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Crisi ucraina e il principio di “Non Primo Uso” delle armi nucleari

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Dichiarazione di Daisaku Ikeda sulla crisi ucraina e sul principio di “Non Primo Uso” delle armi nucleari

Di Daisaku Ikeda

12 gennaio 2023

La crisi ucraina, scoppiata nel febbraio dello scorso anno, continua senza prospettive di cessare.
L’intensificarsi delle ostilità ha inflitto grandi sofferenze nei centri abitati e distrutto le infrastrutture, costringendo un gran numero di civili, tra cui molti bambini e donne, a vivere in uno stato di costante pericolo. Più di 7,9 milioni di persone sono state costrette a trovare rifugio in altri Paesi europei e circa 5,9 milioni sono sfollate all’interno della stessa Ucraina.

La storia del XX secolo, che ha visto gli orrori causati da due conflitti globali, avrebbe dovuto insegnare che nulla è più crudele e miserabile della guerra. Quando ero adolescente, durante la seconda guerra mondiale, ho assistito al bombardamento di Tokyo. Ancora oggi, ricordo vividamente di essere stato separato dai membri della mia famiglia mentre fuggivamo disperatamente attraverso un mare di fiamme, e di aver saputo che erano salvi solo il giorno successivo. Mi è rimasta indelebile anche l’immagine di mia madre, con la schiena scossa dai singhiozzi dopo che le fu comunicato che mio fratello maggiore, che era stato arruolato e aveva assistito con angoscia alle barbarie commesse dal Giappone, era stato ucciso in battaglia.
Quante persone hanno perso la vita o i mezzi di sostentamento nella crisi in corso, quante hanno visto il proprio stile di vita e quello delle loro famiglie improvvisamente e irrevocabilmente alterato?

Per la prima volta in quarant’anni, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha chiesto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di convocare una sessione speciale d’emergenza basandosi sulla risoluzione Uniting for peace (la risoluzione 377 A dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1950 n.d.t.). Successivamente, il Segretario generale António Guterres si è impegnato ripetutamente con i leader nazionali di Russia, Ucraina e altri Paesi per cercare una mediazione. Eppure, la crisi continua. Non solo ha acuito le tensioni in tutta Europa, ma ha avuto anche gravi ripercussioni su molti altri Paesi sotto forma di restrizioni dei rifornimenti alimentari, impennate dei prezzi dell’energia e blocco dei mercati finanziari. Questi sviluppi hanno accresciuto la disperazione di un gran numero di persone in tutto il mondo, già afflitte da eventi meteorologici estremi causati dal cambiamento climatico e dalla sofferenza e dalla morte causate dalla pandemia da COVID-19.

È cruciale trovare una soluzione per evitare un ulteriore peggioramento delle condizioni in cui versano le persone in tutto il mondo, per non parlare del popolo ucraino che è costretto a vivere con forniture di elettricità inadeguate e incerte in un inverno sempre più rigido e in un conflitto militare sempre più intenso. Invito pertanto a organizzare urgentemente un incontro, sotto l’egida delle Nazioni Unite, tra i ministri degli Esteri di Russia, Ucraina e altri Paesi chiave, al fine di raggiungere un accordo sulla cessazione delle ostilità. Chiedo inoltre di intraprendere serie discussioni volte alla realizzazione di un vertice che riunisca i capi di tutti gli Stati interessati al fine di trovare un percorso per il ripristino della pace. Quest’anno ricorrono gli ottantacinque anni dall’adozione, da parte dell’Assemblea Generale della Società delle Nazioni, di una risoluzione sulla protezione dei civili dai bombardamenti aerei. È anche il settantacinquesimo anniversario dell’adozione da parte delle Nazioni Unite della Dichiarazione universale dei diritti umani, che esprimeva il voto comune di realizzare una nuova era in cui la dignità umana non sarebbe mai più stata calpestata e abusata. Ricordando l’impegno a proteggere la vita e la dignità che è alla base del Diritto internazionale umanitario e del Diritto Internazionale dei Diritti umani, esorto tutte le parti a porre fine al più presto all’attuale conflitto.

Oltre a chiedere una risoluzione quanto più rapida possibile della crisi ucraina, desidero sottolineare l’importanza cruciale di attuare misure per prevenire l’uso o la minaccia di uso di armi nucleari, sia nella crisi attuale sia in quelle future.

Con il protrarsi del conflitto e l’inasprimento della retorica nucleare, il rischio che queste armi vengano effettivamente utilizzate è oggi al livello più alto dalla fine della Guerra Fredda. Anche se nessuna delle parti cerca la guerra nucleare, la realtà è che, con gli arsenali nucleari in continuo stato di massima allerta, è notevolmente aumentato il rischio di un uso involontario di armi nucleari come risultato di un errore di dati, di un incidente imprevisto o di confusione provocata da un attacco informatico.

L’ottobre dello scorso anno ha segnato il sessantesimo anniversario della Crisi dei Missili di Cuba, che portò il mondo a un passo dalla guerra nucleare. Nello stesso periodo la Russia e la NATO hanno organizzato esercitazioni dedicate alle proprie squadre di comando nucleare. Alla luce delle tensioni crescenti, il Segretario Generale Guterres ha sottolineato che le armi nucleari «non offrono alcuna sicurezza – solo carneficina e caos». [1] Essere consapevoli di questa realtà deve essere il fondamento comune per la vita nel XXI secolo. Come affermo da tempo, se consideriamo le armi nucleari solo dal punto di vista della sicurezza nazionale, rischiamo di trascurare questioni di importanza fondamentale. Nelle mie quaranta proposte di pace annuali pubblicate a partire dal 1983, ho sostenuto che la natura disumana delle armi nucleari deve essere il fulcro di qualsiasi discorso o discussione. Ho anche sottolineato la necessità di affrontare apertamente l’irrazionalità delle armi nucleari, con la loro capacità di distruggere e rendere illeggibili tutte le prove delle nostre vite individuali e dei nostri impegni condivisi come società e civiltà.

Un altro punto che desidero sottolineare si potrebbe definire come un’attrazione gravitazionale negativa insita nelle armi nucleari. Intendo con ciò che l’escalation delle tensioni legate al possibile uso di armi nucleari crea un senso di urgenza e di crisi che tiene in pugno le persone come una sorta di forza gravitazionale, privandole della capacità di fermare l’intensificazione del conflitto.
Durante la Crisi dei Missili di Cuba, il Segretario Generale sovietico Nikita Krusciov (1894–1971) scrisse al Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy (1917–63): «Arriverà il momento in cui il nodo sarà così stretto che neanche coloro che lo hanno legato potranno scioglierlo, e sarà dunque necessario reciderlo… ». [2] Dal canto suo, si riporta che Kennedy disse che il mondo sarebbe rimasto ingestibile fino a quando fossero esistite le armi nucleari. Queste dichiarazioni esprimono quanto i leader delle due potenze nucleari fossero consapevoli che le circostanze del tempo erano fuori dal loro controllo. Se si dovesse arrivare a prendere in considerazione il lancio di missili armati di testate nucleari, non ci sarebbe né il tempo né la capacità delle istituzioni di sondare le opinioni dei cittadini delle parti in conflitto, tanto meno quelle dei popoli del mondo, su come evitare gli orrori catastrofici che si scatenerebbero. La politica di deterrenza dipendente dalle armi nucleari è il modo in cui uno Stato cerca di esercitare il proprio controllo e affermare la propria autonomia. Ma quando si raggiunge il precipizio e si è sull’orlo dell’abisso, i cittadini di quello Stato e del mondo finiscono per essere intrappolati, privati di ogni libertà d’azione. Questa è la realtà delle armi nucleari, rimasta immutata dall’inizio della Guerra Fredda, una realtà che sia gli Stati dotati di armi nucleari sia quelli dipendenti dal nucleare devono affrontare in tutta la sua durezza.

Nel settembre 1957, quando il mio maestro, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda (1900-58), lanciò il suo appello per la messa al bando delle armi nucleari, la corsa agli armamenti nucleari stava rapidamente accelerando: i test di lancio di missili balistici intercontinentali erano riusciti, e ciò significava che ogni luogo della Terra diventava ora un potenziale obiettivo di un attacco nucleare. Pur rilevando l’importanza della crescita del movimento che chiedeva di mettere fine ai test nucleari, Toda era convinto che la soluzione definitiva al problema risiedesse nel totale rifiuto di ogni forma di pensiero che ne giustificasse il loro uso. Quando diede voce alla sua determinazione di “denudare e strappare gli artigli che si celano nelle estreme profondità di simili ordigni”[3], espresse la sua indignazione nei confronti di quelle logiche che ammettevano la possibilità di sottoporre l’umanità a tali orrori catastrofici. Il fulcro della sua Dichiarazione risiedeva nell’appello a un profondo autocontrollo da parte di coloro che occupano posizioni di autorità politica, che hanno in mano la vita o la morte di un gran numero di persone. Un altro obiettivo era contrastare il senso di rassegnazione delle persone di fronte alle armi nucleari, la sensazione che le proprie azioni non possano cambiare il mondo. In questo modo, ha cercato di aprire una strada che permettesse ai cittadini comuni di essere i protagonisti dell’impegno della messa al bando le armi nucleari. Toda considerava questa Dichiarazione come espressione delle ultime e fondamentali istruzioni che lasciava ai suoi discepoli; io ho inteso le sue parole come un appello a tracciare una linea che non dovrà mai essere oltrepassata, un’indispensabile indicazione per il futuro dell’umanità. Per far sì che ciò diventasse realtà, nei miei incontri con i leader politici e intellettuali di diversi Paesi, ho continuato a sottolineare l’assoluta necessità di risolvere la questione delle armi nucleari. Allo stesso tempo, con l’obiettivo di porre fine all’era delle armi nucleari, la Soka Gakkai Internazionale (SGI) ha allestito una serie di mostre e si è impegnata in iniziative educative di sensibilizzazione nei Paesi di tutto il mondo.

Nel 2007, cinquantesimo anniversario della dichiarazione di Toda, la SGI ha lanciato People’s Decade for Nuclear Abolition e, collaborando con la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (ICAN), iniziata nello stesso periodo, ha lavorato per la realizzazione di uno strumento giuridicamente vincolante per mettere al bando le armi nucleari.
Il desiderio e la determinazione della società civile, rappresentata dalle vittime dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, che la tragedia dell’uso delle armi nucleari non debba mai più essere vissuta dalla popolazione di nessun Paese, si sono cristallizzati nel 2017 con l’adozione del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), entrato in vigore nel 2021. Questo, per noi, ha rappresentato un progresso verso la realizzazione della Dichiarazione lasciata in eredità da Josei Toda.
Il TPNW mette completamente al bando tutti gli aspetti delle armi nucleari, non solo il loro uso o la minaccia di uso, ma anche il loro sviluppo e possesso. Per quanto gli Stati che possiedono armi nucleari possano trovare difficoltà ad abbracciare il Trattato, dovrebbe almeno esserci un riconoscimento comune e condiviso dell’importanza di prevenire le conseguenze catastrofiche del loro uso. Oltre a ridurre le tensioni con l’obiettivo di risolvere la crisi in Ucraina, ritengo di fondamentale importanza che gli Stati possessori di armi nucleari intraprendano azioni per ridurre i rischi nucleari allo scopo di garantire che non si verifichino – né ora né in futuro – situazioni in cui si profila la possibilità dell’uso di armi nucleari. È in quest’ottica che, nel luglio dello scorso anno, ho rilasciato una dichiarazione alla Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (NPT) in cui esortavo i cinque Stati dotati di armi nucleari a impegnarsi prontamente e senza ambiguità a non essere mai i primi a lanciare un attacco nucleare, adottando quindi il principio del “Non Primo Uso”.

Purtroppo, la Conferenza di revisione del NPT di agosto non è riuscita a raggiungere un consenso per la stesura di un documento finale. Ma questo non significa affatto che gli obblighi di disarmo nucleare stabiliti nell’articolo VI del Trattato non siano più validi. Come indicano le varie bozze del documento finale, c’è stato un ampio sostegno per le misure di riduzione del rischio nucleare, come l’adozione di politiche di “Non Primo Uso” e l’estensione delle garanzie negative di sicurezza, attraverso le quali gli Stati dotati di armi nucleari si impegnano a non usare mai le armi nucleari contro gli Stati che non le possiedono.

Sulla base di queste delibere, è assolutamente necessario sostenere lo stato di “Non Primo Uso”, che nonostante tutto è stato mantenuto negli ultimi settantasette anni, e far avanzare il processo di disarmo nucleare verso l’obiettivo dell’abolizione. Esiste già una base comune da cui partire: la dichiarazione congiunta rilasciata lo scorso gennaio (2022) dai leader di Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina, nella quale affermano che “una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta”[4]. Durante la Conferenza di revisione del Trattato NPT, molti governi hanno richiamato i cinque Stati nucleari al rispetto di quanto dichiarato a gennaio, e a mantenere una posizione di autocontrollo. I rappresentanti di questi cinque Stati hanno tutti fatto riferimento alla dichiarazione congiunta nel parlare delle proprie responsabilità in quanto Stati nucleari. Utilizzando l’esempio di un cerchio per descrivere la responsabilità degli Stati dotati di armi nucleari nel mantenere l’autocontrollo sull’uso di tali ordigni, l’impegno espresso nella dichiarazione congiunta di prevenire la guerra nucleare costituirebbe la metà di tale cerchio. Tuttavia, questo da solo non è sufficiente per eliminare completamente la minaccia dell’uso di armi nucleari. Credo che la chiave per risolvere questa sfida sia che gli Stati si impegnino a adottare il principio di “Non Primo Uso”. Durante la Conferenza di revisione del NPT, la SGI ha collaborato con altre organizzazioni e ONG per organizzare un evento collaterale alle Nazioni Unite incentrato sull’urgenza di adottare questo principio, e sono certo che se le promesse del “Non Primo Uso” saranno collegate alla dichiarazione congiunta di gennaio, il cerchio potrà essere completato, contenendo la minaccia nucleare che da tempo incombe sul mondo e aprendo così la strada per compiere finalmente progressi sul disarmo nucleare. Lo scorso novembre, il Toda Peace Institute, da me fondato, ha organizzato in Nepal un laboratorio per promuovere questo tipo di cambiamento di paradigma. I partecipanti hanno concordato sulla necessità che il Pakistan si unisca alla Cina e all’India nel dichiarare l’impegno a adottare il “Non Primo Uso”, affermando così questo principio in tutta la regione dell’Asia meridionale. Hanno inoltre condiviso opinioni sull’importanza di stimolare il dibattito internazionale sul “Non Primo Uso”, in modo da consentire a tutti gli Stati dotati di armi nucleari di compiere passi in questa direzione. Questo mi riporta alla mente il punto di vista del dottor Joseph Rotblat (1908-2005), che per molti anni è stato presidente del PUGWASH (Pugwash Conferences on Science and World Affairs). Nel dialogo che abbiamo pubblicato insieme parlò di un accordo sul “Non Primo Uso”, affermando che sarebbe il passo più importante verso l’abolizione totale delle armi nucleari e chiedendo la realizzazione di un trattato a tal fine.

Il professor Rotblat era anche profondamente turbato dai pericoli insiti nelle politiche di deterrenza dipendenti dalle armi nucleari e radicate in un clima di paura reciproca. Le strutture di base della deterrenza nucleare non sono cambiate negli anni successivi al nostro dialogo del 2005, e la crisi attuale ha messo in evidenza la necessità vitale per l’umanità di superare queste politiche. L’impegno a adottare il principio di “Non Primo Uso” delle armi nucleari è una misura che gli Stati dotati di armi nucleari possono adottare anche mantenendo per il momento i loro attuali arsenali. Ciò non significa che la minaccia delle circa 13.000 testate nucleari esistenti oggi nel mondo si dissolva rapidamente. Tuttavia, ciò che vorrei sottolineare è che, se questa politica dovesse prendere radici tra gli Stati dotati di armi nucleari, creerebbe un’apertura per eliminare il clima di paura reciproca. Ciò, a sua volta, potrebbe consentire al mondo di cambiare rotta, abbandonando lo sviluppo crescente di armi nucleari basato sulla deterrenza per passare al disarmo nucleare e scongiurare la catastrofe.

Guardando indietro, l’epoca della Guerra Fredda fu segnata da una serie di crisi apparentemente insolubili che scossero il mondo, diffondendo violente ondate di insicurezza e paura. Eppure, l’umanità è riuscita a trovare strategie per uscire con successo da tali crisi. Ne sono un esempio i Negoziati per la limitazione delle armi strategiche (SALT) tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’intenzione di tenere questi colloqui fu annunciata il giorno della cerimonia di firma del NPT del 1968, che era stato stipulato in risposta alle amare lezioni della crisi dei missili di Cuba. I negoziati SALT furono i primi passi compiuti dagli Stati Uniti e dall’URSS per frenare la corsa agli armamenti nucleari sulla base degli obblighi di disarmo nucleare previsti dall’articolo VI del NPT.
Per chi era coinvolto in quei colloqui, non doveva essere facile imporre vincoli alle politiche nucleari sviluppate come prerogativa esclusiva del proprio Stato. Tuttavia, si trattava di una decisione indispensabile per la sopravvivenza non solo dei cittadini delle rispettive nazioni, ma dell’intera umanità. Per me il nome di questi negoziati – SALT (sale) – richiama alla mente la complessità di questo contesto. Avendo sperimentato in prima persona il terrore di trovarsi sull’orlo di una guerra nucleare, le persone di allora fecero emergere un potere di immaginazione e creatività di portata storica. Ora è il momento, per tutti i Paesi e i popoli del mondo, di unirsi per liberare ancora una volta questo potere creativo e dare vita a un nuovo capitolo della storia umana.
Lo spirito e l’unità di intenti che prevalsero al momento della nascita del NPT sono in risonanza e complementari agli ideali che hanno motivato la stesura e l’adozione del TPNW. Mi appello a tutte le parti affinché esplorino nuove strade, e amplino quelle esistenti, allo scopo di unire tutti gli sforzi compiuti per realizzare questi due trattati, traendone gli effetti sinergici per costruire un mondo libero da armi nucleari.

Fonte: Senzatomica

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Note

[1] Nazioni Unite, “Secretary-General’s Remarks for the International Day for the Total Elimination of Nuclear Weapons,” consultato giorno 11 gennaio 2023, https://www.un.org/sg/en/content/sg/speeches/2022-09-26/secretary-generals-remarks-for-the-international-day-for-the-total-elimination-of-nuclear-weapons

[2] Office of the Historian, “Telegram from the Embassy in the Soviet Union to the Department of State,” consultato giorno 11 gennaio 2023,, https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1961-63v06/d65

[3] Josei Toda, “Dichiarazione contro le armi nucleari,” consultato giorno 11 gennaio 2023, https://senzatomica.it/dichiarazioni-onu/dichiarazione-contro-le-armi-nucleari/.

[4] Ambassade de France en Italie, “Dichiarazione congiunta dei capi di Stato e di Governo per prevenire la guerra nucleare e evitare la corsa agli armamenti,” consultato giorno 11 gennaio 2023, https://it.ambafrance.org/Dichiarazione-congiunta-dei-capi-di-Stato-e-di-Governo-per-prevenire-la-guerra

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Sì dal Comune di Napoli per Julian Assange cittadino onorario della città

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Il Comune di Napoli ha votato sì alla cittadinanza onoraria per Julian Assange

di Giorgia Audiello

Il 31 gennaio, il Consiglio Comunale di Napoli ha votato a larga maggioranza, con solo 4 astenuti, un ordine del giorno con il quale si chiede al Sindaco della città di Napoli, prof. Gaetano Manfredi, il conferimento della cittadinanza onoraria a Julian Assange: il fondatore di Wikileaks accusato di cospirazione, spionaggio e divulgazione di materiale segretato e per questo detenuto nella prigione di Sua Maestà Belmarsh a Londra, in attesa di essere estradato negli Stati Uniti. La richiesta di concessione della cittadinanza ad Assange risponde all’appello lanciato dal premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel e recepito dagli attivisti di Free Assange Napoli. È un’iniziativa particolarmente importante in quanto si tratta della prima grande città europea, capoluogo di regione, a chiedere la cittadinanza per il giornalista perseguitato dal 2010 per aver divulgato al mondo documenti segreti sui crimini di guerra commessi dal governo americano e non solo.

La sua detenzione, che lo sottopone a un regime di carcere molto duro ormai da anni, ha suscitato la solidarietà e le proteste di buona parte dei media, dei giornalisti e della società civile di tutto il mondo che considera il suo trattamento e la sua detenzione illegali e contrari ai principi democratici della libertà d’espressione. Il voto favorevole del Comune di Napoli fa ben sperare dopo tentativi simili non andati a buon fine in altri capoluoghi italiani e per l’esito della prossima manifestazione mondiale a favore di Assange e in appoggio alla protesta di Londra “Global Carnival for Assange” che si terrà il prossimo 11 febbraio nelle piazze di tutto il mondo.

Gli attivisti di Free Assange Napoli sostengono che il giornalista sia «vittima di una vera e propria persecuzione politica» e, dunque, conferirgli la cittadinanza onoraria equivale ad «Un’ulteriore dimostrazione dell’avveduta civiltà di Napoli nel difendere con Assange la libertà d’informazione, aggredita non soltanto nelle cosiddette dittature, ma anche in molte nazioni che si fregiano di essere democratiche, come gli Stati Uniti, il Regno Unito o la stessa Italia, scesa purtroppo al cinquantottesimo posto nell’annuale graduatoria riguardante la libertà di stampa».

Secondo gli attivisti, inoltre, la detenzione di Assange «ha come obiettivo quello di imporre un bavaglio a chi fa della stampa uno strumento di informazione e non di propaganda a senso unico. Come ha infatti recentemente ricordato Stella Moris, moglie ed avvocato di Assange, dobbiamo smettere di trattare il caso Assange come un caso sui generis: è un caso che riguarda la libertà di stampa, non solo per Assange, ma tutti i giornalisti».

Si attende ora che il Sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, dia seguito a questa sollecitazione che gli viene offerta dal Consiglio Comunale a gran voce e che presto sia conferita ufficialmente la cittadinanza onoraria a Julian Assange. Per l’occasione si prevede una cerimonia alla quale sarà invitato anche Gabriel Shipton, filmmaker e fratello del giornalista che in questi mesi sta portando in giro nel mondo il documentario Ithaka sulla storia del fondatore di Wikileaks.

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Fonte: L’IDIPENDENTE

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Appello per la vita di Alfredo Cospito

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Per la vita di Alfredo Cospito
Appello al Ministro della giustizia e all’Amministrazione penitenziaria

Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni. Detenuto in forza di una condanna a 20 anni di reclusione per avere promosso e diretto la FAI-Federazione Anarchica Informale (considerata associazione con finalità di terrorismo) e per alcuni attentati uno dei quali qualificato come strage pur in assenza di morti o feriti, Cospito è in carcere da oltre 10 anni, avendo in precedenza scontato, senza soluzione di continuità, una condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Dal 2016 è stato inserito nel circuito penitenziario di Alta Sicurezza 2, mantenendo, peraltro, condizioni di socialità all’interno dell’istituto e rapporti con l’esterno. Ciò sino al 4 maggio 2022, quando è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione dell’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Per protestare contro l’applicazione di tale regime e contro l’ergastolo ostativo, il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae tuttora con perdita di 35 chilogrammi di peso e preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. La situazione si fa ogni giorno più grave, e Cospito non intende sospendere lo sciopero, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma: «Sono condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro».

Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti. È un lento suicidio (che si aggiunge, nel caso di Cospito, agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza. A fronte di ciò, la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano. Né vale sottolineare che tutto avviene per “scelta” del detenuto. Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui – come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo – la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari.

La protesta estrema di Cospito segnala molte anomalie, specifiche e generali: la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale); il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale per impedire i contatti di detenuti di particolare pericolosità con l’organizzazione mafiosa di appartenenza in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo, su cui il dibattito resta aperto anche dopo l’intervento legislativo dei giorni scorsi e molto altro ancora. Non solo: la stessa vicenda di Cospito è ancora per alcuni aspetti sub iudice ché la Corte costituzionale deve pronunciarsi sulla possibilità che, nella determinazione della pena, gli effetti della recidiva siano elisi dalla concessione dell’attenuante della lievità del fatto e la Cassazione deve decidere sul ricorso contro il decreto applicativo del 41 bis. Su tutto questo ci si dovrà confrontare, anche con posizioni diverse tra di noi. Ma oggi l’urgenza è altra. Cospito rischia seriamente di morire: può essere questione di settimane o, addirittura, di giorni. E l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere.

Per questo facciamo appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio. Le possibilità di soluzione non mancano, a cominciare dalla revoca nei suoi confronti, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis, applicando ogni altra necessaria cautela. È un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso.

7 gennaio 2023

Primi firmatari:

Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale, Università di Torino
Silvia Belforte, già docente di architettura, Politecnico di Torino
Ezio Bertok, presidente Controsservatorio Valsusa
don Andrea Bigalli, parroco in Firenze, referente di Libera per la Toscana
Maria Luisa Boccia, presidente del CRS (Centro per la Riforma dello Stato)
Massimo Cacciari, filosofo
Gian Domenico Caiazza, avvocato, presidente Unione Camere Penali Italiane
don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera
Gherardo Colombo, già magistrato, presidente della Garzanti Libri
Amedeo Cottino, professore di sociologia del diritto nelle Università di Torino e Umeå (Svezia)
Gastone Cottino, accademico ed ex partigiano, già preside Facoltà di Giurisprudenza, Università di Torino
Beniamino Deidda, magistrato, già Procuratore generale di Firenze
Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica, Università di Roma La Sapienza
Daniela Dioguardi, UDI (Unione Donne Italiane), Palermo
Angela Dogliotti, vice presidente Centro Studi Sereno Regis
Elvio Fassone, già magistrato e parlamentare
Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto
Giovanni Maria Flick, già presidente della Corte costituzionale e ministro della giustizia
Chiara Gabrielli, docente di procedura penale, Università di Urbino
Domenico Gallo, magistrato, già presidente di sezione della Corte di cassazione
Elisabetta Grande, docente di Sistemi giuridici comparati nell’Università del Piemonte orientale
Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele
Franco Ippolito, presidente Fondazione Basso
Roberto Lamacchia, avvocato, presidente Associazione italiana Giuristi democratici
Gian Giacomo Migone, docente di Storia dell’America del Nord nell’Università di Torino, già senatore
Tomaso Montanari, docente di storia dell’arte, rettore dell’Università per stranieri di Siena
Andrea Morniroli, cooperatore sociale, Napoli
Moni Ovadia, attore, musicista e scrittore
Giovanni Palombarini, magistrato, già procuratore generale aggiunto presso la Corte di cassazione
Michele Passione, avvocato in Firenze
Valentina Pazé, docente di filosofia politica, Università di Torino
Livio Pepino, presidente di Volere la Luna e direttore editoriale delle Edizioni Gruppo Abele
Alessandro Portelli, storico e docente di letteratura angloamericana all’Università di Roma La Sapienza
Nello Rossi, magistrato, già avvocato generale presso la Corte di cassazione
Armando Sorrentino, avvocato, Associazione italiana giuristi democratici, Palermo
Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale permanente dei popoli
Ugo Zamburru, psichiatra, fondatore del Caffè Basaglia di Torino
padre Alex Zanotelli, missionario comboniano

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Per aderire all’appello: https://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6

Vedi le adesioni pervenute

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Fonte: volerelaluna.it

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