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Il Film: “Venere in pelliccia” di Roman Polanski

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Venere in pelliccia

 

di Roman Polanski

(Francia/Polonia – 2013)

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di Marcello Polizzi

 

Attraverso la coinvolgente soggettiva lungo un viale alberato di Parigi, inondato dalla pioggia e avvolto dalle musiche surreali di Desplat, Roman Polanski apre la sua ultima opera alla maniera di una fiaba. Completamente bagnata Vanda (Emmanuelle Seigner) varca le porte dell’edificio quasi come fosse un’improvvisa ed inattesa visione del drammaturgo Thomas (Mathieu Amalric) reduce da un’infinità di deludenti provini per il suo “Venere in pelliccia”, riadattamento del romanzo di Leopold von Sacher-Masoch.

Due soli attori ed un unico ambiente. Dopo Carnage (2011) ancora un’impostazione teatrale, una compenetrazione tra Cinema e Teatro che è alla base di una pellicola ricca di sovrastrutture. Il teatro stesso gioca un ruolo fondamentale, assurgendo a simbolo del confine tra realtà e finzione, attore e personaggio, regista e opera. Luogo dunque di labile demarcazione dal quale si rimane catturati (Thomas è impossibilitato ad uscire dall’edifico, bloccato da Vanda che insistentemente cerca di sostenere il provino, ritenendosi perfetta per la parte e non solo per quella (non) casuale omonimia). A rafforzare il legame tra le due arti vi è poi il fatto che il film è tratto da una piéce teatrale di David Ives (co-sceneggiatore) ispirata al romanzo dello scrittore austriaco. Siamo dunque dinnanzi ad un linguaggio puramente meta-cinematografico che Polanski utilizza in maniera brillante, mettendo in gioco una componente autobiografica in modo ironico ed elegante. Anche la scelta del soggetto rientra di certo in questo sottile gioco di rimandi: il romanzo “Venus im Pelz” prende infatti le mosse da fatti realmente accaduti al suo autore e soprattutto esso tratta temi da sempre cari al regista polacco: dal primo lungometraggio Il coltello nell’acqua (1962) a Cul-de-sac (1966), da Chinatown (1974) a Luna di fiele (1992).

 

In Venere in pelliccia Polanski porta avanti una riflessione sul fascino del cinema e del suo cinema, divertendosi a disseminare la pellicola di numerose autocitazioni. La fascinazione e la seduzione sembrano avere il potere di trasformare gli eventi e soprattutto le persone: l’esuberante Vanda diviene l’elegante Wanda che strega letteralmente Thomas. Scatta così un meccanismo perverso tra i due che entrano ed escono continuamente dai personaggi che interpretano, in una sorta di rituale che dà vita ad un’inevitabile impasse che coinvolge al tempo stesso chi è davanti e chi dietro la macchina da presa. Polanski sembra fare di Amalric un suo alter-ego, creando un personaggio che gli somiglia, nel ruolo e nell’ aspetto. L’autore si fonde col personaggio e ciò che vediamo è contemporaneamente finzione, recitazione e realtà, filtrato dal tema classico dell’impersonificazione. La Wanda di Masoch diventa agli occhi dello “schiavo” Severin l’incarnazione di Afrodite, racchiudendo in sé la ferocia delle Baccanti e la grazia della Venere di Tiziano. Thomas/Severin plasma così la donna ad immagine e somiglianza di una divinità che per sua stessa natura detiene il potere. Ma il momento dello scambio dei personaggi da parte degli attori segna il culmine del pensiero portato avanti da Polanski. Thomas, con rossetto, tacchi e “pelliccia”, come il Trelkovski/Polanski de L’inquilino del terzo piano (1976), viene totalmente rapito da una nuova identità, diventando Wanda e mettendo in scena il suo smascheramento. Il dominio appena conquistato viene così immediatamente perso, tornando all’impostazione iniziale.

 

In questo gioco di sottomissioni dunque il limite tra i ruoli è labile, ma nello stesso tempo, sembra suggerirci Polanski, fortemente radicato nella natura umana. Nei rapporti di coppia si domina chi vuole essere dominato, qualunque sia la parte da recitare.

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Trailer

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Titolo originale: La Vénus à la fourrure
Regia: Roman Polanski
Interpreti: Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner
Origine: Francia, 2013
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 96′

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Il film: “Gravity” di Alfonso Cuaròn

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Gravity  di Alfonso Cuaròn

(USA/Regno Unito – 2013)

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di Marcello Polizzi

La tecnica nel cinema, come in ogni arte, può essere un fattore decisivo, attraverso cui molti registi rendono le loro opere dei prodotti di ottima fattura. E questo è il caso di Alfonso Cuaròn che in Gravity sfrutta appieno tutte le sue capacità.

Sgombriamo però subito il campo dagli equivoci: Gravity non è assolutamente un semplice esercizio di stile, non è tecnica fine a se stessa. Sin dal primo, bellissimo piano-sequenza dell’incipit ci accorgiamo che Cuaròn orchestra alla perfezione tutte le parti, dai lenti movimenti di macchina alla luce, creando un equilibrio perfetto. Il tutto al servizio dell’elemento più importante del film: il 3D. C’è chi ha sostenuto che Gravity è il primo film in cui il 3D ha uno scopo preciso, serve realmente a qualcosa. Ed è vero. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un uso sfrenato di questa tecnica (già di per sé di dubbio valore), presentataci in tutte le salse ed i rari casi degni di nota si sono avuti solo quando ad utilizzarla sono stati dei grandi maestri, realizzando film dal sapore quasi sperimentale (Cave of Forgotten Dreams di Herzog, Pina di Wenders). Ma Cuaròn è riuscito a renderlo un vero e proprio linguaggio, un mezzo inscindibile dal film. Gravity può essere visto solo in 3D.

Il regista ha così anche riscattato un genere, quello fantascientifico (seppur il film non ne rispetti propriamente i canoni classici), facendolo però con quanto di più lontano possa esserci dalle sterili “abbuffate” di digitale e computer grafica delle pellicole degli ultimi anni. Alfonso Cuaròn proviene dalla stessa “scuola messicana” di Alejandro González Iñárritu, e si vede. Ciò che pervade il film (così come nel precedente I figli degli uomini) è infatti un intenso realismo e l’uso magistrale del 3D contribuisce a questo scopo, giocando con le inquadrature (belle le due soggettive) e le profondità di campo. Ogni cosa è fortemente reale, tanto che si riesce quasi ad avvertire l’assenza di gravità e ci si emoziona guardando lo spettacolo dell’aurora dallo spazio. Si avverte un forte senso di concretezza, soprattutto nelle scene più catastrofiche in cui i protagonisti tentano con tutte le loro forze di aggrapparsi a qualsiasi possibile appiglio, per evitare di andare alla deriva.

Gravity è insomma un film che coinvolge ed appassiona grazie alla notevole abilità del regista. Ma rimane purtroppo quella sensazione di incompletezza, che neppure l’ottima riuscita tecnica riesce a compensare. Il film pare non sviluppare pienamente i presupposti da cui parte, non raggiungendo così lo scopo prefissato. Nonostante Cuaròn tratti dei temi importanti ed universali, conferendo un’aria riflessiva ed introspettiva alla vicenda – sulla scia di alcuni tra i più alti esempi della fantascienza, come 2001: Odissea nello spazio e Solaris – la narrazione tende man mano a farsi retorica. Si viene a creare un contrasto tra il forte realismo della prima parte della pellicola (senza dubbio la più riuscita), brillantemente smorzatadall’ironia del Kowalsky di Clooney e un racconto troppo enfatizzato che caratterizza la seconda parte, con diverse scene decisamente ridondanti, sottolineate da una musica eccessivamente invadente (unica pecca dell’aspetto tecnico).

Il punto debole del film non sono però i contenuti che anzi rafforzano la convinzione che non ci troviamo di fronte a pura tecnica, ma che essa sia propedeutica alla messa in scena. Vi sono difatti momenti in cui il regista riesce a fondere alla perfezione questi due caratteri, dando vita ad alcune tra le scene più suggestive della pellicola: la “danza” fluttuante con la quale la dottoressa Stone (Sandra Bullock) si spoglia della tuta spaziale, quasi come fosse un’armatura fattasi ormai troppo pesante da portare. Sembra che, stanca di combattere contro quel passato troppo forte da sconfiggere, si chiuda in una posizione fetale – in un chiaro rimando al film di Kubrick – desiderando solo di ritornare al ventre materno, in attesa forse di una rinascita.

La pellicola di Cuaròn ha aperto l’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia e proprio tale scelta potrebbe infine indurci ad una riflessione: è possibile che una pellicola, che dal cast al genere, sino alla produzione si presenta come un blockbuster (per lo più in 3D) sia allo stesso tempo un film d’autore? Gravity è la risposta. Con tutte le difficoltà che un atto (di coraggio) del genere comporta.

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TRAILER

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Sito Ufficiale

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Attacco di Assange al film su WikiLeaks “Il Quinto potere”

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La verità su Quinto Potere

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di G. Niola

Il film che ripercorre la storia di Wikileaks esce nelle sale. Con annessa polemica di Julian Assange. Che, probabilmente, non ha tutti i torti nel giudicare negativamente la pellicola

Quasi sempre quando esce un film che racconta storie o fatti di cronaca che riguardano persone ancora in vita, queste hanno da ridire. Questa volta però la persona in questione, Julian Assange, è il gestore del più grande collettore di documenti segreti del pianeta, WikiLeaks, e quindi non gli è stato troppo difficile ottenere la sceneggiatura definitiva di Il quinto potere prima che fosse visto in sala. E, dopo aver intessuto una corrispondenza con Benedict Cumberbatch (l’attore che ha impersonato la sua riduzione cinematografica), farne un accurato debunking, punto per punto.

In effetti, ora che abbiamo potuto vedere il film (esce nelle sale italiane il 24 ottobre) si fa fatica a dare torto ad Assange: che non ha nemmeno potuto vedere come quella sceneggiatura è stata recitata e come anche le immagini giochino a suo sfavore.

La storia è sceneggiata da Josh Singer (ex sodale di Aaron Sorkin su West Wing) ed è tratta da due libri: Inside WikiLeaks: My Time with Julian Assange and the World’s Most Dangerous Website di Daniel Domscheit-Berg, ex collaboratore di WikiLeaks ora in causa con Assange (non proprio la persona più imparziale da cui attingere), e WikiLeaks: Inside Julian Assangès War on Secrecy di David Leigh and Luke Hardin, giornalisti del Guardian(anch’essi coinvolti nei fatti raccontati, dunque non imparziali). Si parte dalla prima volta in cui Daniel Domscheit-Berg incontra fisicamente Julian Assange e comincia a collaborare con il suo sito, fino a quando i due non si separano burrascosamente in seguito alla pubblicazione dei cablogrammi e dei resoconti di guerra dall’Afghanistan del 2010.

Se da una parte l’idea che ne esce è che WikiLeaks sia stato determinante, una svolta necessaria che porterà ad un cambio in meglio nella nostra società, dall’altra è anche molto sottolineato come sia stato un esperimento immaturo, pericoloso, frutto del delirio di un uomo che non voleva ascoltare la ragione (rappresentata da Daniel Domscheit-Berg) e condotto senza tutti quegli strumenti che il giornalismo vero (rappresentato dal Guardian) ha maturato nei suoi secoli di evoluzione. Dunque non rimane che Assange a cui dare la colpa.

Nella sua disamina sulle inesattezze del film (dal suo punto di vista) Julian Assange, l’unica persona assente tra le fonti del film, si premura innanzitutto di difendersi dall’accusa più grave. Nel film infatti si sostiene, come spesso è stato ripetuto, che il problema con le rivelazioni del 2010 fu che mettevano in pericolo le fonti e i collaboratori del governo USA in zone pericolose e vediamo anche come uno di questi (preso ad esempio per tutti gli altri) scappi sudato e preoccupato con bambini in braccio e altri particolari melodrammatici. Tuttavia, ricorda il fondatore di WikiLeaks, nessuna fonte, nessuna persona e nessuno nominato in quei documenti ha subito ritorsioni o è stato effettivamente messo in pericolo. La minaccia tanto paventata non si è mai verificata. Questo nel film non è specificato.

Assange stesso è rappresentato come un mezzo matto, cosa che il soggetto in questione smentisce citando diverse interviste di Benedict Cumberbatch, in cui l’attore racconta di aver dovuto lottare con il regista perché il personaggio non sembrasse un megalomane o un cattivo da cartone animato. Allo stessa maniera poi il suo pensiero viene semplificato fino ad essere stravolto. Chi conosce i discorsi e la filosofia dietro WikiLeaks sa infatti che Assange non è un maniaco della trasparenza a tutti i costi come viene dipinto, ma una persona che crede fermamente nella privacy degli individui e ritiene che la trasparenza debba essere proporzionale al potere. In più, dopo aver ricordato che la base sono pubblicazioni di persone (Domscheit-Berg) che sono in causa con lui, l’interessato cita altri collaboratori come Sarah Harrison, Joseph Farrell o Kristinn Hrafnsson che a suo dire potrebbero raccontare gli eventi da un altro punto di vista.

A parte le considerazioni più generali, i dettagli più grossolanamente errati su cui Assange si sofferma riguardano gli eventi del 2010 durante i quali, a suo dire, Daniel Domscheit-Berg sarebbe stato già assente. Per il fondatore di WikiLeaks lui e il suo collaboratore non si sono più visti dopo il soggiorno in Islanda, dunque egli non avrebbe mai preso parte in alcuna maniera alle divulgazioni di Collateral Murder, War logs e i cablogrammi come invece il film mostra (mettendolo anche nella redazione di diversi giornali a rappresentare WikiLeaks). In più sembra che Assange non abbia mai incontrato Anke Domscheit-Berg (compagna di Daniel) con la quale invece lo vediamo intessere siparietti che suggeriscono un suo legame quasi morboso a Daniel. La storia dei due segue infatti gli stereotipi della love story, e Assange spesso si comporta come un partner deluso e tradito.

Ovviamente sono totalmente ricusate anche le accuse più lievi come quella di tingersi i capelli di bianco in seguito ad un’abitudine maturata quando da piccolo aderiva ad una setta (cosa anch’essa smentita), al pari dei passaggi più canzonatori come quando il protagonista è mostrato come un paranoico ossessionato dall’essere sorvegliato, cosa che secondo Assange è non solo vera ma anche ampiamente dimostrata.

Ma anche trascurando le controversie relative ad elementi di certo non marginali, l’impressione vedendo Il quinto potere è che sia il risultato del lavoro di qualcuno che ne apprezza il concetto di base (ribellione, conquista dei propri diritti di cittadini ecc) ma che proviene da un mondo molto lontano da quello di WikiLeaks e da una mentalità radicalmente differente.

Lo dimostra la metafora usata per spiegare l’organizzazione (un ufficio anni ’50 dove i leak arrivano sotto forma di fogli di carta!), lo dimostra la poca confidenza con la tecnologia (“Per sistemare questo filmato possiamo usare FFMPEG e Final Cut” viene detto ad un certo punto da un esperto, con il tono di chi ha usato un linguaggio oscuro e nominato stratagemmi da smanettone), e lo dimostra il totale appoggiarsi per qualsiasi conclusione, e per dare a WikiLeaks l’onore delle armi, alla vecchia e cara carta stampata, ai giornalisti del Guardian, unici depositari della vera coerenza e della sapienza giornalistica.

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Il blog di G.N.

Fonte: Punto Informatico

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