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La fabbrica del Bangladesh e il terrorismo delle multinazionali

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Bangladesh Factory Fire

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di Paula Chakravartty e Stephanie Luce – 3 maggio 2013

Com’è che attribuiamo a certi atti di violenza la qualifica di terrorismo globale mentre altri sono relegati alla categoria più banale della violenza ordinaria? I fratelli Tsarnaev sono immediatamente classificati terroristi, e terroristi mussulmani, quanto a questo, con una frenesia nazionale e dei media sociali a sezionare i loro crimini promossa dallo spettacolo dal vivo della “caccia all’uomo” di Boston.

Tuttavia nella stessa settimana un’esplosione in una fattoria di fertilizzanti ha ucciso quattordici persone e causato danni enormi in una cittadina del Texas occidentale, con scarsa attenzione mediatica. Le Bombe di Boston sono state atti deliberati di terrorismo commessi da delinquenti che hanno preso di mira innocenti; l’esplosione del Texas, pur tragica, è stata considerata accidentale – anziché una conseguenza della regolamentazione dell’industria e degli standard di sicurezza – e perciò agevolmente dimenticata.

L’orrendo incendio di una fabbrica, avvenuto il 24 aprile fuori Dhaka, in Bangladesh, che ha ucciso più di 400 persone, prevalentemente donne mussulmane, e ferito altre mille potrebbe plausibilmente essere interpretato come un esempio di una rete globale di violenza.

L’edificio di otto piani del Rana Plaza, dove si è scatenato l’incendio, ospitava una molteplicità di aziende, tra cui una banca e cinque fabbriche di abbigliamento che impiegavano 3.122 lavoratori di sartoria. I lavoratori avevano notato il 23 aprile una grande fessura nell’edificio, che è crollato il giorno successivo. La polizia aveva ordinato che fosse evacuato e la banca al secondo piano aveva detto ai suoi dipendenti di non presentarsi il giorno successivo.

Tuttavia le fabbriche di abbigliamento avevano deciso di restare in attività e la conseguenza è stata l’insensata e prevedibile tragedia. Si è trattato solo del più recente di una serie di incendi nelle fabbriche e di edifici crollati in Bangladesh che dal 2005 hanno ucciso più di 900 lavoratori e ne hanno ferito migliaia di altri.

Di chi la colpa?

I grandi dettaglianti negli Stati Uniti e in Europa hanno additato i subappaltatori del Bangladesh come responsabili di questi “tragici incidenti”. Ma non c’è nulla di accidentale in questi troppo comuni atti di terrorismo contro lavoratori, e nel comportamento di società come Walmart, The Gap, H&M e centinaia di altre, che si sono rifiutate di affrontare le fondamentali esigenze di sicurezza dei lavoratori nell’industria dell’abbigliamento in Bangladesh.

L’incendio al Rana Plaza ha portato nelle strade a esigere giustizia migliaia di lavoratori, le loro famiglie e i loro sostenitori. Una coalizione di ONG e organizzatori di lavoratori hanno chiesto alle multinazionali di aderire a un programma che crei comitati indipendenti di controllo e di sicurezza nelle fabbriche e che si occupi di alcune delle strategie fondamentali di prevenzione degli incendi.

Sin qui solo due società (Phillips van Heusen, che rappresenta marchi come Calvin Klein e Tommy Hilfiger e la società tedesca Tchibo) vi hanno aderito, mentre la maggioranza si è rifiutata. Società come la Walmart si sottraggono a qualsiasi tentativo dei lavoratori di aver voce nel garantirsi la sicurezza nel luogo di lavoro in Bangladesh, sviando le critiche mediante la promessa di autoregolamentazione e investendo in atti di beneficienza finalizzati alla propaganda.

Il Bangladesh è il secondo maggior produttore di abbigliamento di un’industria globale da un trilione di dollari, spremendo profitti dai lavoratori che assemblano secondo i dettati della rincorsa alla moda del momento in condizioni pericolose e a velocità sbalorditiva. Un rapporto ha rilevato che i lavoratori dovevano cucire un paio di jeans ‘Faded Glory’ per la Walmart ogni sei minuti, a volte sino a 12 ore al giorno.

Potenti dettaglianti e marchi multinazionali arrivano in Bangladesh pretendendo il prezzo più basso possibile, costringendo i produttori locali a tagliare i costi della manutenzione degli edifici, della sicurezza e dei salari.

Dove stanno le opportunità e i vantaggi della globalizzazione per i lavoratori che stanno alla base della piramide? Negli anni ’80 il governo del Bangladesh fu spinto a concentrarsi sulle esportazioni, promuovendo la sua abbondanza di manodopera a basso costo e il suo “vantaggio competitivo” sia in patria, nell’industria tessile, sia all’estero dalle rimesse dei lavoratori che vivevano oltre confine.

L’industria tessile è stata a lungo una parte prevalente dell’economia in gran parte dell’Asia Meridionale e con l’indipendenza dal Pakistan nel 1972 il Bangladesh ha nazionalizzato le sue grandi fabbriche tessili. La privatizzazione dell’industria è iniziata negli anni ’80 ed è stata accelerata dopo 1986, quando il governo ha aderito alle politiche di aggiustamento strutturale del FMI.

Nonostante il suo perseguimento del “libero mercato”, l’aggiustamento strutturale dell’economia del Bangladesh ha implicato una mano pesante dello stato nel promuovere e sostenere l’industria dell’abbigliamento in serie (RMG) assieme a duri interventi contro i tentativi di sindacalizzazione dei lavoratori.

Crescita dell’industria dell’abbigliamento

Gli ultimi tre decenni hanno visto un’esplosione della crescita dell’industria del RMG che oggi rappresenta quasi l’ottanta per cento delle esportazioni totali della nazione. I salari notoriamente bassi di questa industria sono rimasti virtualmente stagnanti, rendendo il Bangladesh “competitivo” rispetto a Cina, India, Cambogia, El Salvador e virtualmente tutti gli altri esportatori di abbigliamento che hanno visto crescere le paghe nel settore.

Questa manifestazione della corsa al ribasso contribuisce direttamente ad accrescere i tassi di disuguaglianza nella società del Bangladesh e al crescente numero dei poveri tra i lavoratori. In altre parole, mentre la produzione di abbigliamento ha portato a un’impressionante crescita del PIL complessivo del paese, i profitti dell’industria finiscono principalmente nelle casse dei dettaglianti e dei marchi in Europa e negli USA e, in misura minore, nelle tasche degli intermediari e dei proprietari delle fabbriche del Bangladesh. Il governo ha scarsi incentivi a turbare questa comodo relazione, visto che l’industria conta così tanto nella sua economia.

La maggior parte della produzione ha luogo in zone di lavorazione riservate all’esportazione dove le società sono esenti dal rispetto di molte leggi elementari, e pagano poche tasse. Con una limitata base fiscale il governo ha poche risorse che creare i propri uffici del lavoro e altri meccanismi di controllo del rispetto delle norme. Alcuni negli USA hanno sollecitato un boicottaggio o un bando all’abbigliamento prodotto in Bangladesh, ma ciò non farebbe che esacerbare il problema e danneggiare i lavoratori.

In questo Primo Maggio potremmo voler tornare alle analogie tra gli atti di violenza all’esterno di Dhaka e a Boston, entrambi gli eventi conseguenza di insensati bagni di sangue di vittime innocenti. Mentre possiamo discutere di come prevenire tragedie come l’attentato alla maratona di Boston, è abbondantemente chiaro che l’imposizione di standard di sicurezza e regole di base aiuterebbe a prevenire l’assoluta dimensione del terrore e della violenza scatenata ancora una volta in Bangladesh.

Il Forum Internazionale sui Diritti del Lavoro (ILRF), il Consorzio per i Diritti dei Lavoratori (WRC) e la campagna per i Salari Minimi in Asia stanno attuando sforzi per chiedere responsabilità in Bangladesh.

Costerebbe solo una piccola frazione dei profitti che questa industria globale sottrae aggressivamente. La Walmart, ad esempio, dovrebbe pagare 500.000 dollari l’anno per due anni per finanziare il programma ILRF, cioè circa il 2% dello stipendio del suo Direttore Generale nel 2012.

Il WRC stima che il programma per la sicurezza dell’ILRF costerebbe solo circa dieci centesimi per capo d’abbigliamento se il costo fosse distribuito su tutte le esportazioni del paese; una piccola somma per le industrie multinazionali o anche per i consumatori occidentali, che si avvantaggiano della violenza imposta da un modello economico che promuove i profitti piuttosto che la vita umana.

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Paula Chakravartty è docente associato di comunicazioni presso l’Università del Massachusetts – Amherst.

Stephanie Luce è docente associato di studi sindacali al Murphy Institute, Università della Città di New York.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/bangladesh-factory-and-corporate-terror-by-paula-chakravartty

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Dateci i vostri soldi

NewCapitalism

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di Serge Halimi

Le potenze emergenti di oggi non sono successori degni dei loro antenati anticolonialisti e anti-imperialisti. I paesi del Sud controllano una quota crescente della ricchezza, il che è semplicemente giusto, ma la sua distribuzione è così iniqua che le differenze di reddito sono persino più grandi in Sudafrica e in Cina che negli Stati Uniti. I soldi sono spesi più spesso per acquistare importanti attività e beni di lussi occidentali che per migliorare le condizioni di vita e di salute dei popoli indiani, cinesi, arabi o africani.

E’ un ritorno all’epoca dei baroni della rapina. Alla fine del diciannovesimo secolo emersero negli Stati Uniti dinastie industriali potenti e famigeratamente rapaci, comprese quelle di John D. Rockefeller, J.P.Morgan e Cornelius Vanderbilt, che gradualmente subentrarono alle vecchie famiglie europee nel petrolio, nei trasporti e nelle banche. Questi concorrenti transatlantici miravano inizialmente ciascuno alla gola dell’altro, ma gradualmente unirono le forze, sfruttando i lavoratori di tutto il mondo, arricchendo sfarzosamente i propri azionisti e esaurendo le risorse della Terra.

I governanti degli stati del Golfo e gli oligarchi cinesi, indiani e russi ora sognano di subentrare, unendo le forze, allo stesso modo. Come i tycoon statunitensi, amano dare lezioni agli altri. Il miliardario indiano Lakshmi Mittal, quando richiesto di un parere a proposito del frettoloso abbandono, da parte della Francia, del piano di nazionalizzazione di uno dei suoi siti industriali nella Lorena, ha affermato che avrebbe costituito un “grande salto all’indietro” e ha ammonito che “un investitore potrebbe ben pensarci due volte prima di mettere i suoi soldi in Francia” [1]. E il primo ministro russo ha commentato così un aumento francese delle tasse: “Ogni cittadino russo, da quelli con redditi bassi ai super-ricchi, paga una tassa del 13% …’Gli oligarchi dovrebbero pagare di più’, ci viene detto. Ma noi non vogliamo che il capitale fugga dal paese e nel sistema finanziario ombra” [2]. Anche la Cina difende le dottrine favorevoli al mercato e il suo presidente è stato apertamente sollevato quando la destra ha vinto le elezioni greche a giugno; il capo del principale fondo sovrano cinese, con azioni della GDF Suez, ha ferocemente criticato le “obsolete leggi sociali” dell’Europa che “incoraggiano la pigrizia e l’indolenza, anziché il duro lavoro. [3]

Lo storico britannico Perry Anderson ricorda che al Congresso di Vienna del 1815, la Francia, la Gran Bretagna, la Russia, l’Austria e la Prussia fondarono la Concertazione Europea per prevenire la guerra e reprimere la rivoluzione. Suggerisce che l’ordine mondiale sia oggi governato da un’altra, informale pentarchia: gli Stati Uniti, la UE, la Russia, la Cina e l’India. Questa Santa Alleanza conservatrice di potenze concorrenti e complici sogna la stabilità, ma il mondo sta creando garanzie che ci saranno altre rivolte economiche, che genereranno rivolte sociale indipendentemente dalle intenzioni dell’alleanza.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

Fonte: http://www.zcommunications.org/give-us-your-money-by-serge-halimi

Originale: Le Monde Diplomatique

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traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 


Giornalisti. Storie allucinanti che nessuno ha mai raccontato

Qualcuno ha parlato, ma ha chiesto di rimanere anonimo. Qualcun altro ha scelto di firmare, ma non se la sente di rifiutare il lavoro sottopagato perché ha bisogno di soldi. Tutti hanno paura. Disponibili pure a Natale, per pochi spiccioli, ma senza diritti e dignità. Queste storie sono una prima breccia nel muro di silenzio. I giornalisti umiliati e sfruttati non devono sentirsi isolati. Non è un problema personale, ma collettivo. Il primo passo è immaginarsi come categoria.

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In questa bacheca ci sono le storie di chi ha deciso di dire `basta` allo sfruttamento dentro e fuori le redazioni giornalistiche. Le storie non corrispondono alle adesioni della campagna perche` ci sono giornalisti che hanno deciso di inviare una testimonianza pur non sentendosi pronti a rifiutare il lavoro sottopagato. E viceversa c`è chi ha aderito senza inviare testimonianze. Alcune le pubblichiamo anonime, garantendo la riservatezza alle nostre fonti. A queste persone va tutto il nostro sostegno. A chi si espone e a chi non vuole dire il suo nome.

I giornalisti italiani hanno paura. Temono gli altri colleghi e l`editore, temono il sindacato che non li tutela. Hanno subito ricatti e intimidazioni all`interno delle redazioni perchè chiedono un lavoro dignitoso. Hanno motivo di credere che potrebbero perdere il poco ottenuto, cioè l`elemosina dei pochi euro a pezzo. Spesso i più timorosi non sono giovani alle prime armi, ma professionisti con dieci anni di esperienza alle spalle e le agendine piene di contatti che servono come il pane al datore di lavoro che li sfrutta. Ecco la verità nascosta dell`informazione italiana. I giornalisti precari e freelance sono minacciati dalle redazioni con cui collaborano nel momento in cui chiedono dignitose condizioni di lavoro. E` lo scandalo e la vergogna dell`informazione italiana.

Speriamo che questo racconto possa servire da traino per altri colleghi che vogliano raccontare la loro storia, da sostegno per chi subisce lo sfruttamento del lavoro intellettuale e si sente isolato, per i giovani che si affacciano ora al mestiere e per gli studenti delle scuole di giornalismo, perché capiscano che se accettano di lavorare gratis anche all`inizio si stanno bruciando il futuro con le loro stesse mani.

Non da ultimo, ma come prima cosa, ci rivolgiamo ai lettori italiani perchè chiedano a gran voce che l`informazione che consumano non sia prodotta sfruttando gli schiavi della notizia. Se la prima agenzia di stampa italiana, l`Ansa, si basa sul lavoro sottopagato, come saranno le realtà più piccole?

Le testimonianze dei giornalisti. (leggi tutto)

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Fonte:  terrelibere.org

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