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Avvertimento mafioso da Israele all’Italia

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Comunicato stampa , 29 settembre 2012

Secondo lo stile consolidato da decenni di impunità, Israele, col suo ultimo omicidio di un giovane pescatore,  manda a dire al sindaco di La Spezia, al sindaco di Napoli e a tutti gli uomini e le donne che stanno accogliendo Estelle nel suo passaggio sulle coste italiane,  che non gradisce intromissioni nella sua pratica di quotidiana sopraffazione.
L’avvertimento di Israele all’equipaggio del veliero, e ai suoi sostenitori, è chiaro e passa attraverso l’uso dei micidiali proiettili dum dum sparati sui pescatori gazawi inermi: l’omicidio è la sua pratica, la sopraffazione la sua legge, la violazione del diritto la sua regola.
Oggi, il veliero è a La Spezia, i festeggiamenti della cittadinanza e delle Istituzioni, l’abbraccio tra nuovi e vecchi partigiani, si sono tinti di lutto per l’uccisione di Fahmi Abu Riash  mentre pescava nelle acque di Gaza. Ma non sarà l’ennesimo avvertimento mafioso a fermare Estelle.
Il veliero passerà lungo le coste laziali e si dirigerà verso il porto di Napoli dove laici e credenti, uniti dalla forza delle stesse idee di giustizia per la pace, saluteranno insieme le vele che cercheranno di portare a Gaza il messaggio dei giusti e la denuncia delle omertà  internazionali, vero sostegno di ogni crimine.
Contiamo sulla stampa democratica  per rompere il silenzio che sostiene l’illegalità.

Media Center Freedom Flotilla Italia
freedomflotillaitalia@gmail.com

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Fonte:  Freedom Flotilla Italia

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Trascurato dai media europei e nordamericani il vertice del Movimento dei paesi non allineati (NAM)

 

 

      Stati  membri  –  Membri osservatori

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Iran. Se il mondo s’incontra a Teheran, senza l’Occidente

Con 120 partecipanti, il vertice del Movimento dei paesi non allineati (NAM) che si è svolto la scorsa settimana ha tutto il sapore di una riorganizzazione del mondo emergente, anche perché per numero di partecipanti è secondo solo alle Nazioni Unite. Tuttavia, l’evento è stato perlopiù trascurato dai media europei e nordamericani. Forse c’entra la sede dell’incontro, Teheran.

di Giovanni Andriolo

Passino le sanzioni, passi la stigmatizzazione del programma di sviluppo delle centrali nucleari o della politica estera dell’Iran; si prescinda per un istante dalle convinzioni personali e dalle posizioni politiche: il XVI vertice del Movimento dei non allineati verrà ricordato come un evento fondamentale di questo 2012.

Il vertice tuttavia è andato ben oltre il clamore attorno alla sua sede (Teheran e quindi questione nucleare, sanzioni, crisi siriana, ect…), offrendo diversi spunti per analizzare quelle che saranno le prossime tendenze nelle relazioni internazionali.

Innanzitutto, il valore simbolico del passaggio di timone del Movimento, dall’Egitto all’Iran.

Da un Egitto che quando lo raccolse, nel 2009, era ancora il paese di Mubarak, il ‘faraone’ a cui gli Stati Uniti fornivano due miliardi di dollari l’anno in aiuti economici e militari, ottenendone in cambio appoggio alle loro “attività” nella regione vicino-orientale.

All’Iran del 2012, il paese forse più lontano, e non geograficamente, dagli Stati Uniti, il paese che da più di trent’anni figura come il nemico per eccellenza (pur con variazioni sul tema, a seconda dei periodi), uno dei pochi che non è stato ancora ‘piegato’ al volere americano.

Raramente un passaggio di consegne fu più drastico e carico di contenuti, nei giochi di potere mondiali.

E sebbene le grandi potenze abbiano cercato di minimizzare la portata dell’evento, sottolineando come il Movimento dei Non Allineati non abbia mai raggiunto risultati concreti dalla sua fondazione, è di per sé rilevante il fatto che, proprio in questo 2012, con il Vicino Oriente in fiamme e una guerra larvata tra lo stesso Iran da una parte e le grandi monarchie arabe spalleggiate dagli Stati Uniti dall’altra, 120 paesi decidano di ‘affidarsi’, per i prossimi tre anni, proprio a Teheran.

Sebbene questa scelta possa essere considerata positiva o negativa per la regione e per il mondo: resta tuttavia un fatto compiuto, e di una certa rilevanza.

Un secondo elemento che colpisce del summit di Teheran riguarda la posizione assunta dal nuovo presidente egiziano, Mohammed Morsi. O piuttosto, le reazioni che ha suscitato in tutto il globo.

Non c’è dubbio che l’intervento di Morsi abbia contribuito, più di ogni altro, a portare l’attenzione dei media europei e nordamericani sul vertice.

Da un lato, la presenza stessa del presidente egiziano nell’Iran post-rivoluzionario è un fatto straordinario: i due paesi hanno rotto i legami diplomatici nel 1979, e da allora nessun capo di Stato si era recato a Teheran.

Ciononostante sono le sue dichiarazioni ad aver fatto breccia nella stampa mainstream: il nuovo raìs ha infatti auspicato un cambio di regime in Siria.

A quel punto, lo shock per la dirigenza iraniana dev’essere stato pari a quello vissuto a Washington quando è stata annunciata la sede che avrebbe ospitato il NAM.

Secondo le cronache, la delegazione siriana ha immediatamente lasciato la sala, mentre le trasmissioni televisive del discorso venivano interrotte sia in Siria che in Iran. Di contro, Europa, Stati Uniti e canali satellitari arabi accendevano all’improvviso le luci sul vertice NAM.

Ma c’è un terzo elemento su cui riflettere. La presenza del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon non è passata inosservata.

Da Washington era tuonata, prima dell’inizio del summit, una richiesta affinché l’alta carica dell’Onu non partecipasse ai lavori del NAM. Inoltre, il premier israeliano aveva definito “un grave errore” la visita di Ban a Teheran.

Un giornale italiano, uno dei pochi, in realtà, che era intervenuto sulla questione del vertice NAM, pur con intenti denigratori, aveva addirittura parlato di “una colpa morale e un errore politico simile a quelli di Chamberlain”, riferendosi alla decisione presa dal numero uno del Palazzo di Vetro.

In realtà, Ban Ki Moon si è limitato a fare il proprio dovere. Il fatto che il segretario generale delle Nazioni Unite presenzi a un vertice internazionale che riunisce 120 membri dell’Onu (sui 193 totali) e che si svolge nella capitale di un paese membro, seppur controverso, non dovrebbe sollevare tante polemiche.

O per lo meno, non dovrebbe sollevare polemiche qualora non esistessero paesi membri, all’interno dell’Onu, che mirano a pilotare le istituzioni internazionali per soddisfare i propri interessi nazionali, a detrimento di altri paesi (altrettanto membri).

Il discorso di Ban a Teheran è stato criticato aspramente, sia da chi supporta le posizioni iraniane, sia da chi invece le reputa aggressive. In realtà, anche in questo caso il segretario si è limitato a svolgere il proprio dovere: portare il punto di vista delle Nazioni Unite sulle maggiori questioni internazionali.

Se da un lato ha riconosciuto all’Iran la possibilità di svolgere un ruolo chiave nella regione, un ruolo “costruttivo e moderato”, dall’altro Ban ha criticato le esternazioni anti-israeliane di alcune cariche iraniane, proprio mentre sedeva a fianco del presidente Mahmoud Ahmadinejad.

Parlando della Siria, se l’è presa con “coloro che forniscono armi a entrambi le parti”, il governo e i gruppi all’opposizione, spiegando come un’ulteriore militarizzazione non sia la risposta alla crisi siriana.

Un discorso, in effetti, abbastanza vago, che non prende posizioni forti, se non in alcuni casi, e che, d’altra parte viene pronunciato da chi ha il dovere di rappresentare le istanze di più di 190 paesi nel mondo.

Nonostante le polemiche, i tentativi di orientare le attività del segretario generale e l’ostracismo dimostrato da parte dei media euro-americani (del Nord) nei confronti dell’evento, il vertice dei paesi non allineati rappresenta un chiaro segnale di come, al di fuori di Europa e Stati Uniti, il resto del mondo, la maggior parte del mondo, stia cominciando a orientarsi verso nuovi poli macroregionali.

In quest’ottica, il tentativo da parte delle grandi potenze internazionali di isolare a tutti i costi avvenimenti come quello del NAM di Teheran non può che favorire tali tendenze nei paesi emergenti. Con il rischio che le grandi potenze, piuttosto che isolare, si trovino a loro volta sempre più isolate.

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Fonte: Osservatorioiraq.it

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Approfondimento

Movimento dei paesi non allineati (NAM)

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Il processo a Gaza per l’omicidio di Vittorio Arrigoni

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di Ramzy Baroud

C’era una volta un giovane di una piccolissima cittadina italiana, chiamata Bulciago, che desiderava cambiare il mondo. Appena finiti gli esami iniziò la sua ricerca. Viaggiò in lungo e in largo e quando arrivò a Gerusalemme nel 2002 seppe di aver trovato il suo posto.

Nel 2008 quel giovane, Vittorio Arrigoni, salpò per l’alto mare su una piccola imbarcazione. Il suo scopo era di contribuire a fermare l’assedio imposto a una popolazione da lungo tempo sofferente che viveva nella minuscola Striscia di Gaza. In una nota di diario che è stata recentemente pubblicata in un libro molto atteso, Marinai della Libertà, Arrigoni scrisse:

“La storia siamo noi; la storia non sono i governi codardi; con la lealtà a chiunque abbia l’esercito più forte; la storia è fatta dalla gente comune.”

La storia di Vittorio considera la ‘gente comune’ come i protagonisti che possono cambiare il mondo: marinai coraggiosi che sono in grado di sfidare la grande potenza degli eserciti, medici che balzano oltre i confini per salvare delle vite, scrittori, insegnanti, oratori, musicisti e gente di ogni provenienza.

Il secondo nome di Vittorio era Utopia, ma la sua non era assolutamente un’impresa utopistica. Era molto reale, e Vittorio stava segnando la via per altri. Una vota a Gaza era deciso a portare la sua missione sino alla fine, nonostante avesse molti motivi forti per andarsene. Nel settembre del 2008 era stato ferito dalla marina israeliana mentre accompagnava pescatori palestinesi nelle acque territoriali palestinesi. Un mese dopo era stato arrestato – o, meglio, sequestrato – dall’esercito israeliano e poi estradato. Un mese dopo era tornato, appena in tempo per riferire sulla cosiddetta Operazione Piombo Fuso. E’ stata una guerra unilaterale contro Gaza, tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, in seguito al fallimento dell’assedio nel conseguire gli obiettivi politici israeliani. La guerra di ventidue giorni uccise più di 1.400 persone e ne ferì migliaia di altre. Vittorio era là per testimoniare tutto ciò. Mentre tanti accendevano e spegnevano la guerra sui loro telecomandi, Vittorio accompagnava ambulanze nel mezzo della notte, confortava i feriti, piangeva con le persone in lutto, si appellava al mondo per aiuto e cercava di sopravvivere egli stesso alla guerra.

Inviava dispacci giornalieri ai media italiani, scriveva sul suo blog e agli amici in tutto il mondo. Il suo libro ‘Restiamo umani’ offre un’occhiata alla coraggiosa esperienza dell’uomo. Nella sua prima nota scriveva da attivista italiano. Alla fine era un palestinese assediato a Gaza.

Agli occhi di alcuni era un uomo pericoloso. Un sito web di estrema destra con sede negli Stati Uniti ne sollecitò l’uccisione. Non era Vittorio la persona che allarmava Israele, bensì l’idea simbolizzata da lui e da altri come lui: una sfida alla prevedibilità di un conflitto da un oppressore potente e un oppresso impotente ma non succube.  Per quanto riguardava Israele, un idealista di una cittadina dell’Italia settentrionale non aveva niente a che fare con Gaza, dove la gente è ingabbiata indefinitamente in una prigione all’aria aperta. Né Vittorio né altri attivisti internazionali dovevano disturbare l’esperimento disumano.

Tuttavia la storia di Vittorio ebbe una svolta inattesa. Nell’aprile del 2011 fu sequestrato e ucciso. I suoi assassini furono palestinesi di Gaza, comandati da un misterioso personaggio giordano le cui origini e i cui motivi restano non chiari. Fu una fine orribile e sconfortante di una storia che non avrebbe mai dovuto avere un così brutto epilogo.

C’è voluto molto tempo alla società palestinese per venire a patti con il fatto che gli assassini di Vittorio erano effettivamente di Gaza, mentre altri hanno gongolato trionfanti. I detrattori di Vittorio stavano conducendo una guerra mediatica per diffamare i palestinesi, gli attivisti internazionali e l’italiano apparentemente malconsigliato che riteneva che la gente comune potesse cambiare la storia.

Scrivendo sul Jewish Chronicle lo storico Geoffrey Alderman ha dichiarato: “Pochi eventi – nemmeno l’esecuzione di Osama bin Laden – mi hanno dato, nelle settimane recenti, un piacere più grande della notizia della morte del cosiddetto “attivista pacifista” Vittorio Arrigoni” (come citato da Harriet Sherwood il 18 maggio 2011 nella rubrica “Visto da Gerusalemme”). Anche se la Sherwood ha trovato ‘sconvolgente’ il commento, il piacere per l’uccisione di un attivista pacifista è del tutto coerente con gli incessanti sforzi israeliani di ‘scoraggiare’ gli attivisti internazionali dal mostrare solidarietà ai palestinesi. Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dalla frattura con il rivale Fatah nel 2007, è sembrato sincero nel suo tentativo di catturare gli assassini di Vittorio. Un’indagine ha puntato rapidamente a gruppi salafiti, Tawhid e Jihad, all’Esercito dell’Islam e ad altri. E’ seguita una caccia all’uomo che ha portato all’uccisione di un cittadino giordano, Abbad a-Rahman al-Brizat, e di un profugo palestinese, Balal al-Omari. Altri sono stati catturati e nel settembre del 2011 è iniziato un processo.

Il processo ai presunti assassini di vittorio non è stato esattamente un modello di trasparenza. Per il 4 settembre è prevista la pronuncia del verdetto contro i quattro accusati di essere implicati nell’omicidio. Al-Brizat, il giordano, era forse la chiave più importante del processo. E’ morto e le accuse che il suo vero scopo consistesse nello scambiare Vittorio con un leader salafita incarcerato, Hisham al-Saedni, restano non verificate. Solo undici giorni prima dell’omicidio di Vittorio, un altro attivista, Juliano Mer-Khamis, era stato ucciso a Jenin, nella West Bank. La tempistica delle uccisioni è sconcertante e suggerisce un complotto più vasto. Hamas e altri dirigenti palestinesi hanno suggerito che ci sia la mano di Israele in entrambe le vili azioni, ma il filo deve essere ancora identificato e sbrogliato.

In precedenza, in questo mese, Hamas ha liberato per mancanza di prove al-Maqdissi, l’uomo che i presunti jihadisti volevano liberare.  Alcuni giorni dopo l’uccisione dei soldati egiziani nel Sinai, [Hamas] ha operato un giro di vite sul suo gruppo. Il complotto qui comincia ad allargarsi oltre la capacità di una qualsiasi narrazione chiara di spiegare i fili mancanti.

Il 4 settembre quattro uomini attenderanno il verdetto di un tribunale militare di Gaza. Ma molto di più sarà sotto processo quel giorno, non ultima la credibilità del sistema legale di Gaza. Molte domande dovranno trovare risposta per capire veramente cosa sta succedendo nella Striscia di Gaza e chi sta dietro i piani segreti.

L’uccisione di Vittorio è stata mirata non solo a ucciderlo come persona. Ha inteso anche distruggere l’idea stessa che era salpata con lui e i suoi amici per Gaza nel 2008: che la gente comune è la storia e che essa, e soltanto essa, alla fine farà la differenza in un mondo governato meramente dall’interesse e dalla forza militare.

Sì, la giustizia per Vittorio Utopia Arrigoni è di primaria importanza, ma ci aspettiamo che il governo di Gaza stenda più che un semplice verdetto ma anche delle risposte a quelli che cercano di uccidere il sogno di Vittorio, assieme alla nostra umanità.

Ramzy Baroud (www.ramzybaroud.net) è un opinionista internazionale indipendente e direttore di PalestineChronicle.com. Il suo libro più recente è  ‘My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story’ (Pluto Press, London). [Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non narrata di Gaza].

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Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/arrigoni-s-murder-trial-in-gaza-answers-not-just-a-verdict-by-ramzy-baroud

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2012 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Approfondimento (madu)

Vittorio Arrigoni

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