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#OpIsrael2018 | Cyberattacco del 7 aprile: hackerati 1500 siti israeliani!

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“#OpIsrael2018: Operazione compiuta!” Come preannunciato il 4 aprile, nel video messaggio di Anonymous  , il cyberattacco ad Israele è stato portato a termine.

 

#Opisrael2018: “Giant’s-ps” ha hackerato 1.500 siti Web israeliani

Il gruppo pro palestinese Hacking Giant’s-ps ha hackerato oltre 1500 siti israeliani per # opisrael2018. #opisrael è un attacco informatico annuale anonimo contro Israele. Conosciuto anche come #OpSaveGaza.

Questo hacker ha oscurato oltre 1500 siti israeliani + trapelato oltre 1150 carte di credito e più informazioni personali dei cittadini israeliani tra cui e-mail, numero di telefono, nome, data di nascita e lavoro.

La maggior parte delle loro azioni di hacking sono state postate su Twitter e Facebook (twitter / giantsps)

Anche l’hacker Th3falcon (codificatore oscuro) ha deturpato 8+ siti Web israel in # Opisrael2018, oscurando anche alcuni siti web israeliani ufficiali.

Quest’anno è stato un attacco a sorpresa per Israele.

Gli ultimi 2 anni di opisrael non hanno avuto un gran successo, ma quest’anno l’azione ha avuto più successo del previsto.

(Qui troverai i 1500 links dei siti hackerati)”

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Fonte: CyberGuerrilla

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Palestina – Marwan Barghouti: “l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo della pace…”

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Marwan Barghouti in Israeli court. April 03, 2003. Photo by Flash90.

Marwan Barghouti in Israeli court. April 03, 2003. Photo by Flash90.

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Il primo giorno della pace tra Israele e Palestina nascerà soltanto quando il sole sarà tramontato sull’ultimo giorno dell’occupazione delle truppe di Tel Aviv. Dalla prigione di Hadarim, dove è stato incarcerato 11 anni fa, Marwan Barghouti, il più autorevole e amato dirigente politico della resistenza palestinese, scrive al quotidiano inglese  The Guardian. L’incendio che sta divampando in questi primi giorni d’autunno non nasce da qualche isolato e terribile episodio di violenza, come puntuale il circo mediatico tende a far credere. Ha la stessa ragione di esistenza di sempre: il progetto coloniale di Israele. Il fuoco potrà cessare davvero solo quando ai Palestinesi sarà concesso di affermare liberamente l’auto-determinazione e la dignità

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L’ultimo sarà il primo

di Marwan Barghouti

L’attuale escalation della violenza non ha avuto inizio con l’uccisione di due coloni israeliani, ma molto tempo fa, ed è andata avanti per molti anni. Ogni giorno i palestinesi vengono uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno avanza il colonialismo, continua l’assedio del nostro popolo a Gaza, persiste l’oppressione. Oggi molti ci vogliono sopraffatti dalle potenziali conseguenze di una nuova spirale di violenza, e come feci nel 2002, ne riassumo la causa radicale: la negazione della libertà per i palestinesi.

Alcuni hanno pensato che la ragione per cui un accordo di pace non si potesse raggiungere fosse la mancata volontà del presidente Arafat o l’incapacità del presidente Abbas, ma entrambi erano pronti e in grado di firmare un trattato di pace. Il problema vero è che Israele ha scelto l’occupazione sulla pace, ed ha usato i negoziati come una cortina fumogena per avanzare il progetto coloniale. Ogni governo in tutto il mondo conosce questo semplice fatto e tuttavia molti pretendono che tornare a ricette fallite del passato possa farci ottenere libertà e pace.

La follia ripete le stesse cose sempre di nuovo, ma ci si attendono risultati diversi. Non possono esserci negoziati senza il chiaro impegno di Israele di ritirarsi completamente dal Territorio palestinese occupato nel 1967, compresa Gerusalemme Est; della fine definitiva a tutte le politiche coloniali; del riconoscimento dei diritti inalienabili dei palestinesi, tra i quali il diritto all’autodeterminazione e al ritorno; e del rilascio di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo coesistere con l’occupazione, e non ci arrenderemo ad essa.

Ci hanno detto di essere pazienti, e lo siamo stati, dando molte possibilità per raggiungere la pace. Forse è utile rammentare al mondo che l’esproprio, l’esilio forzato e l’esodo, l’oppressione durano da quasi 70 anni. Siamo l’unica questione ancora aperta nell’agenda delle Nazioni Unite dalla sua fondazione. Ci è stato detto che facendo ricorso a mezzi pacifici e ai canali diplomatici avremmo guadagnato il sostegno della comunità internazionale per porre fine all’occupazione. E tuttavia, come nel 1999 al termine del periodo di transizione, quella comunità ha fallito ancora una volta a muovere i passi significativi, perché non ha imposto un quadro internazionale per implementare il diritto internazionale e rendere concrete le risoluzioni dell’Onu, né ha messo in piedi misure per stabilire le responsabilità, attraverso il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che hanno giocato un ruolo cruciale quando il mondo si è liberato dell’apartheid.

Così, in assenza dell’azione internazionale per porre fine all’occupazione israeliana e all’impunità e di fornire protezione, cosa ci viene chiesto di fare? Stare fermi e attendere che la prossima famiglia palestinese venga bruciata, che venga ucciso o arrestato il prossimo ragazzino palestinese, che venga costruito il prossimo insediamento? Il mondo intero sa che Gerusalemme è la fiamma che può ispirare la pace ed evitare la guerra. Perché allora il mondo resta immobile mentre gli attacchi di Israele contro il popolo palestinese nella città e nei luoghi sacri musulmani e cristiani, soprattutto ad Haram al-Sharif, continuano senza sosta? Gli atti e i crimini di Israele non solo distruggono la soluzione dei due stati sui confini del 1967 e violano il diritto internazionale, ma minacciano di trasformare un conflitto da risolvere con la politica in una infinita guerra religiosa che farà esplodere la stabilità in una regione che sta sperimentando disordini senza precedenti.

Nessun popolo nel globo accetterebbe di coesistere con l’oppressione. Per natura, gli esseri umani si battono per la libertà, lottano per la libertà, si sacrificano per la libertà e la libertà dei palestinesi è necessaria da tempo. Durante la prima Intifada, il governo israeliano lanciò una politica da “spezzare le ossa per spezzarne la volontà”, ma generazione dopo generazione il popolo palestinese ha dimostrato che la sua volontà non si spezza. Questa nuova generazione di palestinesi non ha atteso i colloqui per la riconciliazione per dare corpo all’unità nazionale che i partiti politici avevano fallito a ottenere, ma si è sollevata sulle divisioni politiche e la frammentazione geografica. Non ha atteso le istruzioni ad affermare i suoi diritti, e i suoi doveri, per resistere all’occupazione. Lo fa in modo disarmato, mentre si confronta con una delle potenze militari più grandi del mondo. E tuttavia, restiamo convinti che libertà e dignità trionferanno, e vinceremo. La bandiera che abbiamo sollevato con orgoglio all’Onu un giorno sventolerà sui muri della città vecchia di Gerusalemme per segnare la nostra indipendenza.

Ho combattuto per l’indipendenza della Palestina 40 anni fa, e fui incarcerato a 15 anni. Ciò non mi ha impedito di battermi per la pace in coerenza col diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu. Ma Israele, la potenza occupante, ha metodicamente distrutto questa prospettiva anno dopo anno. Ho passato venti anni della mia vita nelle galere israeliane, e questi anni mi hanno reso ancora più certo di questa verità indissolubile: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo della pace. Coloro che cercano quest’ultima, devono agire, e agire subito, per debellare la prima.

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Fonte: comune-info.net

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L’Italia non invii armi nelle zone di conflitto. Bisogna sospendere la fornitura di sistemi militari.

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Rete Disarmo: l’Italia non invii armi in Iraq e nelle zone di conflitto

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“I conflitti e le crisi umanitarie che da settimane stanno scuotendo diversi paesi del nord Africa e del Medio Oriente (Striscia di Gaza, Libia, Iraq, Siria ecc.) non si risolvono inviando armi, ma sospendendo le forniture di sistemi militari a tutte le parti in conflitto e costruendo con impegno soluzioni vere e condivise”. Lo afferma un  comunicato della Rete Italiana per il Disarmo che, anche in considerazione delle crescenti esportazioni dall’Italia di armamenti nella zona mediorientale, ricorda al Governo come la normativa nazionale ed europea vieti espressamente l’invio di sistemi militari verso i Paesi in stato di conflitto armato.

Se è certamente positivo il richiamo espresso dal ministro degli Esteri, Federica Mogherini, affinché l’Unione europea adotti una posizione comune sulle varie crisi in atto in Medio Oriente e che la Farnesina abbia stanziato nei giorni scorsi 1 milione di euro alle organizzazioni umanitarie dell’Onu per attività di prima assistenza degli sfollati nel nord dell’Iraq, è invece quanto mai preoccupante che la titolare della Farnesina abbia comunicato che l’Italia sta valutando “forme di sostegno dell’azione anche militare del governo del Kurdistan iracheno”, non escluso l’invio di armi e di sistemi militari.

Rete Disarmo ricorda che la normativa italiana (la legge n.185 del 1990) vieta espressamente l’esportazione di materiali di armamentoverso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere” (art. 1 c. 6). Proprio per questo Rete Disarmo chiede al Governo di riferire al più presto in Parlamento su questa materia anche in considerazione delle conclusioni espresse ieri dal Comitato Politico e di Sicurezza dell’Unione europea (qui in .pdf) e del meeting straordinario del Consiglio degli Affari Esteri di venerdì 15 agosto.

“E’ necessario un intervento dell’ONU molto più ampio, e di ognuno tra Ong e istituzioni che abbia la possibilità di raggiungere queste persone, prima di assistere all’ennesima catastrofe umanitaria, che purtroppo non interessa soltanto l’area di Sinjar e il confine con la Siria” – ha sottolineato in una nota “Un Ponte per” l’organizzazione membra di Rete Disarmo da anni impegnata per il supporto delle popolazioni irachene.

L’urgenza di creare corridoi umanitari per soccorre le popolazioni nel nord dell’Iraq, in particolare cristiani e yazidi perseguitati dai combattenti dello Stato Islamico (ISIS), non può giustificare un sostegno militare alle milizie curde Peshmerga o raid aerei su aree popolateCome richiamato dagli organismi dell’Onu, la “responsabilità di proteggere” (Responsibility to protect) le popolazioni dal pericolo di massacri non ricade solamente sul governo iracheno, ma sull’intera comunità internazionale. L’Unione europea non può continuare a delegare questa responsabilità ad altri, ma deve cominciare lavorare seriamente per predisporre unità di pronto intervento e di interposizione razionalizzando l’impiego delle proprie forze armate nazionali.

Se 28 eserciti nazionali non sono in grado di fornire unità di pronto intervento per proteggere delle popolazioni inermi che rischiano di essere sterminate c’è da chiedersi quale ne sia l’utilità: delegare l’intervento militare a milizie composte da gruppi che, per quanto integrati in eserciti regolari perseguono anche proprie finalità politiche, può essere rischioso e controproducente” sottolinea Francesco Vignarca coordinatore di Rete Disarmo.

Rete Disarmo rinnova inoltre la richiesta al governo italiano di sospendere l’invio di tutti i sistemi militari ad Israele. Durante la riunione straordinaria dello scorso 23 luglio, il Consiglio  per i diritti umani dell’Onu si è espresso a favore di un’indagine su possibili violazioni del diritto umanitario nel conflitto nella Striscia di Gaza: fino a quando non si avranno i risultati dell’indagine l’Italia deve astenersi dal fornire sistemi militari a Israele e sospendere le esercitazioni militari congiunte previste in Sardegna per il prossimo autunno.

In proposito va segnalato che la Spagna ha già deciso di sospendere in via cautelare l’invio di armi e il Regno Unito, dopo aver reso nota una revisione delle proprie esportazioni militari per le forze armate israeliane, ha dichiarato un possibile blocco di una dozzina di licenze di esportazione di materiali militari impiegati da Israele nel conflitto a Gaza. L’Italia, invece, che è il maggior fornitore nell’Ue di sistemi militari a Israele, non solo non ha annunciato alcuna restrizione, ma il Ministero degli Esteri ha eluso la questione dichiarando in Parlamento che “l’Italia non fornisce ad Israele sistemi d’arma di natura offensiva”.

“Tutta la materia delle autorizzazioni all’esportazione di sistemi militari necessita invece di un approfondito controllo parlamentare che manca ormai da oltre un lustro” – sostiene Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio OPAL di Brescia. “Nel frattempo la normativa nazionale è stata ampiamente modificata e la relazione che Presidenza del Consiglio invia annualmente alle Camere ha subito pesanti modifiche. Ma soprattutto le forniture di sistemi militari italiani sono sempre più indirizzate verso le zone di forte tensione del Medio Oriente e del nord Africa. E’ perciò quanto mai necessario e urgente che le competenti commissioni del parlamento riprendano il controllo dell’attività del Governo in questa materia che riguarda direttamente la politica estera e di difesa del nostro paese”.

“Mentre da alcune parti anche del mondo cattolico si auspicano maggiori forniture di armi nella regione ci chiediamo come si possa pensare di portare pace inviando armi – dice don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia. Credo che chi sostiene l’invio di armi sia più interessato ai ritorni commerciali che non alle vittime del conflitto. In un’audizione alla Camera dei Deputati a Roma, il 19 gennaio 2011, il Vescovo ausiliare di Baghdad aveva lanciato un appello già allora con toni disperati, con una richiesta specifica: non inviate armi. Sono passati diversi anni, non vogliamo che quell’appello continui ad essere inascoltato”. [GB]

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Fonte: Unimondo.org

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