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Enel, sotto processo ci sei tu! Rispondi dei danni sanitari e ambientali di cui sei responsabile

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Facciamo luce su Enel e lo facciamo in tutti i modi. Anche con un flashmob. Ieri in tutta Italia, da Nord a Sud, centinaia di attivisti hanno protestato davanti a luoghi istituzionali e simbolici della giustizia con il messaggio: “Enel, sotto processo ci sei tu!”. Vogliamo che Enel risponda dei danni sanitari e ambientali di cui è responsabile, a causa dell’utilizzo del carbone.

Domani gli appuntamenti giudiziari che coinvolgono Enel sono due. Il primo vede imputati venticinque dei nostri attivisti per l’azione del 13 dicembre 2006 in cui fu occupata per tre giorni la centrale di Porto Tolle, nel Parco del Delta del Po. Enel vorrebbe convertirla a carbone nonostante la presenza, proprio davanti all’impianto, del più grande terminal gasiero offshore del mondo. Il secondo seconda riguarda la decisione che prenderà il Consiglio di Stato sulla necessità o meno di rifare da capo la Valutazione di Impatto Ambientale per la conversione a carbone di quella stessa centrale.

Noi pensiamo che sotto processo dovrebbe esserci chi distrugge il clima e l’ambiente, non chi lo difende.

Enel è già stata condannata per la centrale di Porto Tolle. Un processo penale, conclusosi in Cassazione il 27 aprile 2011, ha accertato i reati di violazione della normativa sull’inquinamento atmosferico e danneggiamento aggravato in relazione al funzionamento a olio combustibile dell’impianto. Sempre per quella centrale, amministratori delegati e dirigenti di Enel sono stati rinviati a giudizio per non aver applicato le dovute tecnologie di abbattimento dell’inquinamento. Uno studio epidemiologico dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano ha dimostrato il significativo impatto delle emissioni della centrale sull’aumento delle malattie respiratorie nella popolazione minorile residente nei comuni a essa circostanti.

Perché Enel vuole continuare a investire nel carbone, la fonte energetica più dannosa e sporca, mentre tutto il mondo investe sulle fonti rinnovabili? Deve cambiare. Anche perché il 30 per cento dell’azienda è ancora controllato dallo Stato. E lo Stato non può essere complice di chi distrugge il clima e avvelena la popolazione.

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Fonte: Greenpeace

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Ecuador, sentenza storica contro Chevron

L’Amazzonia e i suoi abitanti vittime dell’inquinamento sfrenato prodotto dalla multinazionale del petrolio saranno risarciti a suon di milioni.

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di Stella Spinelli

La giustizia ecuadoriana ha condannato lunedì la Chevron a pagare una multa milionaria per i danni ambientali provocati all’Amazzonia ecuadoriana durante tredici anni di trivellazioni a opera della Texaco, compagnia che la multinazionale Usa ha acquisito nel 2001. Una sentenza storica, che ripagherà di anni di sofferenze e malattie, lotte e speranze le tante famiglie colpite da questo disastro. Scarti di petrolio mischiati a velenosi agenti chimici lasciati in pozzi a cielo aperto sono filtrati nel terreno, impregnandolo, distruggendo coltivazioni e contaminando la vita di tanta gente. Che si è ammalata ed è morta per le conseguenze riportate.

Il giudice che ha emesso la sentenza, Nicolás Zambrano, ha dichiarato che la compagnia petrolifera dovrà versare 8.646 milioni di dollari per danni ecologici, più un dieci percento per i danni provocati alle comunità colpite. Una cifra che il battagliero avvocato Pablo Fajardo, l’uomo cresciuto con i piedi nelle pozze nere di Sucumbíos, laureatosi in legge solo per farla pagare alla Texaco e grazie al supporto morale ed economico della comunità vittima della multinazionale, ha definito “irrisoria, ma significativa“, visto che la difesa aveva richiesto ben 27 miliardi di dollari. “Abbiamo combattuto giuridicamente per ottenere che l’impresa Chevron, prima Texaco, risponda del suo crimine e paghi per riparare il danno ambientale provocato. È chiaro che si tratta di una somma insignificante rispetto al reale crimine commesso, un crimine ambientale sì, ma anche culturale e umano. Resta comunque il fatto che siamo di fronte a un vero passo avanti verso il trionfo della giustizia”.  (leggi tutto)

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Fonte: PeaceReporter

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La Shell nel Delta del Niger: petrolio e diritti rubati

“Le società straniere promettono milioni di dollari in progetti di sviluppo locale, ma spesso alle comunità non arriva nulla” dice padre Edward Obi, un missionario che dirige il Center for Social and Corporate Responsibility (CCSR).

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A Koroama manca l’acqua da sei mesi. “Prima hanno dragato il fiume, poi hanno cominciato a bruciare il gas” racconta Kingsay Kwokwo, un capo villaggio che alla ‘responsabilità sociale’ delle multinazionali del petrolio non crede più.
In quest’angolo del Delta del Niger, nello Stato di Bayelsa sotto il tacco della Royal Dutch Shell, la MISNA è accompagnata da un piccolo gruppo di difensori dei diritti umani. “Le società straniere promettono milioni di dollari in progetti di sviluppo locale, ma spesso alle comunità non arriva nulla” dice padre Edward Obi, un missionario che dirige il Center for Social and Corporate Responsibility (CCSR).


L’ultima conferma arriva dalla regione di Gbaran-Ubie, dove a giugno è stato inaugurato un impianto “integrato” per il petrolio e il gas naturale. L’opera è una delle più significative tra quelle realizzate da Shell, alla conquista del Delta dal 1936. A pieno regime l’anno prossimo sarà in grado di produrre un miliardo di metri cubi di metano al giorno, circa un quarto dell’intera produzione nigeriana. Gli idrocarburi sono raffinati sul posto prima di essere inviati a Bonny Island, un terminale noto alle cronache per le tangenti milionarie versate a politici e funzionari da società nordamericane ed europee. A Koroama, invece, resta la rabbia. Il villaggio è sventrato da due oleodotti nonostante la loro costruzione fosse vietata da uno studio di sostenibilità ambientale effettuato dal governo nigeriano nel 2005. (leggi tutto)

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Fonte: Salva le Foreste

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Approfondimento:

Shell

Rapporto sui crimini ambientali in Nigeria e Ken Saro-Wiwa

Wikileaks: Shell “Infiltrated” Nigerian Government

Boicotta Shell

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