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La sesta estinzione di massa ed il progetto delle 8 “R”

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"Art" by Tiago Hoisel - (Surreal Capitalism)

“Art” by Tiago Hoisel – (Surreal Capitalism)

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Diventare atei della crescita

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L’essenza della domanda posta nel titolo del mio intervento* – “Crescita, Recessione, Decrescita, un cerchio che si chiude?” – può essere tradotta, in termini shakespeariani, come: crescere o non crescere? Una domanda che ne implica un’altra: credere o non credere? Perché, come ha spiegato bene papa Francesco, la crescita è diventata la religione del nostro tempo e noi dobbiamo diventare atei della crescita. Ma, a differenza di papa Francesco, nessun responsabile politico o economico l’ha compreso (o almeno fa finta di non averlo compreso).

Nel 2002, al convegno dei metereologi statunitensi a Silver Spring, Bush dichiarò che la crescita genera posti di lavoro, risorse pubbliche, benessere sociale, pace e anche le risorse per provvedere all’ambiente: «La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema». E se da Bush non ci si poteva aspettare altro, in realtà tutti, compreso Matteo Renzi, dicono la stessa cosa. Alla Conferenza del clima di Parigi, lo scorso dicembre, la parola proibita era “decrescita”. Quello che si doveva dire era che la battaglia contro il cambiamento climatico costituiva l’opportunità per una nuova crescita. Una crescita verde: un bell’ossimoro.

In questo quadro, non basta essere economisti; bisogna anche essere filosofi. E io partirei dall’osservazione di uno dei più grandi filosofi del nostro tempo, Woody Allen:

«Siamo arrivati all’incrocio di due strade: una porta alla scomparsa della specie, l’altra alla disperazione totale. Spero che l’umanità faccia la scelta giusta».

Sembra che il dilemma sia proprio questo.

La prima strada è quella di una società della crescita con crescita, quella su cui abbiamo camminato da due-tre secoli e soprattutto a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. È la strada che conduce a quella che gli scienziati hanno definito come sesta estinzione di massa. Rispetto alla quinta, quella dei dinosauri, risalente a sessantacinque milioni di anni fa, questa sesta estinzione presenta alcuni tratti specifici: si svolge a un’altissima velocità (ogni giorno spariscono tra le cinquanta e le duecento specie); è determinata dall’attività umana e potrebbe riguardare lo stesso essere umano.

La seconda strada, quella che conduce alla disperazione, è quella di una società della crescita senza crescita, una società in recessione. Sappiamo quale tragedia rappresenti. Ma non sono venuto qui per dire che la nostra unica scelta è tra la peste e il colera, tra la disperazione e l’estinzione. C’è, in realtà, una terza via, un piccolo sentiero che Woody Allen non ha visto e di cui pochi si sono accorti: la via della decrescita. La via dell‘uscita dal paradigma della società della crescita. Ma per capire in cosa consiste questo cammino bisogna prima analizzare e denunciare le illusioni della crescita. Un compito tutt’altro che facile, perché nessun argomento, per quanto razionale sia, può convincere qualcuno che ha fede, che ha fede nella crescita.

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COS’È LA CRESCITA?

Si pensa alla crescita, in primo luogo, come a un fenomeno biologico. E in effetti i termini “crescita” e “sviluppo” vengono dalla biologia, soprattutto evoluzionista. La crescita è la trasformazione quantitativa di un organismo nel tempo. Tutti gli organismi crescono e, nello stesso tempo in cui crescono, si trasformano. Un seme non diventa un seme gigantesco, diventa una pianta. E questo è lo sviluppo. Lo sviluppo è la trasformazione qualitativa di un fenomeno quantitativo. Lo sviluppo non è la crescita, ma non esiste uno sviluppo senza crescita. La crescita è la base dello sviluppo.

Quando gli economisti hanno preso in prestito questa metafora della crescita e dello sviluppo, si sono dimenticati però di due o tre cose. In primo luogo, l’economia non è un organismo. Si può pensare alla società umana nel suo rapporto con l’ambiente come a un organismo, come ha fatto il grande biologo britannico James Lovelock con l’ipotesi Gaia, ma l’economia può rappresentarne solo una parte. Anche i filosofi avevano pensato alle civiltà come a organismi, basti pensare a Giambattista Vico, secondo cui, proprio come gli organismi, le civiltà nascono, crescono si sviluppano e poi declinano e muoiono. L’economia non è un organismo, ma, se anche lo fosse, gli economisti si sono dimenticati che dovrebbe infine morire, postulando, al contrario, una crescita infinita. E poi gli organismi vivono con l’ambiente in un rapporto di dipendenza reciproca. Mentre gli economisti pensano che sia possibile trarre dalla natura tutte le materie prime e scaricarvi tutti i rifiuti, senza alcuna interdipendenza. Pensano di poter sfruttare senza limiti la natura come fonte di materie prime e come pattumiera.

La crescita economica, quindi, non ha niente a che vedere con la crescita degli organismi. E l’economia, come parte dell’organismo globale, deve obbedire alle leggi della biologia e prima ancora della fisica, e in particolare della termodinamica, e ancora più in particolare della seconda legge della termodinamica, quella dell’entropia, in base a cui sappiamo bene che, una volta che abbiamo bruciato i trenta litri della benzina nel serbatoio, questi litri non saranno più disponibili. Come spiega Richard Heinberg nel libro La festa è finita, la crescita è nata con i pozzi di petrolio e finirà con essi.

Che la crescita infinita in un pianeta finito sia un’assurdità dovrebbero capirlo tutti. Come diceva il grande Groucho Marx, lo capirebbe anche un bambino di cinque anni. I nostri responsabili, però, non lo capiscono. Con un tasso di crescita del 2 per cento l’anno, prolungato per un periodo di tempo di duemila anni, il Pil risulterebbe moltiplicato di 160 milioni di miliardi. Chiunque capirebbe che è impossibile far crescere il Pil di 160 milioni di miliardi. Che è impossibile far crescere di questa cifra il numero delle automobili, per esempio. Eppure, la società della crescita è basata proprio sull’assurdità di questa illimitatezza.

L’economia capitalistica, l’economia di mercato, è basata su una triplice illimitatezza: l’illimitatezza della produzione, cioè dello sfruttamento delle risorse naturali, rinnovabili e non rinnovabili; l’illimitatezza del consumo, che comporta la creazione di un numero sempre più alto di bisogni artificiali (perché, se si produce sempre di più, si deve anche consumare sempre di più); e, di conseguenza, l’illimitatezza dei rifiuti, cioè dell’inquinamento dell’aria, sempre più irrespirabile, dell’acqua, sempre meno potabile, dei mari, sempre più invasi da continenti di plastica, della terra, sempre più avvelenata e desertificata. E queste illimitatezze, soprattutto quella del consumo, funzionano in base ad alcune molle, la prima delle quali è la pubblicità, la cui funzione è renderci insoddisfatti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. Cosicché viviamo non nella società dell’abbondanza, ma in quella della frustrazione, quella in cui dobbiamo sentirci sempre frustrati e infelici per poter avere desideri da soddisfare e dunque per consumare sempre di più. La seconda molla è il credito: poiché non tutti possono soddisfare i loro desideri artificiali, quelle istituzioni filantropiche conosciute come banche sono disposte a concedere crediti. Se poi non bastano né la pubblicità né il credito c’è comunque l’obsolescenza programmata: la durata di vita dei nostri prodotti è sempre più breve, così da costringerci ad acquistarne di nuovi. La pubblicità crea un’obsolescenza psicologica, mentre la tecnica crea un’obsolescenza reale.

Quando si registra una crescita forte come quella registrata durante il trentennio d’oro, si assiste alla distruzione dell’ambiente e di parti della società, soprattutto nel Sud del mondo, ma anche alla creazione di posti di lavoro, di risorse pubbliche per finanziare l’educazione, la sanità, la cultura. Ma una società della crescita senza crescita conosce solo disoccupazione e tagli alle spese sociali.

La società della crescita con crescita è finita, ma il mito della crescita continua a operare impedendo di uscire dalla trappola di questo sistema e spingendoci nell’incubo di una società della crescita senza crescita. È per questo che bisogna costruirne una nuova: si tratta di una rivoluzione, perlomeno a livello di immaginario. Si deve decolonizzare l’immaginario dell’economicismo, superare la fede nella crescita dell’economia. E questo è il progetto della decrescita.

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COS’È LA DECRESCITA?

Prima di tutto, è uno slogan – con la funzione provocatrice propria degli slogan – che permette di capire quale assurdità rappresenti una crescita infinita in un pianeta finito. Uno slogan dietro cui c’è il concetto di una società alternativa, non basata sulla crescita infinita e sul consumo infinito. Il progetto della decrescita è quello, per dirla con le parole del collega inglese Tim Jackson, di una società di prosperità senza crescita, che è il titolo di un suo libro di alcuni anni fa, o quello, come dico io, di una società di abbondanza frugale.

Perché abbiamo lanciato questo slogan della decrescita? Lo abbiamo utilizzato per contrastarne un altro, quello mistificatorio dello sviluppo sostenibile. Un ossimoro: lo sviluppo non può essere sostenibile perché presuppone la crescita. Ed è un modo per prolungare il mito della crescita.

Il concetto di sviluppo sostenibile è legato a tre criminali dal colletto bianco, il più noto dei quali è l’imprenditore elvetico Stephan Schmidheiny, condannato dalla Corte di Appello di Torino nel processo Eternit, ma allo stesso tempo grande promotore del concetto di sviluppo sostenibile e fondatore del World Business Council for Sustainable Development, in cui sono presenti tutti i più grandi inquinatori del pianeta. Il secondo è il miliardario canadese del petrolio Maurice Strong, organizzatore della Conferenza di Rio sull’ambiente del 1992. Due veri ecologisti: uno dedito all’amianto e l’altro al petrolio. Il terzo è Henry Kissinger, che ha rappresentato gli industriali statunitensi all’indomani della Conferenza di Stoccolma del 1972. Erano gli anni del Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma e di una nuova sensibilità ecologica, al punto che il presidente della Commissione Europea, Sicco Mansholt, poneva l’accento sulla necessità di quella che lui definiva una crescita negativa (altra epoca: oggi la Commissione Europea è tra i più forti sostenitori della crescita infinita e del sistema della concorrenza sfrenata del modello ultraliberista). Il concetto che passò nel 1972 a livello di Commissione Europea – il ministro dell’economia francese Valéry Giscard d’Estaing disse che non sarebbe stato un obiettore della crescita – fu però quello di “un’altra crescita”, mentre a livello Onu si impose il concetto di ecosviluppo. Gli industriali statunitensi, tuttavia, trovavano l’espressione ancora troppo ecologista e allora Kissinger spinse per quella di sviluppo sostenibile.

Negli anni dopo la caduta del muro di Berlino, gli anni del trionfo della globalizzazione e del pensiero unico, tale espressione è diventata l’equivalente, a livello globale, del Tina (There is no alternative) di Margareth Thatcher: per l’umanità non c’è alternativa allo sviluppo sostenibile. Una promessa in grado di soddisfare tutti.

Abbiamo compreso allora la necessità di contrastare questo slogan presentando un’alternativa. Non poteva più essere il socialismo, screditato dall’esperienza dell’Unione Sovietica e privo di una reale dimensione ecologica, essendo ancora un progetto produttivista figlio dell’idea dell’illimitatezza propria della modernità. Avrebbe senso semmai parlare di ecosocialismo.

Abbiamo dunque concepito questo progetto, da me sintetizzato nella forma delle 8 “R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riusare, Riciclare. Un progetto che segna una rottura rispetto all’attuale concezione, indicando la necessità di uscire allo stesso tempo dal sistema economico e dal sistema mentale della società dei consumi, a partire da un cambiamento dei valori – Rivalutare -, fino al cambiamento dei rapporti di produzione e di distribuzione. Il progetto delle 8 “R” non è un programma politico, rappresenta un’altra concezione. Non è un progetto alternativo, è una matrice di alternative. Perché non si uscirà dal mondo a una dimensione della globalizzazione per entrare in un altro mondo dominato anch’esso dal pensiero unico. Una volta liberati dall’imperialismo dell’economia sulla nostra vita, si dovrà ricreare la diversità: la decrescita non verrà realizzata nel medesimo modo in Chiapas e in Texas. Per costruire un futuro sostenibile, si impone un cambiamento nel rapporto con la natura, nei rapporti di produzione, nei rapporti di distribuzione, ma spetta a ogni società elaborare il suo progetto specifico.

Ora la sfida più importante è come uscire da questo incubo dell’austerità. Ci sono proposte di buoni economisti neokeynesiani, come Paul Krugman o Joseph Stiglitz, ma tutti mirano a uscire dall’austerità per rilanciare la crescita. Noi, invece, vogliamo uscire dall’austerità per intraprendere un percorso di alternative per un’altra società. Sono stato invitato dai deputati verdi greci a Bruxelles a parlare di decrescita. L’avevo fatto anche con Tsipras prima che diventasse primo ministro: purtroppo ha poi pensato di potersela cavare senza cambiare strada, senza fare una rivoluzione. Neppure Hollande, del resto, ha fatto nulla di ciò che aveva promesso. Il fatto è che nell’attuale sistema non si può fare a meno di operare una rottura iniziale.

Per risolvere il primo problema, quello della disoccupazione, le strade da percorrere sono: rilocalizzare, riconvertire, ridurre. Il termine rilocalizzare significa de-mondializzare, rilanciare a livello locale una vita economica, sociale, politica, culturale. La globalizzazione è stata un gioco al massacro su scala planetaria. In realtà il mondo è globalizzato da quando gli amerindiani hanno scoperto Cristoforo Colombo. Quel che c’è stato di nuovo non è stata la mondializzazione dei mercati, ma la mercificazione del mondo. Questa è la verità della globalizzazione. La concorrenza, parola d’ordine dell’Unione Europea, è stata già sintetizzata due secoli fa nell’espressione “libera volpe in libero pollaio”. È una truffa. Per prima cosa, bisogna interrompere la distruzione del tessuto industriale. La libera volpe europea ha distrutto i contadini cinesi e la libera volpe cinese distrugge il nostro tessuto industriale. Va dunque fermato questo gioco al massacro globale per creare nuovi posti di lavoro.

Passando al termine riconvertire, è vero che si possono utilizzare “energie della disperazione” come il gas di scisto o l’energia nucleare, ma non si potrà comunque produrre energia in maniera indefinita. Serve una riconversione verso l’energia rinnovabile, la quale, se consente di vivere bene, non permette però di crescere all’infinito, né di portare avanti l’attuale società dello spreco, dove il 40 per cento del cibo prodotto viene gettato via, senza contare tutto ciò che comporta l’obsolescenza programmata: ogni mese partono dagli Stati Uniti ottocento navi pieni di computer, cellulari ecc., costruiti con minerali preziosi per i quali le transnazionali scatenano guerre in Africa e che vanno a inquinare le falde freatiche della Nigeria o del Ghana, dove poi vengono scaricati selvaggiamente i rifiuti, i cui fumi tossici vengono respirati dai bambini e dalle bambine che cercano di recuperare i materiali. Un incubo totale.

Riconvertire l’energia, dunque. E riconvertire l’agricoltura. Diceva l’ex responsabile della Fao Olivier De Schutter: «Non sono sicuro – in realtà lui lo era – che l’agricoltura biologica possa nutrire 12 miliardi di persone alla fine del secolo, ma sono sicuro che l’agricoltura produttivista non potrà farlo», in quanto basata sul petrolio. Pensiamo solo che un chilo di bistecca corrisponde a sei litri di petrolio, e il petrolio non ci sarà più. Che ogni anno trasformiamo 16-17 milioni di ettari in deserto, in quanto i pesticidi sono biocidi, distruggono tutto ciò che fa vivere il suolo. Che distruggiamo ogni anno 16 milioni di ettari di foreste per far posto alla soia, all’olio di palma, ecc., e presto non vi saranno più alberi da distruggere. Quello che serve è un’agricoltura senza pesticidi e senza concimi chimici: non un ritorno al passato, ma la creazione di una nuova agricoltura che necessiterà almeno del 10 per cento della popolazione attiva, anziché, come oggi, di meno del 3 per cento.

Infine ridurre, cominciando dagli orari di lavoro. Quando i socialisti conservavano ancora qualcosa di socialista, dicevano: lavorare meno, lavorare tutti. Lo slogan dell’ex presidente francese, “lavorare di più per guadagnare di più”, era un’assurdità, perché, in base alla legge della domanda e dell’offerta, se si lavora di più, aumenta l’offerta, ma, poiché la domanda resta più bassa, il risultato è il calo del prezzo del lavoro, che è lo stipendio. Allora lavorare sempre più significa guadagnare sempre meno ed è proprio questo che si è verificato negli ultimi anni. Si lavora sempre di più e gli stipendi sono sempre più bassi. Invece, lavorare meno per lavorare tutti e soprattutto per vivere meglio. Dunque, riduzione drastica degli orari di lavoro fino alla piena occupazione; questo è un primo passo nel sentiero della decrescita. Ritrovare il senso della vita, che non è solo lavoro, perché, come sapevano i nostri antenati, la vita contemplativa – giocare, pensare, pregare, meditare, sognare – è più importante della vita attiva. È così che si cammina verso la società della decrescita, o dell’abbondanza frugale, che sembra un ossimoro ma non lo è. In realtà, quella in cui viviamo è una società dello spreco, della scarsità e della frustrazione, in cui i beni fondamentali, il cibo sano, un’aria pulita, un’acqua non contaminata, quasi non esistono più. Una società felice consuma poco, per indurre a consumare bisogna creare insoddisfazione. Una società può conoscere l’abbondanza solo se sappiamo mettere dei limiti ai nostri desideri e questa autolimitazione si chiama frugalità, conditio sine qua non dell’abbondanza.

Questo progetto costituisce una soluzione alla crisi sociale, alla crisi ecologica, alla crisi economica e alla crisi culturale. E allora o intraprendiamo questa strada della decrescita, dell’ecosocialismo democratico, dell’abbondanza frugale, o siamo condannati a un’altra forma di barbarie.

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Intervento pronunciato da Latouche al Cantiere del Cipax, tratto da una registrazione e non rivisto dall’autore, pubblicato da Adista.

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Da: Comune-info

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Approfondimento

Serge Latouche

Decrescita

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Rinunciò ad un guadagno di 7 miliardi di dollari. Grazie dr. Salk, “l’uomo dei miracoli”.

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Dr. Jonas Edward Salk (New York, 28 ottobre 1914 – La Jolla, 23 giugno 1995)

La copertina del Time dedicata al dr. Jonas Edward Salk  (1914 – 1995)

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Il medico miliardario incontri il dottor Salk

di Sam Pizzigati 

Il dottor Patrick Soon-Shiong ha contribuito a fare una parte della storia della medicina. Il buon dottore detiene più di 95 brevetti. E uno dei farmaci che ha ideato e sviluppato, l’Abraxane, impedisce alle cellule cancerose di dividersi.

Quale ricompensa personale merita il dottor Soon-Shiong per contributi come questi? Naturalmente nessuno in definitiva è in grado di dirlo. Quale importo in termini di ricompensa personale ha effettivamente incassato il dottor Soon-Shiong nel corso della sua carriera di medico? Questa cifra siamo in grado di individuarla.

Il dottor Soon-Shiong, ci dicono i segugi della ricchezza di Bloomberg, ha accumulato una fortuna personale pari a 9,7 miliardi di dollari. Il dottor Soon-Shiong è attualmente amministratore delegato della NantKwest, una società di San Diego che si occupa di ricerche sul cancro. La remunerazione contrattuale che ha concordato l’anno scorso, abbiamo appena appreso da documenti richiesti, gli frutterà almeno 148 milioni di dollari per il suo lavoro di amministratore delegato, e forse sino a 330 milioni di dollari.

Queste somme vi colpiscono come un tantino eccessive? Gli ammiratori del dottor Soon-Shiong non la pensano per nulla così. Il progresso medico, ritengono, richiede compensi da capogiro. La possibilità di diventare spettacolarmente ricchi, è la loro tesi, offre a medici come il dottor Soon-Shiong un incentivo a lavorare ancor più intensamente per vincere il cancro e qualsiasi altro male ci affligga.

Ma medici brillanti, ci dimostra la storia, non hanno bisogno dell’incentivo di diventare favolosamente ricchi per fare le loro scoperte epocali. Certamente non ne ebbe bisogno il dottor Jonas Salk.

Negli anni ’50 Salk sviluppò il primo vaccino efficace contro la polio, la malattia che terrorizzava le giovani famiglie statunitensi negli anni appena dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1952, l’anno del picco dell’epidemia della polio, i responsabili della sanità statunitense contarono 58.000 casi, con i bambini che costituivano il maggior numero delle vittime. In quell’anno morirono più di 3.100 bambini. Molte migliaia di altri affrontarono una vita nel “polmone d’acciaio”.

La tenace ricerca di Salk portò una vera speranza nelle famiglie. Nel 1954 una vasta verifica sul campo del suo nuovo vaccino fu superata a pieni voti. Le vaccinazioni di massa iniziarono nel 1955.

Nel giro di pochi anni la polio era virtualmente scomparsa. Il presidente del consiglio di amministrazione dell’American Medical Association si sarebbe spinto a definire questo risultato importantissimo “una dei più grandi eventi della storia della medicina”. Nessuno dissentì.

E quanti milioni raccolse il dottor Jonas Salk da questo impressionante successo medico? Nemmeno uno. Salk, figlio di un operaio dell’industria dell’abbigliamento a New York City, sentì di non avere alcun diritto a ricavare una fortuna dalla sua ricerca. Non registrò mai un brevetto che avrebbe “monetizzato” il vaccino a suo favore.

Salk ne spiegò il motivo in un’intervista nazionale in diretta condotta dal più famoso giornalista dell’epoca, Edward R. Murrow.

“Chi è proprietario del brevetto di questo vaccino?” chiese Murrow al medico appena diventato famoso.

“Beh, la gente, direi”, rispose Salk. “Non c’è nessun brevetto. Si può brevettare il sole?”

Quanto è costato personalmente a Salk questo approccio ispirato a senso civico nella lotta alla polio? Un’analisi di Forbes ha concluso nel 2012 che Salk “sarebbe stato di 7 miliardi di dollari più ricco” se avesse brevettato il suo vaccino.

Alcuni potrebbero sostenere che dovremmo considerare Salk un caso speciale, il genere di figura di santo che spunta fuori una volta ogni millennio, o giù di lì. Non dovremmo considerare il suo esempio, sostiene questa ottica, un precedente realistico per come dovremmo aspettarci si comportino i ricercatori della medicina.

Ma Salk, ai suoi tempi, fu tutt’altro che un caso unico. Il suo principale concorrente nella medicina, Albert Sabin, sviluppò anch’egli un vaccino efficace e potente contro la polio negli anni ’50. Nemmeno Sabin brevettò il suo lavoro a fini di profitto personale.

Gli Stati Uniti della metà del ventesimo secolo sembrano aver abbondato di talenti ispirati da senso civico, come Salk e Sabin. Ciò non dovrebbe sorprenderci. Le norme del gioco economico negli Stati Uniti della metà del ventesimo secolo incoraggiavano i comportamenti ispirati a senso civico.

Gran parte di tale incoraggiamento derivava dal codice fiscale federale. Negli anni ’50 le aliquote fiscali scoraggiavano attivamente l’avidità e l’arraffamento. I redditi superiori a 400.000 dollari – circa 3,5 milioni di dollari attuali – erano soggetti a un’aliquota fiscale del 91 per cento.

Questa aliquota fiscale salata sullo scaglione superiore del reddito trasmetteva un chiaro messaggio sociale: ci sono cose che contano più del fare tonnellate di quattrini. Le nostre aliquote fiscale contemporanee, per contro, non trasmettono tale messaggio. Oggi i super-ricchi – statunitensi che incassano di routine più di 100 milioni di dollari l’anno – raramente pagano più del 25 per cento di tasse federali sui loro redditi complessivi.

Prelievi fiscali così delicati incoraggiano gli imprenditori odierni della medicina a darsi alla corsa all’oro ogni volta che se ne presenta l’occasione. Si consideri l’oro che attende Joseph Papa, il nuovo amministratore delegato della Valeant Pharmaceuticals. Il nuovo contratto di Papa, segnala la rivista Fortune, gli consegnerà la sbalorditiva somma di 500 milioni di dollari se il prezzo delle azioni della Valeant toccherà i 270 dollari per azione, il livello intorno al quale si sono mosse le azioni della società a luglio dell’anno scorso.

La prospettiva di una manna così incredibile dà a Papa un enorme incentivo: a spingere in alto il prezzo delle azioni della Valeant con ogni mezzo necessario. Quanto maggiore sarà il profitto che sarà in grado di spremere dai farmaci che la Valeant commercializza, tanto maggiore la manna personale che giungerà a intascare e a tenersi.

La Valeant sta già spremendo a un ritmo fenomenale. La società è specializzata nell’acquistare brevetti di farmaci e poi aumentare rapidamente i prezzi dei suoi farmaci nuovi a qualsiasi livello il mercato sia in grado di sopportare.

In base alle norme attuali sui brevetti questa strategia ha uno spiccato senso economico. I ritorni possono essere dell’altro mondo. Dal 2013, ad esempio, la Valeant ha aumentato il prezzo del Cuprimine, un farmaco per una malattia rara, del 5.787 per cento!

Gli utili risultanti hanno fatto della Valeant una preferita dei fondi speculativi. I pazienti e le loro famiglie – e i medici che avvertono una vera responsabilità professionale nei loro confronti – hanno meno motivi per esultare.

“Passiamo un mucchio di tempo con i nostri pazienti a parlare delle scelte sulla base di ciò che possono o non possono permettersi”, spiega il dottor Richy Agajanian, un oncologo californiano. “Da medici dobbiamo costantemente fare le acrobazie tra ciò che è meglio per i pazienti e ciò che possono permettersi”.

Come possiamo superare tutte queste acrobazie? Avere in circolazione un numero maggiore di dottori Salk e dottori Sabin ispirati da senso civico sarebbe d’aiuto. Ma c’è una cosa di cui abbiamo ancor più bisogno: norme ispirate all’egualitarismo per la nostra economia – su ogni cosa, dai brevetti alle imposte – che rendano il senso civico la sola scelta logica.

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Sam Pizzigati, membro associato dell’Institute for Policy Studies, co-dirige Inequality.org. Il suo libro più recente: The Rich Don’t Always Win: The Forgotten Triumph over Plutocracy that Created the American Middle Class, 1900–1970 [I ricchi non vincono sempre: il trionfo dimenticato sulla plutocrazia che creò la classe media statunitense, 1900-1970] (Seven Storie Press). Seguitelo su Twitter @Too Much Online.

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Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: ZNetItaly

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Migranti – “Oggi a me, domani a te”

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  Nelle braccia del padre: sopravvissuti a un naufragio davanti a Lesbo il 24 settembre 2015 (Foto Lapresse/Reuters)

Nelle braccia del padre: sopravvissuti a un naufragio davanti a Lesbo il 24 settembre 2015 (Foto Lapresse/Reuters)

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di Pio Russo Krauss

Immaginate che in Italia da anni ci sia un Governo dispotico e che una buona parte della popolazione, non potendone più, scenda in piazza. Immaginate che la repressione sia particolarmente dura, con centinaia di morti e migliaia di arresti e di persone torturate e che chi è sospettato di essere un oppositore rischia il posto, il carcere, discriminazioni e violenze. Immaginate che alcuni gruppi rispondano con le armi alla repressione e riescano anche a conquistare alcune cittadine. Immaginate che i gruppi armati velocemente si moltiplichino, ognuno finanziato da una diversa potenza straniera che ha mire sull’Italia. Queste potenze (insieme a idioti e furbi, che non mancano mai) riescono a rinfocolare divisioni come quelle tra abitanti del Nord e del Sud, tra credenti e non credenti, tra cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, tra conservatori e progressisti, tra chi ha un dialetto e chi un altro. Immaginate che Napoli sia prima controllata da fanatici nordisti che stuprano le donne, ammazzano i resistenti, vi privano della libertà di circolare liberamente, riunirvi con amici, parlare in dialetto (e che ogni infrazione a questi divieti può significare diventare prigioniero o peggio). Immaginate che il Governo, per cacciare questi fanatici, bombardi la città, distruggendo case, scuole, uffici, ospedali e facendo centinaia di morti e migliaia di feriti. Immaginate che i generi di prima necessità inizino a scarseggiare e a costare sempre di più, che scuole e Università funzionino a singhiozzo, che molte attività produttive chiudano, che l’assistenza sanitaria entri in crisi, che l’ordine pubblico non sia più garantito. Immaginate che gruppi di fanatici islamici di efferata violenza, abbiano preso il controllo di Salerno e che si è sparsa voce che presto arriveranno a Napoli, e che è molto probabile che l’aviazione governativa o di qualche potenza straniera, per fiaccare questi fanatici, lancerà missili e bombe sulla nostra città.

Riuscite a immaginare lo stato d’animo vostro e dei vostri cari? Riuscite ad immaginare la paura, il terrore, la disperazione, la rabbia per essere piombati in questo incubo senza via d’uscita? Di fronte ad una tale situazione non decidereste di andare via voi e i vostri cari, costi quel che costi?

E’ quello che hanno fatto 11 milioni di siriani (più della metà dell’intera popolazione della Siria) e 3 milioni di cittadini di Paesi sub-sahariani (Sud Sudan, Sudan, Repubblica Centrafricana, Eritrea, Somalia ecc.).

6,5 milioni di siriani sono fuggiti in altre zone del Paese, 4,8 milioni fuori dai confini nazionali. Di questi quasi 2 milioni sono in Turchia (1 rifugiato ogni 35 cittadini turchi), 1.100.000 in Libano (un rifugiato ogni 4 Libanesi), 650.000 in Giordania (un rifugiato ogni 10 Giordani), 130.000 in Egitto (1 ogni 630 egiziani), 100.000 in Germania (1 ogni 800 Tedeschi), 65.000 in Svezia (1 ogni 147 Svedesi), 50 in Serbia (1 ogni 143 Serbi), 18.000 in Austria (1 ogni 467 austriaci), 6.000 in Francia (1 ogni 11.000 Francesi), 2.000 in Italia (1 ogni 3.000 Italiani) [1].

I trattati internazionali stabiliscono che bisogna accogliere e dare protezione a chi fugge da guerre o persecuzioni. E’ la concretizzazione di un principio etico basilare e antico: bisogna aiutare chi è in pericolo. Principio che si basa sulla semplice considerazione che tutti possiamo trovarci in pericolo, che “oggi a te, domani a me”. Nelle legislazioni questo principio di fraternità e buon senso si è concretizzato in un reato, l’omissione di soccorso, che è punito anche con 3 anni di carcere. E a nulla valgono davanti al giudice giustificazioni tipo “Eravamo in 5 in auto, per cui non abbiamo potuto portarlo al pronto soccorso” o “Se lo aiutavamo ci perdevamo buona parte del film o della partita” o ancora “Dedicando il mio tempo ad aiutare quel disgraziato sarei arrivato tardi al lavoro avendo un danno economico o perdendo un buon affare”. Insomma, davanti ad una persona che è in pericolo ogni altra istanza passa in secondo piano: la priorità è aiutarla e fare in modo che esca da quella situazione critica.

Purtroppo i Paesi europei (Italia compresa) non si stanno comportando così. La loro priorità è impedire ai profughi di raggiungere il proprio territorio.

La dimostrazione sono i 6 miliardi di euro dati alla Turchia (un Paese che è al primo posto per le violazioni del trattato sui diritti umani firmato da 47 Paesi dell’area europea) perché fermi i profughi, gestisca l’accoglienza (sic!) e i rimpatri, e limiti l’ingresso nei Paesi UE solo a 72.000 rifugiati e solo dopo che si troverà un accordo su come devono essere distribuiti tra i Paesi dell’Unione. Un accordo fortemente criticato da tutte le organizzazioni che difendono i diritti umani (“Un colpo di proporzioni storiche ai diritti umani” secondo Amnesty International) e che, malgrado questo, secondo le intenzioni del nostro presidente del Consiglio, deve essere un modello da replicare anche con la Libia (sic!). Ma possibile che non si chiedano come possono questi Paesi offrire una protezione umanitaria adeguata ai rifugiati stranieri quando non riescono a offrirla ai propri cittadini?

La politica dell’Europa sui migranti non solo è una palese violazione dei diritti umani e di basilari principi morali, è anche una violazione del trattato di Ginevra e di altri impegni internazionali solennemente sottoscritti. Non arresterà questo flusso di disperati, renderà solo la loro fuga più pericolosa. Secondo uno studio coordinato dall’Università di Birmingham, infatti, le politiche messe in atto dai Paesi europei hanno aumentato il rischio di morte per chi fugge dalla Siria: era di 1 ogni 1.000 persone, ora è diventato di 1 ogni 400 persone[1].

E’ anche una politica miope, perché la maggioranza dei profughi di guerra ritornano nella loro patria quando la situazione si calma e migliora, e si ricordano di come sono stati trattati dai Paesi dove sono fuggiti. Questo mare di soldi poteva, quindi, essere speso per creare corridoi umanitari, sostenere le famiglie e le comunità che sono disposte ad accogliere questi nostri fratelli, favorire una distribuzione che non determini problemi e conflitti e creare così le premesse per futuri buoni rapporti con Paesi importanti dal punto di vista geopolitico.

Per fortuna ci sono le tante associazioni di volontari che si spendono per assistere profughi e migranti, ci sono amministrazioni di piccoli comuni (per esempio Satriano, Santorso, Sant’Alessio in Aspromonte, Chiesanuova, Santa Marina ecc.) che dimostrano più intelligenza e umanità dei leader europei, accogliendo molti migranti e facendone uno strumento di sviluppo culturale ed economico, ci sono le popolazioni di Lesbo, Lampedusa, Chios, che, avendo visto con gli occhi, ascoltato con le orecchie e toccato con mano la tragedia di queste persone, li hanno sentiti fratelli e come tali li hanno accolti.

Vogliamo invitarvi a guardare con attenzione il piccolo album di foto presente a questo link www.avvenire.it/Mondo/Pagine/foto-reuters-migranti-premio-pulitzer.aspx.

Fatelo circolare tra i vostri contatti, perché spesso un’immagine è più eloquente di tanti discorsi e perché tra quei volti, poteva esserci il nostro.

Note:

1) dati UNCHR relativi a giugno 2015;

2) www.compas.ox.ac.uk/media/PB-2016-MEDMIGUnpacking_Changing_Scenario.pdf

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Fonte: Associazione Marco Mascagna

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