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Bologna: storica Trattoria da Vito (Guccini, Dalla & Co.)

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DALLAVITO

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La Trattoria di Guccini, Dalla & Co.

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di Sara Musiani

“Da Vito” a Bologna non è una semplice trattoria, ma un luogo storico, dove si sono incrociate le vite, i pensieri e la creatività di artisti, musicisti e letterati. Un posto magico, dove il profumo della cucina si mescola a quello del fervore culturale.

Ci sono alcune osterie nel cuore dei capoluoghi italiani, dove la cucina – la buona cucina – non è l’unica cosa che si va ricercando.

L’ironia, la cultura, lo spettacolo possono a volte convivere in un luogo dove normalmente il protagonista è il cibo, soprattutto in una terra come la nostra. Trattorie dove, seduti al tavolo, capita di girarsi e trovare accanto a sè i più grandi cantautori contemporanei che si esibiscono con un vecchio pianoforte a mezza coda, come nel salotto di casa propria…

La storica trattoria “Da Vito”, in un altrettanto storico quartiere di Bologna, è uno di questi. La vetrinetta d’ingresso non è facile da localizzare, in fondo ad una strada un po’ buia del quartiere che negli anni ’30 era una delle prime propaggini della città che si iniziava ad estendere verso la campagna.

Nel ’48, nel pieno della ricostruzione post bellica, il padre di Paolo – l’attuale gestore – apriva questo locale che all’inizio consisteva di un’unica stanza, per poi annettere anche la piccola veranda coperta, un tempo la “bocciofila” del quartiere, luogo di svago degli artigiani che lavoravano in quella zona della città, ancora fortemente ad impronta manifatturiera .

Nel raccontare la sua infanzia fra quei tavoli, Paolo ricorda – non senza una certa dose di rimpianto – quei giorni con pochi coperti , quell’atmosfera rarefatta in cui “gli anziani, magari dopo una cena ed una bevuta, si mettevano a ballare per strada…c’era voglia di ricominciare e ricostruire in quei tempi…oggi i vicini chiamerebbero immediatamente la polizia per disturbo della quiete pubblica!”

Più osteria a gestione famigliare che ristorante, Paolo ne prende le redini nei primi anni ’70,ed in quegli anni di fermento politico la trattoria “Da Vito” inizia a diventare quel centro culturale ed artistico che lo ha reso famoso negli anni successivi : “Tutto è iniziato con la politica: furono i giornalisti della redazione de “Il Foglio”, a lanciarci, venendo qui a pranzo, con intellettuali della caratura di Panebianco, Insolera; le redazioni lavorano la notte, e qui non c’erano orari ( come in molte osterie dell’epoca), la cucina era sempre aperta”. Dopo lo sfaldarsi della DC, Vito continuò ad essere mensa aziendale delle redazione del neonato Il Carlino di Bologna, de L’Avvenire e, con la politica portata dai giornalisti, gli intellettuali emergenti arrivarono in rapida successione a fare tappa in Via Paolo Fabbri: Dario Fo, Carmelo Bene, Andrea Pazienza ed i cantautori italiani fra i più amati degli ultimi decenni .

Paolo inizia a raccontare dei suoi amici cantanti descrivendoli sotto un aspetto che solo poche persone possono aver avuto la fortuna di conoscere: ricorda ad esempio che “a Francesco Guccini trovammo casa noi…qui in questa via che poi lui ha celebrato nella sua canzone”, lo definisce un “un filosofo prestato all’arte, un uomo pesante e profondo, mai banale, grande dispensatore di consigli, capace di “curarti” solo con il suo bagaglio culturale”. Quello stesso Guccini che il 14 dicembre dell’anno scorso ha deciso di festeggiare e cantare per l’ultima volta proprio nel suo locale, ed alla dodicesima canzone, come promesso, non ha più suonato una nota “era arrivato a quel punto della carriera in cui hai già detto e scritto tutto quello che potevi..”. Per il compianto Lucio Dalla, icona della musica emiliana, Paolo ha parole di ammirazione : “Lucio era un genio…ma un genio sensibile, capace di comprendere l’altro”; Dalla era un habitué della sua trattoria : “da persona fortemente scaramantica quale era, amava sedersi sempre allo stesso tavolaccio, in cucina, il posto dove riceveva amici e dove firmò il primo contratto di collaborazione con Gianni Morandi”.

Guardando un pianoforte a muro appoggiato in un angolo e mimetizzato dalle giacche dell’appendiabito, Paolo racconta di come sia stato usato una volta da una giovanissima Gianna Nannini, che una sera, in mezzo al piccolo locale, aveva organizzato un concerto improvvisato.

E ancora nomi illustri come Gaber, De Andrè, Benigni…tutti personaggi che in comune hanno avuto, a suo parere, la “capacità di interiorizzare l’arte, non dei semplici attori o cantanti; capaci di empatia e quindi di condivisione di quello che era in loro”.

Paolo ammette di aver beneficiato di queste conoscenze, imbevendosi di cultura al punto da comprare il suo primo quadro a soli 13 anni, ormai innamorato dell’arte. Tutto questo fervore artistico lo ha portato a prendere la decisione, un giorno, di fare di Vito una Fondazione con tutte le opere che ha raccolto -ed esposto- nella sua vita; affinché tutto rimanesse come era, perché questo locale che conserva ancora intatti gli arredi di quasi cinquant’anni fa, mantenesse intatto, come in un’esposizione permanente, quel senso autentico di amore per l’arte e semplicità arcaica con cui è nato.

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Fonte: Tafter

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Adios Maestro Marquez!

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Se avessi un pezzo di vita

Se per un istante Dio dimenticasse che sono una marionetta di stoffa e mi regalasse un pezzo di vita, probabilmente non direi tutto quello che penso, ma sicuramente penserei molto a quello che dico.
Darei valore alle cose, non per quello che valgono, ma per quello che significano.
Dormirei poco, sognerei di piu’; capisco che per ogni minuto che chiudiamo gli occhi, perdiamo sessanta secondi di luce. Mi attiverei quando gli altri si fermano, e mi sveglierei quando gli altri si addormentano.
Ascolterei quando gli altri parlano e mi godrei un buon gelato di cioccolata.

Se Dio mi regalasse un pezzo di vita, vestirei in maniera semplice, mi sdraierei beato al sole, lasciando allo scoperto non solo il mio corpo ma anche la mia anima.
Dio mio, se io avessi un cuore, scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei l’uscita del sole. Dipingerei sulle stelle un sogno di Van Gogh, una poesia di Benedetti, e una canzone di Serrat; sarebbe la serenata che offrirei alla luna.
Annaffierei con le mie lacrime le rose, per sentire il dolore delle loro spine e l’incarnato bacio dei loro petali…

Dio mio, se avessi un pezzo di vita… non lascerei passare un solo giorno senza ricordare alla gente che le voglio bene, che l’amo. Convincerei ogni donna e ogni uomo che sono i miei preferiti e vivrei innamorato dell’amore.
Agli uomini dimostrerei quanto sbagliano nel pensare che si smette di innamorarsi quando si invecchia, senza sapere che si invecchia quando si smette di innamorarsi.
Ad un bambino darei delle ali, ma lascerei che impari a volare da solo. Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia ma con la dimenticanza.

Tante cose ho imparato da voi, uomini…
Ho imparato che tutto il mondo vuole vivere in cima alla montagna, senza sapere che la vera felicita’ e’ nella maniera di salire la scarpata.
Ho imparato che quando un neonato prende col suo piccolo pugno, per la prima volta, il dito di suo padre, l’ha afferrato per sempre.
Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare un altro uomo dall’alto, soltanto quando deve aiutarlo ad alzarsi.
Sono tante le cose che ho potuto imparare da voi, anche se piu’ di tanto non mi serviranno, perche’ quando leggerete questa lettera purtroppo staro’ morendo.

Dì sempre ciò che senti e fa’ ciò che pensi. Se sapessi che oggi è l’ultima volta che ti guardo mentre ti addormenti,
ti abbraccerei fortemente e pregherei il Signore per poter essere il guardiano della tua anima.
Se sapessi che oggi è l’ultima volta che ti vedo uscire dalla porta, ti abbraccerei, ti darei un bacio e ti chiamerei di nuovo per dartene altri. Se sapessi che oggi è l’ultima volta che sento la tua voce, registrerei ogni tua parola per poterle ascoltare una e più volte ancora. Se sapessi che questi sono gli ultimi minuti che ti vedo, direi “ti amo” e non darei scioccamente per scontato che già lo sai.

Sempre c’è un domani e la vita ci dà un’altra possibilità per fare le cose bene, ma se mi sbagliassi e oggi fosse tutto ciò che ci rimane, mi piacerebbe dirti quanto ti amo, che mai ti dimenticherò. Il domani non è assicurato per nessuno, giovane o vecchio. Oggi può essere l’ultima volta che vedi chi ami. Perciò non aspettare oltre, fallo oggi, perchè se il domani non arrivasse, sicuramente compiangeresti il giorno che non hai avuto tempo per un sorriso, un abbraccio, un bacio e che eri
troppo occupato per regalare un ultimo desiderio.

Gabriel Garcia Marquez

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il Libro: “Lavorare manca” – Risurrezione operaia

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Lavorare manca

La crisi vista dal basso

di Gabriele Polo, Giovanna Boursier

Ha appena compiuto il primo anno di vita la Cooperativa Ri-Maflow. Un caso, non l’unico, di risurrezione operaia che avvicina l’Italia all’Argentina dei cazerolados e delle fabbriche “recuperate” dagli ex dipendenti. Un estratto del libro “Lavorare manca” di Gabriele Polo e Giovanna Boursier, appena uscito per Einaudi

Televisori, computer, telefoni, stampanti, frigoriferi, cucine, macchine da scrivere, lavatrici, ventilatori e decine d’altre cose, una micro-esposizione della società dei consumi di massa sistemata un po’ alla rinfusa nel primo di quattro capannoni che erano una fabbrica e oggi sono un esperimento, una prova di resistenza in vita. A Trezzano sul Naviglio, cintura sud ovest di Milano, appena oltre la tangenziale. Zona di industrie meccaniche e chimiche ridotte a un lungo elenco di crisi, dismissioni e chiusure. Quella della Maflow non è finita come le altre, ha avuto un dopo, non si è voluta rassegnare a sopravvivere di cassa integrazione o nell’attesa di un nuovo padrone. Quando quelli vecchi se ne sono andati, i dipendenti hanno provato a resistere, sono saliti sui tetti e bloccato il cancello, hanno occupato la palazzina, la stazione centrale di Milano e assediato il Pirellone. Poi, non potendo portare indietro il tempo si sono inventati un futuro, ma senza abbandonare la loro fabbrica. O, almeno, ci stanno provando.

Raccolgono l’usato elettrico, elettronico e domestico, ricevono le “cose vecchie” dalle famiglie e i fondi di magazzino dalle imprese della zona; poi dividono il tutto tra riciclo e riuso, aggiustano, smontano e rimontano pescando nel loro mestiere e con qualche attrezzo della gestione precedente danno un nuovo valore alle proprie storie, professioni, saperi: di tre computer vecchi se ne fa uno nuovo, da una lavatrice si può riprendere un motore, quel che non si può riparare viene sezionato tra smaltimento e riciclaggio. E poi venduto. Come i fagioli o le mele dei “gas (gruppi d’acquisto solidale) che hanno il magazzino dove prima c’erano l’infermeria e la saletta sindacale: lì arrivano ortaggi, frutta e legumi da una dozzina di aziende agricole del vicino Parco agricolo Milano sud, associate in questa rete commerciale che si vuole alternativa a quelle prevalenti perché ecologica e conveniente. Industria e agricoltura si mescolano in 14.000 metri quadrati di capannoni e nessuno può dire che l’una sia il passato e l’altra il futuro. Quel che di certo resta alle spalle è la storia di una fabbrica uccisa dalla finanza e poi resuscitata a nuova – e altra – vita dall’ostinazione creatrice dei suoi operai.

Fondata a Milano da Giorgio Sommaviva e dall’ingegner Marchetti nel 1973 come Murray per vent’anni produce componenti d’automobile soprattutto per le case americane; poi cambia proprietà ed è Manuli, cresce, diventa una multinazionale a capitale e direzione italiani con 23 stabilimenti e 3.700 dipendenti nel mondo, arriva ad avere il 28% del mercato europeo progettando e producendo soprattutto tubi in gomma per climatizzatori e altre componenti d’automobili. A Trezzano lavorano 320 persone, forniscono soprattutto la Bmw, auto di fascia alta, quasi di lusso, prodotti di qualità che assicurano commesse, lavoro e profitti a una gestione che fino al 2004 rimane prevalentemente industriale. Poi cambia tutto, la Manuli scorpora il proprio ramo d’azienda automotive, nasce la Maflow Spa che viene venduta per 140 milioni di euro al fondo Italian Lifestyle Partner controllato da Mario De Benedetti e Stefano Cassina. I finanzieri acquistano anche senza averne le possibilità né le capacità, mettono la fabbrica “a debito”, nell’arco di due anni inguaiano il gruppo per 300 milioni investendo in titoli di ogni tipo e riversando le perdite sulla Maflow che, nonostante produca a pieno ritmo, nel maggio 2009 viene dichiarata insolvente dal tribunale di Milano. A luglio l’azienda finisce in amministrazione controllata e la Bmw ritira le sue commesse, inizia una lunga crisi preludio del fallimento. (…)

Contestualmente all’arrivo del fondo di De Benedetti e Cassina terreno e capannoni vengono venduti a Unicredit: la Maflow da proprietaria del sito diventa “inquilina” pagando un affitto superiore alla rata del mutuo concesso dalla stessa banca che ora possiede area e stabilimenti. L’interesse di Unicredit per la fabbrica non ha nulla di manifatturiero ma la banca pensa di fare un buon affare immaginando una prossima dismissione e un cambio di destinazione d’uso del terreno da industriale a sede commerciale o d’edilizia civile: lo schema che a partire dagli anni ’80 ha accompagnato – perfino stimolato – la deindustrializzazione italiana e soprattutto lombarda, decuplicando il valore dei terreni e gonfiando lo stato patrimoniale dei bilanci; poco importa se in questo nuovo consumo del territorio centri commerciali e appartamenti restano semivuoti e si formano le bolle immobiliari. Così quando la Maflow viene messa in liquidazione e i lavoratori in cassa integrazione, la ricerca di un acquirente deve fare i conti con una fabbrica divisa a metà: terreno e mura sono di una banca interessata alle dismissione definitiva, macchinari e dipendenti sono in gestione del commissario liquidatore che dovrebbe cercare un imprenditore che voglia far ripartire la produzione.

Ci vogliono diciotto mesi, due aste e decine di mobilitazioni operaie per trovare una soluzione. Che tale non è. Il gruppo Boryszew – che si autodefinisce “la perla dell’economia polacca”, 90 stabilimenti sparsi nel mondo – compera macchinari e marchio, affitta terreno e capannoni da Unicredit, acquisisce le commesse rimaste sperando di recuperare quelle della Bwm, ma è disposto ad assumere solo 80 dei 320 dipendenti di Trezzano. Prendere o lasciare.

In assenza d’alternative, sindacati e politici italiani prendono, anche se la maggior parte dei lavoratori per rientrare in fabbrica può sperare solo in un’improbabile ripresa produttiva e per questo continuano a mobilitarsi, persino a premere sulla Bmw perché ridia le sue commesse al nuovo padrone polacco. Al quale, però, interessa soprattutto portarsi a casa un “Oem superiore”, l’Original equipment manufacturer (produttore di apparecchiature originali), il marchio di qualità che la Maflow porta con sé e poi dirottare nelle sue fabbriche polacche gli ordini della casa automobilistica di Monaco di Baviera. Dopo due anni di attività quasi inesistente, scaduti i termini con cui la legge Prodi bis vincola chi acquista fabbriche in fallimento, i polacchi annunciano la chiusura della Maflow. Alla vigilia di Natale del 2012 Boryszew manda a Trezzano i tir per smontare e traslocare i macchinari. Un gruppo di lavoratori, in gran parte quelli già messi da parte dai polacchi, occupano la palazzina e bloccano l’entrata. La proprietà minaccia di far saltare l’accordo sindacale sulla buonuscita promessa agli 80 dipendenti rimasti perché accettino la chiusura dello stabilimento senza fare storie. Inizia un braccio di ferro che si conclude con una nuova mediazione: la Maflow non esiste più, le macchine escono e tutti vengono messi in mobilità, le buonuscita sono salve; gli altri lavoratori – quelli che erano già fuori e che non vogliono mollare – restano nella palazzina occupata a coltivare la loro nuova idea, un progetto di recupero industriale gestito da una loro cooperativa. In attesa che si risolva il contenzioso tra Boryszew e Unicredit sugli arretrati d’affitto non pagati e, quindi, sul futuro di terreno e immobili. (…)

Il primo marzo 2013 nasce la Cooperativa Ri-Maflow. 17 soci – senza scaramanzia – che spiegano: “Ri, per tutte le cose belle che vogliamo rappresentare, Ri-nascita, Ri-uso, Ri-ciclo, Ri-appropriazione, Ri-volta (il debito), Ri-voluzione”. Non è l’unico caso di resurrezione operaia, sparse per la Penisola ce ne sono altre, non molte e piccole, tutte nate dalla e nella crisi che ha fatto saltare le precedenti proprietà e avvicinato l’Italia all’Argentina dei cazerolados e delle fabbriche “recuperate” dagli ex dipendenti: i cantieri Magàride a Napoli, le fonderie Zen e la Modelleria D&C a Padova, l’Industria plastica toscana a Firenze, le ceramiche Cesama a Catania. Poche altre.

A Trezzano sul Naviglio nell’ex palazzina c’è la direzione e la sala riunioni della Cooperativa, una piccola cucina, la stanza con le brandine per due migranti profughi dalla Libia che qui hanno trovato accoglienza e lavoro, un ufficio per organizzare le attività industriali e commerciali, compilare i moduli 730 per i pensionati del paese. Sui restanti 30.000 metri quadrati i quattro capannoni per riciclare, aggiustare, riutilizzare, smaltire prodotti industriali, raccogliere e distribuire quelli agricoli. E tanto spazio ancora vuoto – per convegni, mercatini, feste e assemblee di altre fabbriche in crisi – tra un bel po’ di manufatti per le Bmw rimasti qui dal fallimento e ora proprietà dei liquidatori.

Insieme alla cooperativa nasce l’associazione – Occupy Maflow – che gestisce le attività commerciali e ha definito una sorta di comodato d’uso con la cooperativa per gli spazi occupati e garantisce un rimborso spese mensile ai soci della Ri-Maflow. Che percepiscono ancora l’assegno di mobilità, come i loro ex compagni di fabbrica, a cavallo tra il certo e l’incognito, sul sottile filo che separa la legge dalla terra di nessuno ancora non normata; in bilico tra l’occupazione di una proprietà privata e le incertezze di un contenzioso immobiliare tra la Virum – immobiliare di Unicredit – e la polacca Boryszew: se quest’”idea di futuro” funzionerà cresceranno lavoro e occupati, la cooperativa potrà iniziare a distribuire reddito. Ricominciare davvero. Pragmatismo economico e ideologia politica camminano insieme, un po’ come alla fine dell’800 accadeva da queste parti con società di mutuo soccorso e camere del lavoro, alle origini del movimento operaio organizzato: perché il lavoro non fosse più solo una merce, poterne contrattare prezzo e condizioni, infine liberarlo; e da lì cambiare il mondo intero usando il proprio punti di vista, nato nell’emancipazione dal bisogno. Così per un secolo e passa, prima che il capitale si scrollasse di dosso i vincoli dei salariati e quelle loro idee d’indipendenza. Convinto di non avere più vincoli o sottostare a condizioni, dotato di potere assoluto, capace di muoversi ovunque e senza più ostacoli o limiti. Libero, astratto e solo. Pericoloso, per se e per gli altri.

 

Fonte:  sbilanciamoci.info

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