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il Libro: “Lavorare manca” – Risurrezione operaia

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Lavorare manca

La crisi vista dal basso

di Gabriele Polo, Giovanna Boursier

Ha appena compiuto il primo anno di vita la Cooperativa Ri-Maflow. Un caso, non l’unico, di risurrezione operaia che avvicina l’Italia all’Argentina dei cazerolados e delle fabbriche “recuperate” dagli ex dipendenti. Un estratto del libro “Lavorare manca” di Gabriele Polo e Giovanna Boursier, appena uscito per Einaudi

Televisori, computer, telefoni, stampanti, frigoriferi, cucine, macchine da scrivere, lavatrici, ventilatori e decine d’altre cose, una micro-esposizione della società dei consumi di massa sistemata un po’ alla rinfusa nel primo di quattro capannoni che erano una fabbrica e oggi sono un esperimento, una prova di resistenza in vita. A Trezzano sul Naviglio, cintura sud ovest di Milano, appena oltre la tangenziale. Zona di industrie meccaniche e chimiche ridotte a un lungo elenco di crisi, dismissioni e chiusure. Quella della Maflow non è finita come le altre, ha avuto un dopo, non si è voluta rassegnare a sopravvivere di cassa integrazione o nell’attesa di un nuovo padrone. Quando quelli vecchi se ne sono andati, i dipendenti hanno provato a resistere, sono saliti sui tetti e bloccato il cancello, hanno occupato la palazzina, la stazione centrale di Milano e assediato il Pirellone. Poi, non potendo portare indietro il tempo si sono inventati un futuro, ma senza abbandonare la loro fabbrica. O, almeno, ci stanno provando.

Raccolgono l’usato elettrico, elettronico e domestico, ricevono le “cose vecchie” dalle famiglie e i fondi di magazzino dalle imprese della zona; poi dividono il tutto tra riciclo e riuso, aggiustano, smontano e rimontano pescando nel loro mestiere e con qualche attrezzo della gestione precedente danno un nuovo valore alle proprie storie, professioni, saperi: di tre computer vecchi se ne fa uno nuovo, da una lavatrice si può riprendere un motore, quel che non si può riparare viene sezionato tra smaltimento e riciclaggio. E poi venduto. Come i fagioli o le mele dei “gas (gruppi d’acquisto solidale) che hanno il magazzino dove prima c’erano l’infermeria e la saletta sindacale: lì arrivano ortaggi, frutta e legumi da una dozzina di aziende agricole del vicino Parco agricolo Milano sud, associate in questa rete commerciale che si vuole alternativa a quelle prevalenti perché ecologica e conveniente. Industria e agricoltura si mescolano in 14.000 metri quadrati di capannoni e nessuno può dire che l’una sia il passato e l’altra il futuro. Quel che di certo resta alle spalle è la storia di una fabbrica uccisa dalla finanza e poi resuscitata a nuova – e altra – vita dall’ostinazione creatrice dei suoi operai.

Fondata a Milano da Giorgio Sommaviva e dall’ingegner Marchetti nel 1973 come Murray per vent’anni produce componenti d’automobile soprattutto per le case americane; poi cambia proprietà ed è Manuli, cresce, diventa una multinazionale a capitale e direzione italiani con 23 stabilimenti e 3.700 dipendenti nel mondo, arriva ad avere il 28% del mercato europeo progettando e producendo soprattutto tubi in gomma per climatizzatori e altre componenti d’automobili. A Trezzano lavorano 320 persone, forniscono soprattutto la Bmw, auto di fascia alta, quasi di lusso, prodotti di qualità che assicurano commesse, lavoro e profitti a una gestione che fino al 2004 rimane prevalentemente industriale. Poi cambia tutto, la Manuli scorpora il proprio ramo d’azienda automotive, nasce la Maflow Spa che viene venduta per 140 milioni di euro al fondo Italian Lifestyle Partner controllato da Mario De Benedetti e Stefano Cassina. I finanzieri acquistano anche senza averne le possibilità né le capacità, mettono la fabbrica “a debito”, nell’arco di due anni inguaiano il gruppo per 300 milioni investendo in titoli di ogni tipo e riversando le perdite sulla Maflow che, nonostante produca a pieno ritmo, nel maggio 2009 viene dichiarata insolvente dal tribunale di Milano. A luglio l’azienda finisce in amministrazione controllata e la Bmw ritira le sue commesse, inizia una lunga crisi preludio del fallimento. (…)

Contestualmente all’arrivo del fondo di De Benedetti e Cassina terreno e capannoni vengono venduti a Unicredit: la Maflow da proprietaria del sito diventa “inquilina” pagando un affitto superiore alla rata del mutuo concesso dalla stessa banca che ora possiede area e stabilimenti. L’interesse di Unicredit per la fabbrica non ha nulla di manifatturiero ma la banca pensa di fare un buon affare immaginando una prossima dismissione e un cambio di destinazione d’uso del terreno da industriale a sede commerciale o d’edilizia civile: lo schema che a partire dagli anni ’80 ha accompagnato – perfino stimolato – la deindustrializzazione italiana e soprattutto lombarda, decuplicando il valore dei terreni e gonfiando lo stato patrimoniale dei bilanci; poco importa se in questo nuovo consumo del territorio centri commerciali e appartamenti restano semivuoti e si formano le bolle immobiliari. Così quando la Maflow viene messa in liquidazione e i lavoratori in cassa integrazione, la ricerca di un acquirente deve fare i conti con una fabbrica divisa a metà: terreno e mura sono di una banca interessata alle dismissione definitiva, macchinari e dipendenti sono in gestione del commissario liquidatore che dovrebbe cercare un imprenditore che voglia far ripartire la produzione.

Ci vogliono diciotto mesi, due aste e decine di mobilitazioni operaie per trovare una soluzione. Che tale non è. Il gruppo Boryszew – che si autodefinisce “la perla dell’economia polacca”, 90 stabilimenti sparsi nel mondo – compera macchinari e marchio, affitta terreno e capannoni da Unicredit, acquisisce le commesse rimaste sperando di recuperare quelle della Bwm, ma è disposto ad assumere solo 80 dei 320 dipendenti di Trezzano. Prendere o lasciare.

In assenza d’alternative, sindacati e politici italiani prendono, anche se la maggior parte dei lavoratori per rientrare in fabbrica può sperare solo in un’improbabile ripresa produttiva e per questo continuano a mobilitarsi, persino a premere sulla Bmw perché ridia le sue commesse al nuovo padrone polacco. Al quale, però, interessa soprattutto portarsi a casa un “Oem superiore”, l’Original equipment manufacturer (produttore di apparecchiature originali), il marchio di qualità che la Maflow porta con sé e poi dirottare nelle sue fabbriche polacche gli ordini della casa automobilistica di Monaco di Baviera. Dopo due anni di attività quasi inesistente, scaduti i termini con cui la legge Prodi bis vincola chi acquista fabbriche in fallimento, i polacchi annunciano la chiusura della Maflow. Alla vigilia di Natale del 2012 Boryszew manda a Trezzano i tir per smontare e traslocare i macchinari. Un gruppo di lavoratori, in gran parte quelli già messi da parte dai polacchi, occupano la palazzina e bloccano l’entrata. La proprietà minaccia di far saltare l’accordo sindacale sulla buonuscita promessa agli 80 dipendenti rimasti perché accettino la chiusura dello stabilimento senza fare storie. Inizia un braccio di ferro che si conclude con una nuova mediazione: la Maflow non esiste più, le macchine escono e tutti vengono messi in mobilità, le buonuscita sono salve; gli altri lavoratori – quelli che erano già fuori e che non vogliono mollare – restano nella palazzina occupata a coltivare la loro nuova idea, un progetto di recupero industriale gestito da una loro cooperativa. In attesa che si risolva il contenzioso tra Boryszew e Unicredit sugli arretrati d’affitto non pagati e, quindi, sul futuro di terreno e immobili. (…)

Il primo marzo 2013 nasce la Cooperativa Ri-Maflow. 17 soci – senza scaramanzia – che spiegano: “Ri, per tutte le cose belle che vogliamo rappresentare, Ri-nascita, Ri-uso, Ri-ciclo, Ri-appropriazione, Ri-volta (il debito), Ri-voluzione”. Non è l’unico caso di resurrezione operaia, sparse per la Penisola ce ne sono altre, non molte e piccole, tutte nate dalla e nella crisi che ha fatto saltare le precedenti proprietà e avvicinato l’Italia all’Argentina dei cazerolados e delle fabbriche “recuperate” dagli ex dipendenti: i cantieri Magàride a Napoli, le fonderie Zen e la Modelleria D&C a Padova, l’Industria plastica toscana a Firenze, le ceramiche Cesama a Catania. Poche altre.

A Trezzano sul Naviglio nell’ex palazzina c’è la direzione e la sala riunioni della Cooperativa, una piccola cucina, la stanza con le brandine per due migranti profughi dalla Libia che qui hanno trovato accoglienza e lavoro, un ufficio per organizzare le attività industriali e commerciali, compilare i moduli 730 per i pensionati del paese. Sui restanti 30.000 metri quadrati i quattro capannoni per riciclare, aggiustare, riutilizzare, smaltire prodotti industriali, raccogliere e distribuire quelli agricoli. E tanto spazio ancora vuoto – per convegni, mercatini, feste e assemblee di altre fabbriche in crisi – tra un bel po’ di manufatti per le Bmw rimasti qui dal fallimento e ora proprietà dei liquidatori.

Insieme alla cooperativa nasce l’associazione – Occupy Maflow – che gestisce le attività commerciali e ha definito una sorta di comodato d’uso con la cooperativa per gli spazi occupati e garantisce un rimborso spese mensile ai soci della Ri-Maflow. Che percepiscono ancora l’assegno di mobilità, come i loro ex compagni di fabbrica, a cavallo tra il certo e l’incognito, sul sottile filo che separa la legge dalla terra di nessuno ancora non normata; in bilico tra l’occupazione di una proprietà privata e le incertezze di un contenzioso immobiliare tra la Virum – immobiliare di Unicredit – e la polacca Boryszew: se quest’”idea di futuro” funzionerà cresceranno lavoro e occupati, la cooperativa potrà iniziare a distribuire reddito. Ricominciare davvero. Pragmatismo economico e ideologia politica camminano insieme, un po’ come alla fine dell’800 accadeva da queste parti con società di mutuo soccorso e camere del lavoro, alle origini del movimento operaio organizzato: perché il lavoro non fosse più solo una merce, poterne contrattare prezzo e condizioni, infine liberarlo; e da lì cambiare il mondo intero usando il proprio punti di vista, nato nell’emancipazione dal bisogno. Così per un secolo e passa, prima che il capitale si scrollasse di dosso i vincoli dei salariati e quelle loro idee d’indipendenza. Convinto di non avere più vincoli o sottostare a condizioni, dotato di potere assoluto, capace di muoversi ovunque e senza più ostacoli o limiti. Libero, astratto e solo. Pericoloso, per se e per gli altri.

 

Fonte:  sbilanciamoci.info

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Egidia Beretta Arrigoni, mamma di Vittorio, racconta in un libro la breve vita del figlio.

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NADiRinforma propone la presentazione del libro di Egidia Beretta Arrigoni “Il viaggio di Vittorio” (Dalai editore) organizzata dal Comune di Sasso Marconi (Bologna) il 25 maggio ’13, in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti Emilia-Romagna.

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Accanto ad Egidia hanno partecipato:


Stefano Mazzetti, Sindaco di Sasso Marconi,
Gerardo Bombonato, Presidente OdG Emilia-Romagna
Amedeo Ricucci, giornalista Rai, inviato speciale

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Egidia Beretta, mamma di Vittorio Arrigoni, racconta la breve vita del figlio, spesa nella conquista dei diritti umani “non è un eroe né un martire, solo un ragazzo che credeva dei diritti umani” soprattutto in Palestina, ove tali diritti parrebbero essere solo utopia, come amava chiamarsi lui. Vittorio, barbaramente assassinato nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2011 a Gaza, è divenuto il simbolo della ricerca dei valori umani e il suo “Restiamo umani” , con il quale firmava ogni articolo, un grido di speranza teso ad alimentare il significato di quell’utopia di cui lui si sentiva parte.
Si ringrazia per l’accoglienza in particolar modo il personale dell’ufficio stampa del comune di Sasso Marconi nella fattispecie il Responsabile Enzo Chiarullo.

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Fonte: N.A.Di.R

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Perché sono vegetariana, il libro dell’astronoma Margherita Hack

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Margherita Hack sta girando le librerie d’Italia per presentare il suo ultimo libro, “Perché sono vegetariana”, uscito a dicembre 2011.

E una presentazione dopo l’altra, la maggiore astronoma del nostro tempo riprende e ripete i temi al centro del libro: la ferma opposizione alla crudeltà contro gli animali, l’auspicio di una via vegetariana per risolvere i grandi problemi ecologici del pianeta, e non ultima la dimostrazione della perfetta compatibilità della dieta vegetariana con la salute dell’essere umano.

Una dimostrazione vivente: la Hack infatti è vegetariana fin dalla nascita, per sua scelta ma prima ancora per le convinzioni dei suoi genitori, aderenti a una filosofia vicina al buddismo che promuove il rispetto per tutte le creature viventi. Arrivata all’età di 89 anni in condizioni di “discreta salute fisica” nonostante il suo regime vegetariano – o proprio in ragione di questo – la scienziata è attivamente impegnata in una battaglia contro il consumo di carne nel mondo.

Il punto di partenza di questa lotta è costituito dalla sua personale esperienza di vegetariana, ma il discorso non si ferma qui e abbraccia un’ampia mole di argomentazioni scientifiche e di spunti storici. Come quelli relativi ai grandi scienziati vegetariani della storia: da Einstein a Leonardo da Vinci, per risalire fino a Plutarco. Molte pagine del libro sono dedicate a denunciare le crudeltà che gli esseri umani perpetrano sugli animali per garantirsi un largo consumo di carne e di pesce, ma la ragione del vegetarianesimo non è solamente etica: è anche, se vogliamo, prettamente pratica.

Con la popolazione mondiale in crescita e il pianeta sull’orlo del collasso ecologico, lo smodato consumo di cibo di origine animale risulta infatti insostenibile per l’umanità. Lo sapevate, ad esempio, che per ottenere un chilo di gamberetti con il sistema della pesca a strascico si buttano via circa 25 chili di “prede accessorie” finite per sbaglio per la rete? O che di tutta la terra coltivata sul pianeta solo un quinto è dedicato alla produzione di cereali, frutta e verdura per il consumo umano, mentre gli altri quattro quinti servono a fornire foraggi per gli animali? O ancora, che per produrre mezzo chilo di carne sono necessari in media dieci chili di cereali?

Se tutti fossimo a conoscenza di queste realtà, afferma Margherita Hack, forse ci penseremmo due volte prima di comprare un’altra fettina di vitello. E il pianeta ce ne sarebbe immensamente grato.

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Fonte: Tuttogreen

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