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Cinema: ” No – I giorni dell’arcobaleno “. Come si arrivò alla caduta del regime di Pinochet in Cile

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No i giorni dell'arcobaleno

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” Quello che state per vedere è assolutamente in linea con l’attuale contesto sociale, noi crediamo che il Paese ormai sia pronto per questo tipo di comunicazioni.”

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  • Titolo originale: No
  • Paese: Cile / U.S.A. / Messico
  • Anno: 2012
  • Regia: Pablo Larrain
  • Genere: Drammatico
  • Durata: 115 min.
  • Cast: G. García Bernal (René Saavedra), A. Castro (Lucho Guzmán), A. Zegers (Verónica), A. Goic (Ricardo), N. Cantillana (Fernando)
  • Sceneggiatura: P. Peirano
  • Soundtrack: n.p.
  • Fotografia: S. Armstrong
  • Montaggio: A. Chignoli
  • Distribuzione: Bolero Film
  • Uscita in sala: 09.05.13
  • Visione in v.o.: Consigliata

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di Alessia Paris

 

 

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Dopo Tony Manero e Post Mortem, si conclude con No la coraggiosa trilogia di Pablo Lerrain sul Cile dittatoriale di Pinochet. Se l’agghiacciante Post Mortem, presentato alla 67a mostra veneziana, raccontava il colpo di stato del 1973 e l’origine della dittatura, il precedente Tony Manero parlava del suo momento più violento, mentre No racconta invece la sua fine, l’unico totalitarismo nella storia ad essere terminato attraverso un referendum democratico. Pablo Lerrain afferma che la cosa per lui di maggiore interesse era «esaminare e rivisitare l’immaginario della violenza, la distruzione morale e la distorsione ideologica, non allo scopo di capire, ma per mettere in luce un’epoca».

Tecnicamente Lerrain affronta la scelta stilistica di questo film con l’intuizione migliore: il film è interamente girato con macchine da presa Ikegami del 1983 e il formato è in 4:3, tutto esattamente come all’epoca. Impossibile quindi distinguere le immagini d’archivio dalle immagini ricreate per il film. D’altronde se non ci fossero i volti di Gael García Bernal (L’arte del sogno, Amores Perros) o di Alfredo Castro (Tony ManeroPost Mortem) a ricordarci con la loro presenza il nostro contesto storico, potremmo credere alla coincidenza temporale di narrazione ed anno di produzione. Lo stesso stile registico che adotta Lerrain – dalle tendenze documentaristiche – aiuta lo spettatore a con-fondersi definitivamente nel mondo proiettato sullo schermo.

Con No Lerrain ci mostra un Cile in cui saranno proprio gli effetti del sistema neoliberale imposto da Pinochet a segnare la fine del regime. René Saavedra è un personaggio del tutto coerente con il suo contesto, come afferma anche il suo interprete García Bernal. René è figlio di due esiliati politici, quel che attualmente vive in lui, come un fuoco addormentato, è un senso di rivalsa che si risveglierà d’improvviso attraverso un imprevisto impegno politico, dove tuttavia il senso stesso di “politica” è cambiato enormemente. E con esso sono cambiati anche i mezzi della politica. René fa politica senza parlare di politica, combattendo il terrore con l’allegria, contrapponendo alla paura la sicurezza di un mondo migliore. René parla con il nuovo linguaggio della pubblicità e come afferma sempre prima di presentare il suo prodotto: “Quello che state per vedere è assolutamente in linea con l’attuale contesto sociale, noi crediamo che il Paese ormai sia pronto per questo tipo di comunicazioni”. E non potrebbe avere più ragione: il Paese è effettivamente pronto per quel tipo di comunicazione.

Ma a prescindere dalla giustezza del fine che si sta tentando di raggiungere, cosa dobbiamo pensare del mezzo, quello pubblicitario, con cui ci si sta arrivando? E’ giusto? E’ sbagliato? Nel film Lerrain non si esprime sotto questo punto di vista, non giudica i mezzi di René Saavedra, semplicemente li osserva e li lascia giudicare dagli spettatori, che a volte ridono, altre sorridono, ma di certo sanno comprenderne la forza e sicuramente riescono a riconoscerli come non troppo anziani parenti di quel che popola oggi le attuali televisioni. Pablo Lerrain in un’intervista afferma con lucidità: «La campagna pubblicitaria – inventata da René Saavedra, ndr – è piena di simboli e di obiettivi politici, che apparentemente sono solo parte di una strategia di comunicazione, mentre in realtà nascondono il futuro del paese. Secondo me la campagna per il NO è solo il primo passo verso il consolidamento del capitalismo come unico sistema possibile in Cile. Non è una metafora; è il capitalismo, puro e vero, prodotto dalla pubblicità, applicata alla politica.»

Con No si conclude quindi quella che si potrebbe chiamare la “trilogia della dittatura” di Lerrain, un capitolo molto importante per la cinematografica cilena, che proprio durante il periodo dittatoriale subì dei profondi attacchi da parte del regime: i centri di produzione e le scuole cinematografiche vennero distrutte, i film bruciati, gli intellettuali arrestati e molti registi fuggirono all’estero. Quello di Lerrain è quindi un cinema che prende coscienza della sua storia, aprendo la sua più dolorosa ferita e raccontando al mondo il suo dolore. Per capire davvero cosa significano questi film, come ci dice Pablo Lerrain, bisogna solo aspettare che i film stessi generino un nesso fra di loro.

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Fonte: Cinema Bendato

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Trailer

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Facebook  Noilfilm

Locandina

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“Girlfriend in a coma” docu-film di Bill Emmott sull’Italia in coma

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Mala Italia o Buona Italia. Il nostro si sa è il paese delle contraddizioni e dei paradossi per eccellenza. Divisi tra genio e malvagità, arte e ignoranza, malasanità ed eccellenza, le criticità del Belpaese si sono acutizzate e sono venute alla luce in modo chiaro e delineato negli ultimi cinque anni, come esempio lampante della crisi che sta agonizzando l’Europa. L’Italia, che è entrata a fare parte della temuta zona di confine in cui sono relegati i cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), sta attraversando un momento difficile. Eppure a sentir parlare chi annovera qualche primavera in più, la situazione del paese di Dante e Leonardo è sempre stata al limite e mai del tutto prospera. Tuttavia i nostri genitori sembrano essere sopravvissuti tutti, accumulando una buona ricchezza privata, superiore alla media europea. Forse in Italia si tende a pensare che “in fondo si stava meglio quando si stava peggio”e non è escluso che tra vent’anni ricorderemo questo inizio millennio proprio seguendo lo stesso spirito.

Per criticare l’Italia non bisogna poi metterci molto impegno, forse anche perché i primi accusatori feroci del modo in cui funzionano le cose nel nostro paese, siamo noi stessi. Ciò nonostante sembra che le disapprovazioni e le analisi non bastino mai e c’è sempre qualcuno pronto a ritornare sul discorso mafia, criminalità, politica scadente, corruzione, assenteismo, immoralità. Mali atavici che purtroppo caratterizzano l’Italia già prima del 1861, ma che tuttavia non hanno impedito lo sviluppo ( seppur non avendone consentito tutto il potenziale) delle arti, dei migliori cervelli in giro per il mondo, dell’industria, dell’impresa, che raggiungono in ogni campo livelli d’eccellenza.

A ricordarci che gli italiani devo risollevarsi da soli e indipendentemente da questa situazione di stasi ci ha pensato stavolta l’ex caporedattore dell’Economist, Bill Emmott, che ispirandosi al suo libro “Good Italy, Bad Italy” ha realizzato un docu-film dedicato al nostro paese dal titolo “Girlfriend in a coma”. Già dal titolo e dal trailer, la trama che il documentario intende perseguire è abbastanza chiara. Si susseguono diverse interviste ad attori, giornalisti, imprenditori, che raccontano la situazione di dissesto, ma di enorme potenziale inespresso che caratterizzano l’Italia. Una panoramica realizzata attraverso una raccolta di punti di vista, alcuni speranzosi, altri dubbiosi e scoraggiati. Un film per farci riflettere ancora una volta sui nostri limiti e capacità.

Giudicate voi se ne avevamo bisogno oppure no, a fronte degli avvenimenti che si sono susseguiti in Italia negli ultimi dodici mesi. Certo la strada è ancora lunga, ma per percorrerla più in fretta non dovremmo forse smetterla di rimuginare nel passato? “Cosa fatta capo ha”, tanto vale imparare dall’esperienza per evitare gli stessi errori.

TRAILER

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Fonte:  TAFTER

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Non è mia abitudine commentare stragi

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di Jacopo Fo

Credo non sia il nostro compito.
Siamo un po’ come la Croce Rossa: ci occupiamo di alleviare certe indigestioni di morti telegiornalistiche riabilitando le buone notizie.
Ma di questo massacro a Denver ne devo parlare.
Perché questo crimine rischia di diventare un simbolo, un crinale, della nostra cultura.
A volte i fatti si ripetono più e più volte, e la gente pare impermeabile alla comprensione del significato.
Poi quello stesso accadimento si ripete, in una forma sostanzialmente identica, ma contemporaneamente il fatto diventa totalmente diverso perché contiene (casualmente) simboli potenti, capaci di penetrare la corazza della sordità di massa. Eventi che scatenano l’emozione. Come quella donna che si mise a urlare in piazza Tahir, al Cairo, contro la dittatura dello zio di Ruby.
E il video di quella ragazza che diceva agli egiziani: “Ribellatevi se avete un onore”, aveva in sé tutti gli elementi, perfettamente capaci di scaldare il sangue di qualunque uomo avesse un’anima e un cervello fino a farli ribollire.
Sono affondate molte navi ma ci si ricorda del Titanic…
Questa strage a Denver, forse, avrà questa potenza mediatica.
La prima di un film per adolescenti, Batman, il killer con la maschera del cattivo del film, gli spettatori che per alcuni secondi credono che si tratti solo di una trovata pubblicitaria: un attore che spara i soliti proiettili finti, una trovata troppo originale del marketing.
Poi c’è l’assassino, bello, giovane, figlio di una ricercatrice e di un manager, settore software. Un ragazzo gentile con i bambini, timido, un viso che sembra intelligente. Non è un arabo e neanche un estremista bianco. Ha una specializzazione ma l’unico lavoro che ha trovato per un certo periodo è stato fare panini da McDonald’s (“c’è un nesso” diranno i vegani). Un ragazzo “normale” con la casa piena di bombe e trappole esplosive.
Poi c’è la vicinanza, una trentina di chilometri, con Colombine, teatro del massacro in un liceo, raccontato anche da Michael Moore.
E poi c’è la storia di Jessica Ghawi, giovane cronista sportiva che era sopravvissuta alla strage del centro commerciale di Eaton, Toronto, e che muore falciata a Denver.
Insomma, ancora una volta assistiamo a un evento che sembra sfuggito alle mani di un Dio ordinario per finire sotto il controllo di uno strano, crudele, sceneggiatore.
E questo non potrà che generare un feticcio nella nostra cultura, che rimuove la morte e la violenza e ne è contemporaneamente soggiogata.
L’altro giorno Carlo Petrini, il creatore di Slow Food, grande maestro, mi diceva qualche cosa a proposito della perdita della capacità di fare, della cultura delle conoscenze e dei mestieri, che cementava la società e che deve tornare a essere mastice della vita se vogliamo uscire da questa crisi.

Io sono contrario alle tiritere del tutto va peggio… Non è così. Ci ho scritto un intero libro, con il prode Michele Dotti, che si intitola proprio “Non è vero che tutto va peggio”. Una raccolta di statistiche che dimostrano che in ogni settore l’umanità progredisce e che spesso ci sembra abnorme oggi quel che 50 anni fa non destava scalpore e così si ha una prospettiva distorta e ci sembra che la pedofilia stia esplodendo, mentre al contrario diminuisce proprio perché finalmente se ne parla. Una volta le servette di 14 anni che restavano incinte del padrone non facevano notizia.
Ma è d’altronde indubbio che la nostra società sia entrata in una fase diversa: la fase dello spettacolo. Non si è mai ammazzato così: senza alcun motivo.
E se le stragi immotivate, alla Colombine, sono una novità del tempo, questa è certamente la prima strage senza senso concepita come uno show.
Credo scopriremo che il killer non aveva nessuna motivazione politica o religiosa, semplicemente pensava fosse troppo complesso affrontare le selezioni per il Grande Fratello e ha trovato una scorciatoia per guadagnarsi il suo quarto d’ora di celebrità sparando a donne e bambini.
Questo non è il solito pazzo fondamentalista di qualche cosa. Voleva vedere la sua faccia al telegiornale. Uccidere 12 persone gli è sembrato un percorso sensato.
E sono pronto a scommettere che orde di adolescenti gli scriveranno lettere d’amore: è il fascino del nulla.
Io credo che un fatto così atroce e insensato potrà forse far capire a tanti che siamo arrivati veramente al capolinea. Alla fine del mondo. Avevano ragione i Maya. È la fine di questo mondo, dove ci sono manager che per comprarsi lo yacht più grosso sono capaci di affondare l’economia di una nazione e ridurre alla miseria milioni di persone.
Altri con meno intraprendenza si guadagnano un posto al sole con un Kalashnikov.
Non funziona. Non conviene a nessuno. Neppure ai malvagi.
Non ha senso costruire un mondo dove i cattivi dei film escono dal film e si scopre che sono ancora più cattivi e insensati di come li hanno disegnati.
Abbiamo bisogno di una società etica, che dia un senso nuovo a parole come bene comune, onore, cultura, professione, tener fede alla parola data, rispetto, buon senso, cooperazione.
Abbiamo bisogno di un mondo dove le stampanti sono costruite per durare, dove si compra quel che serve, dove non si butta via niente, dove si sorride alla gente, dove si crede veramente che quando la gente si unisce e agisce con metodo, ottiene risultati grandiosi.
Noi siamo la frazione mutante della collettività che ha capito da tempo a che bivio ci troviamo. E da tempo stiamo sperimentando stili di vita evoluti. E da mo’ dimostriamo che evolvendosi si vive meglio.
Ora gli eventi quotidiani stanno mostrando in technicolor, sui grandi schermi della Terra, che il tempo delle stronzate è finito.
Ce la faremo. Perché sono secoli che alla fin fine ci riusciamo.
Una volta sembrava che gli imperatori avrebbero continuato a comandare sul pianeta… parevano invincibili con le loro armature d’acciaio.
Ora sono buoni solo per i film con i draghi e Mago Merlino.
Storielle per bambini.
I nostri bisnipoti racconteranno ai loro figli la favola dello speculatore pazzo e dei Sette Nani Cattivi: Berluscone, Rutellone, Dalemone, Formicone, Dellutrone, Bossone e Bassolino, quello col cestino della spazzatura in testa.
I nostri bis bis nipoti saranno terrorizzati.

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Fonte: Blog di Jacopo Fo

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