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La nostra rovina economica è libertà per i super-ricchi

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di George Monbiot  – The Guardian

Il modello è morto, lunga vita al modello. I programmi d’austerità stanno prolungando la crisi che dovevano risolvere, tuttavia i governi si rifiutano di abbandonarli. La Gran Bretagna offre un esempio efficace. I tagli, prometteva la coalizione, sarebbero stati dolorosi ma avrebbero funzionato. Sono dolorosi, altroché, e ci hanno spinto in una doppia recessione.

Il risultato era stato ampiamente previsto. Se si taglia la spesa governativa e il reddito dei poveri durante una crisi economica, è probabile che la si renda peggiore. Ma la settimana scorsa David Cameron ha insistito a dire che “andremo avanti e completeremo il lavoro”, mentre il cancelliere ha sostenuto che il governo ha “un piano credibile e ci stiamo attenendo ad esso.”

Sorgono due domande. La prima è familiare: perché la reazione del pubblico a quest’attacco alla vita pubblica e al benessere pubblico è stata così tiepida? Dove sono le massicce e prolungate proteste che ci saremmo potuti aspettare? Ma l’altra domanda è ugualmente sconcertante: dov’è l’élite economica?

Certamente la classe imprenditoriale e i super-ricchi  – gli unici che il governo ascolta – possono vedere che queste politiche stanno distruggendo i mercati da cui dipende la loro ricchezza. Certamente sono in grado di capire che questo capitalismo da terra bruciata sta fallendo persino nei suoi stessi termini.

Per capire quest’enigma dovremmo in primo luogo capire che quel che è presentato come un programma economico è, di fatto, un programma politico. E’ l’attuazione di una dottrina: una dottrina chiamata neoliberalismo. Come ogni credo, esiste nella sua forma pura soltanto nei cieli; quando riportata sulla terra si trasforma in qualcosa di diverso.

I neoliberali affermano che abbiamo maggiori vantaggi massimizzando la libertà del mercato e minimizzando il ruolo dello stato. Il libero mercato, lasciato a sé stesso, produrrà efficienza, scelta e prosperità. Il ruolo del governo dovrebbe essere limitato alla difesa, a proteggere la proprietà, a impedire monopoli e a rimuovere le barriere alle attività economiche. Tutti gli altri compiti sarebbe meglio fossero affidati alle imprese private. La ricerca di una purezza da anno zero del mercato è stata abbastanza pericolosa nella teoria: distorta dalle sporche realtà della vita sulla terra è devastante per il benessere sia del popolo sia del pianeta.

Come dimostra Colin Crouch in ‘The Strange Non-Death of Neoliberalism’ [La strana non-morte del neoliberalismo] lo stato e il mercato non sono, come insistono i neoliberali, in perpetuo conflitto. Si sono invece uniti a difesa delle richieste delle mega-imprese.

Quando lo stato taglia i regolamenti e le provvidenze sociali, il mondo degli affari si arricchisce. Esso usa la sua ricchezza per calpestare la stessa dottrina che l’ha arricchito. Mediante finanziamenti alle campagne elettorali, facendo rete e mediante attività di lobby, le grandi imprese arruolano lo stato perché si faccia campione dei loro interessi. In Gran Bretagna le imprese hanno esercitato pressioni per programmi di privatizzazione che sostituissero i monopoli pubblici con quelli privati. Hanno anche persuaso il governo a creare piani ibridi (come l’iniziativa della finanza privata) che garantiscano finanziamenti statali alle imprese. Negli stati uniti le mega-imprese hanno convinto il Congresso a rimuovere i regolamenti chiave che disciplinavano i revisori e le banche. Ciò ha portato prima agli scandali Enron e WorldCom, e poi alla crisi finanziaria.

Le grandi imprese hanno usato il loro potere per convincere lo stato a lasciarle continuare a scaricare i loro costi ambientali sul resto di noi. Hanno indebolito le leggi antitrust. Hanno escluso nuovi ingressi sul mercato (mediante i loro investimenti pubblicitari e le loro reti di distribuzione) e sono diventate grandi abbastanza da impedire la propria uscita anche quando falliscono (si vedano i salvataggi delle banche). Questi sono i risultati delle politiche neoliberali che Cameron sta applicando, ma che sono in grave contrasto con le previsioni fatte dai neoliberali su come dovrebbero comportarsi i liberi mercati.

Soprattutto, il programma neoliberale ha precluso le scelte politiche. Se il mercato, come insiste la dottrina, è l’unico valido fattore decisivo per stabilire come si evolvono le società e il mercato è dominato dalle mega-imprese, allora quello che la società riceve è quello che vuole la grande industria. Si può costatare questa squallida realtà nel discorso di Cameron della scorsa settimana. “Abbiamo ascoltato quello che vogliono le imprese e stiamo provvedendo. Le imprese hanno detto: ‘Vogliano trattamenti fiscali competitivi’, e dunque stiamo creando il regime fiscale per le imprese più competitivo in tutto il G20 e le aliquote fiscali a carico delle imprese più basse del G7 …”  E il resto di noi? Non abbiamo voce in capitolo?

L’ipotesi neoliberale è stata smentita in modo spettacolare. Lungi dall’autoregolarsi, i mercati non vincolati sono stati salvati dal crollo solo dall’intervento del governo e da massicce iniezioni di denaro pubblico. Lungi dal produrre la prosperità universale, i tagli governativi ci hanno spinto ancor più profondamente nella crisi. E tuttavia questa stessa crisi è ora usata come scusa per applicare la dottrina ancor più ferocemente di prima.

E dunque dov’è l’élite economica? A contare i soldi che ha accumulato in paradisi fiscali non regolamentati. Trent’anni di neoliberalismo hanno consentito ai super-ricchi di distaccarsi dalle vite degli altri in misura tale che la crisi economica li tocca a malapena. Si può considerare ciò come un altro fallimento del mercato. Anche se sono toccati, i ricchi sono indubbiamente pronti a pagare un prezzo economico per i vantaggi politici – libertà dalle restrizioni della democrazia – che la dottrina offre.

Un programma che prometteva libertà e scelta ha invece prodotto qualcosa che assomiglia a un capitalismo totalitario, in cui nessuno può dissentire dalla volontà del mercato e in cui il mercato è diventato un eufemismo per la grande impresa. Offre libertà, poco ma sicuro, ma solo a quelli che stanno al vertice.

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Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo   www.znetitaly.org

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2012 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Neoliberismo: l’inizio della fine

Nella recensione del libro di Noam Chomsky del 1999 –  ” Sulla pelle viva. Mercato globale o movimento globale?” – vengono anticipate tutte le atrocità del neoliberismo che, negli anni, porteranno poi il nostro pianeta ad una lenta agonia.   (madu)

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Noam Chomsky

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Chomsky: la brutalità del neoliberismo

mercato globale o movimento globale?

“Il neoliberismo è il paradigma economico-politico che definisce il nostro tempo: indica l’insieme delle politiche e dei processi che consentono a un gruppo relativamente ristretto di interessi privati di controllare il più possibile la vita sociale allo scopo di massimizzare i propri profitti”.
   Sono parole di Robert W. McChesney dall’introduzione al volume “Sulla pelle viva. Mercato globale o movimento globale?” di Noam Chomsky (Marco Tropea Editore, ottobre 1999, 224 pagine, 28 mila lire). Nel volume Chomsky analizza il neoliberismo, pone in luce le distorsioni dell’interpretazione della stessa dottrina liberale classica che caratterizzano teoria e prassi degli alfieri postmoderni della deregulation, denuncia lo storico dominio americano (spesso reso possibile, al contrario, proprio da generosi contributi pubblici alel industrie nazionali) e il disegno della Organizzazione mondiale del commercio (vedi Seattle) come longa manus di questo grande imperialismo globale che crea nuove povertà in termini di vita umana e di ambiente naturale tanto al Sud quanto al Nord del mondo.

   Il problema è che anche le cosiddette forze della sinistra di governo, anche la più “tradizionale”, quella europe, sembrano rassegnarsi all’ineluttibilità della ricetta liberista, sia pure, in qualche caso, con correttivi che la rendano un po’ più digeribile, giusto per evitare incazzature globali (e qui dopo Seattle molti si saranno resi conto di muoversi già sul filo del rasoio…).
   Scrive ancora McChesney: “Inizialmente associato a Reagan e alla Thatcher, negli ultimi due decenni il neoliberismo è stato il credo economico-politico dominante a livello globale, adottato non solo dai partiti politici di centro e di destra, ma anche da buona parte della sinistra tradizionale. Questi partiti e le politiche adottate rappresentano gli interessi diretti di investitori estremamente ricchi e di meno di un migliaio di grandi imprese”.

   Come si è detto, al centro dell’analisi di Chomsky ci sono il ruolo storico degli Stati Uniti nell’informare secondo un modello funzionale ai propri interessi politici ed economici l’intero equilibrio dei rapporti mondiali (e qui ci sia permesso dire due parole a tutti quei pensatori, intellettuali, giornalisti o quant’altri “liblab” che ad ogni accusa rivolta agli Stati Uniti – sia perché bombardano la gente o perché massacrano indirettamente le vite di milioni di lavoratori – rispondono con una alzata di scudi e parlano di veteroantiamericanismo: per favore, la morte e lo sfruttamento non sono ideologie, sono fatti; tragici fatti). Ma come mai il liberismo ha conquistato questa posizione dominante nel mercato delle idee? Per il fallimento del comunismo sovietico, certo. Ma proviamo a sentire di nuovo McChesney: “Il grande sforzo finanziario compiuto nell’ultimo ventennio dalle imprese sul terreno delle pubbliche ha conferito a questo termine e a queste idee un’aura pressoché sacrale. Il risultato di tale impegno è che le tesi avanzate dai teorici di queste posizioni non vengono nemmeno più difese, e sono invocate a sostegno di ogni forma di razionalizzazione: dall’attenuazione della pressione fiscale sui ricchi, all’abolizione delle norme di tutela dell’ambiente, allo smantellamento della scuola pubblica e dello stato sociale”.

   A proposito di Chomsky, McChesney osserva: “In tutti questi anni C>homsky, che può considerarsi un anarchico o forse, più correttamente, un socialista libertario, è stato un critico franco e coerente degli stati e dei partiti comunisti e leninisti, a cui ha sempre mosso un’opposizione di principio. Ha insegnato a un gran numero di persone – compreso chi scrive – che la democrazia è il caposaldo irrinunciabile di ogni società postcapitalistica in cui abbia senso vivere e per cui valga la pena di lottare. Nello stesso tempo, ha dimostrato quanto sia assurdo identificare capitalismo e democrazia o pensare che le società capitalistiche, anche nelle circostanze migliori, accetteranno mai di consentire alla gente l’accesso all’informazione e la partecipazione al processo decisionale al di là di spazi angusti e accuratamente controllati. Nessuno, credo, a parte George Orwell, è stato efficace come Chomsky nel denunciare sistematicamente l’ipocrisia di governanti e ideologi, comunisti non meno che capitalisti, quando celebrano la propria forma di governo come l’unica democrazia autentica e possibile per l’umanità”.
   Infatti, uno dei messaggi di Noam Chomsky in questo volume che vale davvero la pena di leggere è che proprio la manipolazione delle coscienze, il gioco della distorsione dell’informazione, determina le condizioni ideali per il dominio sulla società da sfruttare. Chomsky, per esempio, a proposito di neoliberismo, dimostra che stati e governi – tanto vituperati dai fautori del liberissimo mercato – sono sostegni fondamentali per il sistema capitalistico al quale servono per la difesa degli interessi delle grandi imprese (sotto forma di sovvenzioni, fisco eccetera) e sempre meno per tutelare i singoli cittadini, soprattutto i più deboli.

   Leggere Chomsky significa rendersi conto del funzionamento dei meccanismo complessi (ma frutto di un preciso disegno politico-economico) che determinano il mercato dello sfruttamento globale. “I princìpi fondamentali del liberalismo classico trovano la loro naturale espressione moderna non nel dogma neoliberista, ma nei movimenti indipendenti dei lavoratori, nonché nelle idee e nell’azione di quel socialismo libertario espresso talvolta anche da grandi esponenti del pensiero del Novecento, come Bertrand Russel e John Dewey”, scrive Chomsky invitandoci a guardare oltre il confine che qualcuno vuole imporre al nostro immaginario.

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Fonte:  NonLuoghi


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