrolio italiano è ricco di zolfo. Quindi i costi di raffinazione e il suo impatto ambientale sono alti.

  3. Varie zone nelle quali sono stati concessi autorizzazioni alla ricerca sono interessate da fenomeni di subsidenza (abbassamento del terreno) che verrebbero peggiorati dall’estrazione del petrolio.

  4. Il Mediterraneo è un mare chiuso e l’Adriatico è ancora più chiuso. Tutte le zone interessate da ricerche petrolifere sono zone sismiche. Le possibilità di incidenti non sono quindi remote e i danni sarebbero ingentissimi.

  5. Tra le principali argomentazioni addotte da esponenti del Governo e della lobby petrolifera quando è stato varato lo Sblocca Italia c’era questa: bisogna affrettarsi ad estrarre petrolio nel Mare Adriatico, perché la Croazia si è già attivata e noi rischiamo di trovare i pozzi a secco, avendo solo i rischi e nessun beneficio. Ora il nuovo Governo della Croazia ha annullato tutte le concessioni e ha deciso che preferisce salvaguardare il turismo piuttosto che imbarcarsi in un’impresa incerta e poco remunerativa.

  6. L’Italia ha qualcosa di molto più prezioso e duraturo di qualche giacimento di petrolio: ha il mare, le spiagge, la costa, i borghi, i paesaggi mediterranei e ha la pesca (frutti di mare, pesci, crostacei). Il turismo e la pesca sono due settori economici importanti, che producono ricchezza e danno lavoro a tantissime persone. Il turismo produce ogni anno il 10% del nostro PIL e dà lavoro a 2.619.000 persone [1]; la pesca produce il 2,6% del PIL è dà lavoro a 325.000 persone [2], il solo prelievo di molluschi bivalvi con draga idraulica nell’Adriatico dà lavoro a 4.600 persone [3]. Purtroppo negli ultimi anni l’Italia ha perso posizioni. Nel Brand Index (la graduatoria dei Paesi turisticamente più “appetibili”) del 2005 l’Italia era al primo posto, nel 2007 al quinto, nel 2009 al sesto, nel 2011 al decimo, nel 2013 al quindicesimo e nel 2015 al diciottesimo. Secondo le graduatorie del World Economic Forum settore Travel & Tourism, nella «sostenibilità ambientale» siamo al 53° posto, nell’indice «Applicazione delle norme ambientali», all’84º.

Insomma lasciamo andare alla malora la nostra ricchezza più importante – il paesaggio, inteso come bene naturale, ambientale, culturale, storico, artistico – e la mettiamo ancor più a rischio per avere un poco di petrolio di qualità scadente, quando il futuro è delle energie pulite e rinnovabili.

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Fonti: 1) World Travel & Tourism Council 2013; 2) INAIL: Secondo rapporto Pesca 2011; 3) Impresapesca: Pesca dei molluschi bivalvi con draga idraulica in Adriatico, 2015

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Fonte: Associazione Marco Mascagna

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Io non vi voto! Sfida alla politica fossile

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Cari leader politici, siete amici del carbone e del petrolio? Io non vi voto! Attraverso l’affissione di manifesti con il volto di alcuni leader politici del Paese e il lancio di una nuova piattaforma web parte la nostra sfida alla politica fossile.

I manifesti, che i nostri attivisti hanno affisso questa notte, ritraggono Bersani, Alfano, Renzi, Casini e Fini e rimandano al sito www.IoNonViVoto.org  attraverso cui tutti i cittadini che credono in un futuro di energia pulita, lontano dall’inquinamento e dai disastri di carbone e petrolio, possono mandare un messaggio chiaro a chi si candida a governare il Paese.

Non è un messaggio astensionista ma l’occasione giusta e imperdibile per porre delle condizioni chiare e inequivocabili ai candidati alle prossime elezioni. Se decidi di firmare la petizione manderai a tutti i leader politici questo messaggio forte e chiaro: il mio voto non è disponibile a chi vuole fare dell’Italia un nuovo Texas petrolifero, a chi consente la costruzione di nuove centrali a carbone, a chi frena la crescita delle energie rinnovabili e con essa l’occupazione e l’economia.

L’Italia vive da sempre una condizione di forte dipendenza, in campo energetico, dalle importazioni. La bolletta nazionale è di oltre 60 miliardi di euro l’anno. Continuare a investire nello sviluppo delle fonti fossili equivale a condannare il Paese, a cronicizzare questa dipendenza. Carbone e petrolio distruggono il clima, inquinano, generano pochissima occupazione e causano molti danni che le aziende energetiche non compensano mai.

A riguardo Greenpeace ha inviato un questionario molto preciso a tutti i leader politici nazionali. Al momento hanno risposto in pochi. Noi continueremo fino all’ultimo la nostra campagna per ottenere risposte e impegni su temi decisivi come l’energia, la salute e il clima. Informeremo attraverso tutti nostri canali di comunicazione chi sono, tra i leader nazionali, i veri alleati delle lobby fossili. Quelli che non voteremo mai più. Se parteciperai con noi, firmando la petizione, se saremo in tanti, diventeremo più forti, efficaci e convincenti.

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Fonte:  Greenpeace

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Gli interessi italiani (ed europei) in Libia

“Gli italiani, tra tutti i popoli delle nazioni al mondo, hanno più da perdere in questo cambio di regime in Libia”

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Barili di petrolio

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di Mirko Misceo

Dal petrolio agli elicotteri, ecco perché Frattini “ci va cauto” sulla Libia

Nel deserto libico, a più di quaranta gradi all’ombra, i manager dell’Eni sudano freddo. E sudano e pregano anche i loro colleghi del capitale, seduti comodamente sulle poltrone del potere, qui da noi, nell’ormai prossima al tracollo energetico Italia. Mentre la Libia, nel mezzo di una rivoluzione che vede migliaia di morti per le strade, produce ancora petrolio sufficiente per il consumo interno, il suo ex padrone coloniale, l’Italia, non sembra essere altrettanto fortunata quando si parla di rifornimenti energetici.

“Gli italiani, tra tutti i popoli delle nazioni al mondo, hanno più da perdere in questo cambio di regime in Libia” – dichiara Peter Zeihan, vice presidente del dipartimento di analisi presso la “Stratfor”, società di intelligence di rilevanza mondiale – L’Italia riceve circa un terzo del suo petrolio ed il 10-15 per cento del suo gas dalla Libia.”

Il nostro paese, senza gli approvvigionamenti che giungerebbero dai paesi arabi (in testa la Libia), avrebbe riserve di petrolio sufficienti per solo 90 giorni e di gas per 30 giorni, ha dichiarato una fonte del governo italiano all’agenzia di stampa Reuters.

L’Eni, la compagnia petrolifera più grande d’Italia, di cui è parzialmente proprietario lo Stato, si è impegnata ad investire fino a 25 miliardi di dollari in Libia. Il prezzo delle azioni Eni in questi giorni, a causa dell’influenza sui mercati internazionali che hanno avuto le notizie delle rivolte, è sceso del 5,1 per cento, registrando il calo più sensibile dal luglio del 2009.

“Se fossi l’Eni, sarei terrorizzato in questo momento – afferma con sarcasmo Zeihan – gli italiani non hanno una politica energetica; la loro politica di rifornimenti è addirittura più inconsistente di quella degli americani”.

Senza l’appoggio del regime di Gheddafi, insomma, toccherà rivedere i piani strategici per l’approvvigionamento energetico. E chissà se l’alta borghesia italiana, che ha in pugno il destino energetico del nostro paese, cercherà adesso di ripiegare ancora di più verso la Russia: non sembrano esserci rivoluzioni in vista per Putin.

Un legame (in)dissolubile… (leggi tutto)

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Fonte: Controlacrisi.org