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La catastrofe di Fukushima non è stata un incidente. Si sta ripetendo in California alla Centrale del Diablo Canyon

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Si chiuda la Fukushima della California: la Diablo deve sparire

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di Harvey Wasserman

La catastrofe di Fukushima non è stata un incidente. Si sta ripetendo in California.

Il prossimo terremoto sulla costa occidentale potrebbe facilmente ridurre in macerie i due reattori del Diablo Canyon.

Sono zeppi di difetti, non sono in grado di sopportare potenziali impatti sismici da cinque grandi linee di faglia nelle vicinanze, violano le leggi statali sulla qualità dell’acqua e sono vulnerabili a tsunami e incendi.

Il proprietario della Diablo, la Pacific Gas & Electric (PG&E), è in una grossa crisi legale e finanziaria.

Un rapporto di 42 pagine dell’ispettore della NRC [Commissione per la disciplina del nucleare – n.d.t.] dottor Michael Peck afferma che la scoperta di nuove linee di faglia mette in dubbio la “presunzione di sicurezza nucleare” della Diablo.

La Commissione Californiana sulle Utenze Pubbliche (CPUC) ha appena proposto una sanzione di 1,4 miliardi di dollari a carico della PG&E per un’esplosione di gas del 2010 e un incendio che ha ucciso otto persone e distrutto un quartiere a San Bruno. Il governo federale ha annunciato 28 capi d’accusa, il che significa che la sanzione della CPUC può essere la punta di un iceberg molto costoso per la PG&E. Il disastro di San Bruno fu causato da difetti di condutture in ordine ai quali la PG&E era stata avvertita da anni, ma che non aveva corretto. Le sanzioni coprono 3.798 separate violazioni di leggi e regolamenti, sia statali sia federali. La PG&E è stata in precedenza multata per 38 milioni di dollari per l’esplosione di una conduttura nel 2008 a Rancho Cordova.

Difetti simili restano non corretti a Diablo Canyon, la cui nuvola radioattiva potrebbe raggiungere gli Stati Uniti continentali nel giro di quattro giorni. Azioni di massa dei cittadini hanno fatto recentemente chiudere due reattori costieri a San Onofre. Si deve fare lo stesso alla Diablo prima del prossimo terremoto.

Ironicamente, mentre la Commissione USA di Disciplina del Nucleare (NRC) consente alla Diablo di operare, tutti i 54 reattori del Giappone restano chiusi. L’Autorità di Disciplina del Nucleare di quel paese ha appena ordinato che il reattore di Tsuruga sia smantellato a causa della sua vulnerabilità ai terremoti. Anche due reattori più vecchi a Mihama possono essere messi fuori servizio entro la fine dell’anno.

A Fukushima la Tokyo Electric Power (Tepco) ora ammette che nel Pacifico si riversano molte più radiazioni di quanto ammesso in precedenza. Il tasso di mortalità per cancro alla tiroide tra i bambini nell’area è quaranta volte quello normale. Analogamente sta tuttora crescendo il tasso di anomalia della tiroide tra i bambini, una terrificante replica di Chernobyl sottovento.

La Tepco ha cominciato a pagare risarcimenti alle vittime locali di suicidio, compreso il vedovo di una donna che si è inzuppata di kerosene prima di bruciarsi viva.

Tutto prevedibile.

Per decenni i cittadini giapponesi avevano avvertito la Tepco di non costruire reattori in una zona soggetta a terremoti/tsunami. La società ha ripetutamente ignorato gli allarme per la sicurezza e ha tollerato difetti noti che hanno aggravato il disastro.

I reattori gemelli di Diablo Canyon si trovano a otto miglia a ovest di San Luis Obispo, tra Los Angeles e San Francisco, circondati da faglie sismiche.

La Hosgri, tre miglia  al largo, è stata scoperta mentre i reattori erano in costruzione. Le specifiche di progetto non sono mai state interamente modificate per tenerne conto. Né sono state aggiornate in relazione alla nuova scoperta delle faglie di Los Osos, San Luis Bay e Shoreline. La Shoreline è ad appena 600 metri dai noccioli della Diablo.

La grande faglia di San Andrea è a sole 45 miglia di distanza, a una distanza pari a circa la metà di quella di Fukushima dall’epicentro del sisma di nove gradi Richter dell’11 marzo 2011.

Una scossa di quella portata da una qualsiasi delle linee di faglia prossime alla Diablo la ridurrebbe a un mucchio ribollente di inferno radioattivo, molto più mortale di quello di Fukushima. I venti prevalenti potrebbero ricoprire virtualmente l’intero Nord America della sua mortale ricaduta.

L’industria nucleare negherebbe immediatamente ogni impatto sulla salute. Incolperebbe gli ‘imprevedibili’ Dio e natura.

Ma un rapporto di 42 pagine dell’ispettore della NRC dottor Michael Peck afferma che la scoperta di nuove linee di faglia mette in dubbio la “presunzione di sicurezza nucleare” della Diablo.

Insabbiato per almeno un anno dalla NRC, è stato diffuso dagli Amici della Terra e riferito dall’Associated Press e dal grande giornalista ambientalista Karl Grossman, oltre al Nuclear Information & Resource Service e a Beyond Nuclear.

Peck ha un dottorato in ingegneria nucleare ed è stato ispettore capo sul sito della Diablo per cinque anni. E’ oggi istruttore anziano presso il Centro Addestramento Tecnico dei dipendenti della NRC in Tennessee. La sua condizione di dipendente della NRC rende tale rapporto critico molto insolito, e allarmante.

L’ingegnere nucleare Arnie Gundersen ha ammonito riguardo alle condotte di aspirazione a livello del mare, come quelle della Diablo. Quando lo tsunami ha colpito Fukushima, scrive, “l’impianto di raffreddamento lungo la costa è stato trasformato in una discarica di metallo contorto”.

Poi c’è il fuoco.

La Diablo Canyon, scrive David Lochbaum dell’’Unione degli Scienziati Allarmati’, “non ha mai, mai rispettato le norme di sicurezza antincendio, nemmeno per un secondo e nemmeno per sbaglio”.

“Il doppio colpo di terremoto e tsunami ha causato Fukushima”, mi ha scritto via email Lochbaum.

“Un doppio colpo di terremoto e incendio potrebbe causare Diablo Canyon”.

Ma, dice Lochbaum, “non può essere un incidente. Non quando la società e il suo presunto regolatore sanno entrambi che l’impianto non rispetta le norme antisismiche e antincendio.”

“Non può causare in incidente. Negligenza criminale, forse. Al minimo un caos doloso. Ma non un incidente.”

Più di 10.000 persone furono arrestate mentre cercavano di fermare la Diablo negli anni ’70 e ’80. Nel corso dei ritardi da esse causati la PG&E ha rilevato grossi errori di lettura di progetti chiave implicanti alcune delle attrezzature più critiche della Diablo.

Si stanno ancora facendo i conti del terremoto del 25 agosto nella Napa Valley californiana. Il terremoto del 1994 a Northridge uccise 57 persone, ferendone circa 5.000. Il terremoto di Loma Prieta durante le World Series del 1989 uccise 63 persone, ferendone più di 3.700. Il famigerato terremoto di San Francisco del 1906 rase al suolo la città e uccise migliaia di persone.

Nuove scosse alla Diablo Canyon potrebbero far apparire risibili quelle cifre, e quelle di Fukushima.

Decine di milioni di statunitensi subirebbero radiazioni. Gli ecosistemi del nostro continente sarebbero avvelenati. L’economia della nostra nazione sarebbe distrutta.

Ma, come a San Bruno, non ci sarebbero scuse.

Harvey Wasserman ha scritto ‘Solartopia! Our Green-Powered Earth’ [Solartopia! Il nostro pianeta a energia verde] e gestisce www.nukefree.org. E’ stato arrestato a Diablo Canyon nel 1984 ed è probabile che lo sarà presto di nuovo. Seguite il recente dibattito radiofonico sulla Diablo con David Lochbaum e Rochelle Becker.

Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: www.znetitaly.org

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9 agosto 2014: Giornata ONU dei Popoli Indigeni. Survival dimostra che è possibile salvarli!

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Un rituale notturno degli Awá, la tribù più minacciata del mondo.

Un rituale notturno degli Awá, la tribù più minacciata del mondo.

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Giornata ONU dei popoli indigeni – Survival denuncia: non stanno ‘scomparendo’!

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di Redazione Survival

In occasione della Giornata ONU per i popoli indigeni, che si celebra ogni anno il 9 agosto, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni Survival International ricorda all’opinione pubblica internazionale che i popoli indigeni non sono “primitivi” e non stanno “scomparendo”, bensì “sono portati alla scomparsa” dall’avidità e dal razzismo delle nostre società, che continuano a privarli delle loro terre e delle loro risorse.

La differenza è sostanziale: non si tratta di un fenomeno storicamente inevitabile, naturale e inarrestabile come molti vorrebbero credere, bensì della drammatica conseguenza di azioni criminali che, in quanto tali, possono e devono essere fermate.

I popoli indigeni che nel corso del XX secolo hanno subito persecuzioni, violenze e persino il genocidio sono incalcolabili. Tra questi:

– gli Aché, che nell’aprile 2014 hanno trascinato il governo del Paraguay in tribunale per il genocidio subito negli anni ’50 e ’60, quando i colonizzatori organizzavano spedizioni per uccidere gli uomini, mentre le donne e i bambini venivano solitamente catturati e venduti come schiavi. Oggi, nonostante le foreste della tribù siano state quasi totalmente distrutte per far spazio ad allevamenti di bestiame e piantagioni di canna da zucchero, la loro popolazione è di nuovo in crescita.

– gli Akuntsu, con cui alcuni operatori del governo brasiliano sono entrati per la prima volta in contatto nel 1995, scoprendo che solo 7 di loro erano sopravvissuti allo sterminio ordinato dagli allevatori che avevano invaso le loro terre negli anni precedenti. I linguisti stanno cercando di registrare e interpretare la loro lingua, per permettere loro di raccontare al mondo tutto l’orrore di cui sono stati testimoni. Ma il tempo stinge perché tra poco la loro piccola e vulnerabile tribù, ormai scesa a 5, sarà cancellata dalla faccia della terra per sempre.

– gli Jumma del Bangladesh, vittime dell’esercito e dei coloni, promotori di una sistematica campagna genocida fatta di uccisioni, stupri, torture. Nel 1997, un accordo di pace ha messo fine alle atrocità peggiori, ma le uccisioni, gli incendi dei villaggi, il furto della terra e gli arresti continuano a dilagare ancora oggi.

– molte tribù incontattate di Perù e Brasile, come i Nahua e quel piccolo gruppo isolato che alla fine di giugno è uscito dalla foresta brasiliana dopo aver attraversato il confine con il Perù. Gli Indiani hanno raccontato agli interpreti di aver subito un violento attacco al loro villaggio nel corso del quale la maggior parte degli anziani sono stati uccisi e le loro case sono state incendiate. “Sono morte così tante persone che non hanno potuto seppellirli tutti e, quindi, gli avvoltoi hanno mangiato i loro corpi”. Secondo gli esperti brasiliani, se il territorio non sarà protetto subito dai taglialegna e dai trafficanti di droga sospettati di compiere queste atrocità, si rischierà un “altro genocidio”.

“I popoli indigeni hanno sviluppato stili di vita largamente auto-sufficienti e straordinariamente diversi” dichiara Francesca Casella, direttrice di Survival Italia. “Molti dei medicinali e degli alimenti base del mondo ci vengono da loro, e hanno salvato milioni di vite. Tuttavia, continuano ad essere descritti come “arretrati” e “primitivi” semplicemente perché hanno scelto modalità differenti. La verità con cui dobbiamo confrontarci è che fin dagli albori dell’età della ‘Scoperta’, i popoli indigeni sono stati vittime innocenti della colonizzazione aggressiva delle loro terre. Rifiutandoci di riconoscerli come parti vitali e integranti del mondo moderno, al pari di tutti gli altri, l’annientamento sistematico e crudele avviato dai primi invasori continuerà inesorabile. È arrivato il momento di fermarsi. Il futuro dei popoli indigeni è solo e realmente nelle mani di ognuno di noi.”

E a dimostrare che il cambiamento è possibile, nella Giornata ONU per i popoli indigeni, Survival diffonde le immagini emozionanti di una mobilitazione pubblica che in soli due anni ha salvato gli Awá, la tribù più minacciata del mondo. Quando Survival lanciò la campagna internazionale in loro sostegno, il 25 aprile 2012, gli esperti ritenevano gli Awá ad imminente rischio d’estinzione. Oggi hanno la concreta possibilità di riprendere il controllo delle loro terre e del loro futuro, alle proprie condizioni.

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Guarda il Video: Da parte degli Awà, grazie!

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Fonte: Survival

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L’agonia della Terra e l’accumulazione capitalistica

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I limiti del pianeta e della crescita

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di Elmar Altvater

Siamo a Terra/ Le maggiori istituzioni internazionali individuano la crescita come panacea universale di tutti i problemi economici. Ma il riconoscimento dei difetti dell’accumulazione capitalistica è il frutto di un’analisi critica dello scambio metabolico tra società e natura

La logica dell’accumulazione capitalistica contrasta con l’etica kantiana di un sistema di regole fondato sui limiti imposti all’uomo dal pianeta Terra. «Anche oggi», notava intorno alla metà degli anni ’60 Kenneth Boulding, «siamo molto lontani dall’aver effettuato quei cambiamenti morali, politici e psicologici che dovrebbero essere impliciti nella transizione dalla prospettiva del piano illimitato a quella della sfera chiusa». Eppure, c’è chi fa finta di niente e nega che il pianeta Terra abbia alcun limite (…). Dieci anni prima del collasso del sistema finanziario globale, l’economista statunitense Richard A. Easterlin glorificava nel suo libro la Crescita trionfante. Anche oggi, cinque anni dopo l’inizio della crisi finanziaria globale, le principali pubblicazioni di tutte le maggiori istituzioni internazionali come la Banca Mondiale (Bm), Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), l’Unione Europea (Ue) o l’Ocse individuano la crescita come panacea universale di tutti i problemi economici. In paesi come la Germania o il Brasile l’accelerazione della crescita economica è prevista per legge. Non sono previsti né limiti né alcuna gradualità nella crescita.

Nei consessi di economisti non sembra esserci alcuna tendenza a domandarsi se i gravi problemi economici, sociali e ambientali che vengono discussi quotidianamente sui giornali possano essere il risultato di decenni di crescita capitalistica. E lo stoicismo di tali studiosi non è stato scalfito nemmeno da eventi disastrosi quali quelli di Fukushima e della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, o dalle «condizioni climatiche eccezionali» degli ultimi anni. Quasi tutto il pensiero economico critico è stato soffocato dall’ economia mainstream – quasi tutto, poiché alcune isole di pensiero critico sono riuscite a costruire strutture teoriche avanzate, idee alternative solide e visioni lungimiranti che le torbide inondazioni del mainstream non si sono dimostrate in grado di spazzare via.

Le strutture teoriche rilevanti in questo scenario comprendono la termodinamica economica di Nicholas Georgescu-Roegen, una teoria che riconosce il ruolo dello scambio metabolico tra società e natura. Le attività umane e lo sviluppo sociale sono contestualizzati nel tempo e nello spazio e non vivono in un ambiente artificiale privo di qualunque dimensione spazio-temporale, popolato da degli omuncoli quali gli homini oeconomici protagonisti delle teorie mainstream .

I «limiti alla crescita» discendono in termini logici dall’estensione limitata del pianeta e dalle caratteristiche peculiari del processo di accumulazione capitalistica mondiale.

Nel 1870, un secolo prima che il Club di Roma lanciasse il suo grido di allarme, Friedrich Engels discusse i limiti della natura nel suo «La dialettica della natura»: «Non dovremmo glorificare noi stessi contando ad ogni piè sospinto le conquiste del genere umano sulla natura. Per ciascuna di queste conquiste la natura si prende la sua rivincita […] Cosicché, ad ogni passo, siamo obbligati a ricordare di non essere in grado di dominarla in alcun modo […] ricordando al contrario di esserne parte integrante con la nostra carne, il nostro sangue ed il nostro cervello e di esistere nel mezzo di essa […] e tutta la nostra supremazia su di lei deriva dal vantaggio umano sulle altre creature dato dal saper apprendere le sue leggi e dal poterle potenzialmente applicare in modo corretto».

In altre parole, il riconoscimento dei limiti della crescita e dell’accumulazione capitalistica è anche il frutto di un’analisi critica dello scambio metabolico tra società e natura. In un’economia capitalistica questo scambio è espansivo, non solo per il «soddisfacimento dei bisogni-godimento della vita», indentificato da Nicholas Georgescu-Roegen come uno dei motori principali dell’attività economica, ma anche per il ruolo svolto dalla ricerca del profitto e dall’accumulazione compulsiva come Karl Marx notava nel primo libro del Capitale: «Accumulare, accumulare! Questa l’esortazione di Mosè e dei profeti!» (…).

Nell’accumulazione capitalistica, uno stato di crescita stazionaria dell’economia è pressoché impossibile. (…)

Lo stato stazionario potrebbe realizzarsi solo in termini approssimativi e in un orizzonte temporale limitato; presto o tardi collasserà.

A questi argomenti Georgescu-Roegen aggiunge la fondamentale conclusione che, chiunque «creda di poter disegnare un progetto mirato alla salvezza ecologica dell’umanità non ha compreso né la natura dell’evoluzione né quella della storia».

Herman E. Daly, uno dei principali difensori dell’economia dello stato stazionario, rappresenta i sistemi economici come dei cicli di produzione e di consumo, di estrazione di risorse dall’ecosistema e di emissioni che vi riaffluiscono. Ma, facendo ciò, egli ignora l’importante intuizione di Georgescu-Roegen sulla base della quale una dinamica analoga a quella disegnata da Daly può forse essere vera dal punto di vista quantitativo ma non può di certo esserlo da quello qualitativo, dal momento che l’entropia tenderà a crescere in modo irreversibile in questi cicli.

Assumendo come valide le leggi della termodinamica, uno stato stazionario è dunque impossibile. Nondimeno, dati i noti limiti delle risorse naturali e l’odierna realizzabilità di numerose tecniche di riduzione delle emissioni, una diminuzione del consumo della Terra in chiave ecologica è oggi un imperativo assoluto.

I movimenti sociali stanno reclamando esattamente questo, basando le loro rivendicazione sul «programma bioeconomico minimo» che si fonda sulle otto massime di Nicholas Georgescu-Roegen, suggerite nel 1975 come una sorta di imperativo ecologico.

Il suo primo punto riguarda il disarmo degli eserciti; nel secondo, egli promuove un sostegno universale rivolto verso l’indipendenza nello sviluppo dei popoli e degli individui capace di garantire a tutti il godimento delle condizioni materiali proprie di una vita dignitosa; nel terzo, viene sostenuta la necessità di una riduzione nelle dimensioni demografiche del pianeta tale da rendere possibile il sostentamento di tutti gli esseri umani attraverso i prodotti dell’agricoltura organica; il quarto, il quinto ed il sesto punto sono connessi al tema della riduzione degli sprechi vertendo rispettivamente sulla necessità di misure volte al risparmio energetico, al blocco della produzione dei beni di lusso ed alla rimozione degli incentivi allo spreco e al sovraconsumo incoraggiati dalla moda. Giunto al settimo punto, Georgescu-Roegen afferma la necessità di una progettazione dei beni che preveda la loro riparabilità e ne riduca al massimo la potenziale obsolescenza.

Infine, contrastando la globale tendenza verso l’adozione di modelli capaci di garantire una costante accelerazione dei processi produttivi, egli propugna l’opposta necessità dell’ «imparare a rallentare».

Anche Hermann Scheer ha definito un «imperativo energetico» identificandolo come uno strumento utile allo sviluppo di azioni e obiettivi politici in grado di tener conto e di affrontare i limiti, ormai tangibili, all’utilizzazione delle risorse naturali e le pressioni sulla Terra.

L’ipotesi dell’«astronave Terra» potrebbe essere presa in considerazione, nella logica proposta da Scheer, solo nel caso in cui non prevedesse l’utilizzo di carburanti fossili ma fosse in grado di convertire in energia i raggi solari. In altre parole, il sistema energetico della Terra dovrebbe abbandonare l’attuale schema di alimentazione basato sul consumo delle risorse fossili esauribili, convertendosi altresì ad un sistema aperto dove i raggi solari costituiscano la fonte unica di sostentamento energetico.

Altrimenti, i «passeggeri» potrebbero finire come Phileas Fogg nel Giro del mondo in ottanta giorni di Julius Verne, dove, come notato da Peter Sloterdijk, «…giunto all’ultima tappa della circumnavigazione, la tappa atlantica […], esaurite le scorte di carbone […] egli comincia a bruciare la parte superiore della struttura lignea della sua stessa navicella nel tentativo di continuare ad alimentare le camere di combustione del motore. Con questa immagine della navicella di Phileas Fogg in preda all’autocombustione, Julius Verne ha fornito niente di meno che una metafora, su scala mondiale, dell’età industriale».

Qui bisogna aggiungere solo che la rotta e la velocità della barca sono determinate dalla compulsione per l’accumulazione capitalistica; solo con questo vincolo il capitano e il suo equipaggio sono pronti a navigare attorno al mondo e, inoltre, a farlo ad una velocità adeguata a raggiungere lo scopo in un tempo fortemente compresso come gli ottanta giorni di Julius Verne.

Aprire il sistema energetico del pianeta alla potenza del sole è ciò che realmente conta. Tuttavia, per assicurare che tale trasformazione non prenda le sembianze delle teorie economiche dello stato stazionario criticate da Georgescu-Roegen o delle iniziative per la decrescita, la ristrutturazione del sistema energetico planetario dovrà essere connessa con le trasformazioni sociali già in atto in alcune parti del mondo e alla base dell’«economia della solidarietà»: produzione cooperativa, protezione dei beni pubblici, democrazia economica nelle imprese, pianificazione economica dov’è utile e necessaria e reinserimento del mercato nella società.

(traduzione di Dario Guarascio)

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Fonte: sbilanciamoci.info

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