Daily Archives: 27/04/2014

Bologna: storica Trattoria da Vito (Guccini, Dalla & Co.)

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DALLAVITO

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La Trattoria di Guccini, Dalla & Co.

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di Sara Musiani

“Da Vito” a Bologna non è una semplice trattoria, ma un luogo storico, dove si sono incrociate le vite, i pensieri e la creatività di artisti, musicisti e letterati. Un posto magico, dove il profumo della cucina si mescola a quello del fervore culturale.

Ci sono alcune osterie nel cuore dei capoluoghi italiani, dove la cucina – la buona cucina – non è l’unica cosa che si va ricercando.

L’ironia, la cultura, lo spettacolo possono a volte convivere in un luogo dove normalmente il protagonista è il cibo, soprattutto in una terra come la nostra. Trattorie dove, seduti al tavolo, capita di girarsi e trovare accanto a sè i più grandi cantautori contemporanei che si esibiscono con un vecchio pianoforte a mezza coda, come nel salotto di casa propria…

La storica trattoria “Da Vito”, in un altrettanto storico quartiere di Bologna, è uno di questi. La vetrinetta d’ingresso non è facile da localizzare, in fondo ad una strada un po’ buia del quartiere che negli anni ’30 era una delle prime propaggini della città che si iniziava ad estendere verso la campagna.

Nel ’48, nel pieno della ricostruzione post bellica, il padre di Paolo – l’attuale gestore – apriva questo locale che all’inizio consisteva di un’unica stanza, per poi annettere anche la piccola veranda coperta, un tempo la “bocciofila” del quartiere, luogo di svago degli artigiani che lavoravano in quella zona della città, ancora fortemente ad impronta manifatturiera .

Nel raccontare la sua infanzia fra quei tavoli, Paolo ricorda – non senza una certa dose di rimpianto – quei giorni con pochi coperti , quell’atmosfera rarefatta in cui “gli anziani, magari dopo una cena ed una bevuta, si mettevano a ballare per strada…c’era voglia di ricominciare e ricostruire in quei tempi…oggi i vicini chiamerebbero immediatamente la polizia per disturbo della quiete pubblica!”

Più osteria a gestione famigliare che ristorante, Paolo ne prende le redini nei primi anni ’70,ed in quegli anni di fermento politico la trattoria “Da Vito” inizia a diventare quel centro culturale ed artistico che lo ha reso famoso negli anni successivi : “Tutto è iniziato con la politica: furono i giornalisti della redazione de “Il Foglio”, a lanciarci, venendo qui a pranzo, con intellettuali della caratura di Panebianco, Insolera; le redazioni lavorano la notte, e qui non c’erano orari ( come in molte osterie dell’epoca), la cucina era sempre aperta”. Dopo lo sfaldarsi della DC, Vito continuò ad essere mensa aziendale delle redazione del neonato Il Carlino di Bologna, de L’Avvenire e, con la politica portata dai giornalisti, gli intellettuali emergenti arrivarono in rapida successione a fare tappa in Via Paolo Fabbri: Dario Fo, Carmelo Bene, Andrea Pazienza ed i cantautori italiani fra i più amati degli ultimi decenni .

Paolo inizia a raccontare dei suoi amici cantanti descrivendoli sotto un aspetto che solo poche persone possono aver avuto la fortuna di conoscere: ricorda ad esempio che “a Francesco Guccini trovammo casa noi…qui in questa via che poi lui ha celebrato nella sua canzone”, lo definisce un “un filosofo prestato all’arte, un uomo pesante e profondo, mai banale, grande dispensatore di consigli, capace di “curarti” solo con il suo bagaglio culturale”. Quello stesso Guccini che il 14 dicembre dell’anno scorso ha deciso di festeggiare e cantare per l’ultima volta proprio nel suo locale, ed alla dodicesima canzone, come promesso, non ha più suonato una nota “era arrivato a quel punto della carriera in cui hai già detto e scritto tutto quello che potevi..”. Per il compianto Lucio Dalla, icona della musica emiliana, Paolo ha parole di ammirazione : “Lucio era un genio…ma un genio sensibile, capace di comprendere l’altro”; Dalla era un habitué della sua trattoria : “da persona fortemente scaramantica quale era, amava sedersi sempre allo stesso tavolaccio, in cucina, il posto dove riceveva amici e dove firmò il primo contratto di collaborazione con Gianni Morandi”.

Guardando un pianoforte a muro appoggiato in un angolo e mimetizzato dalle giacche dell’appendiabito, Paolo racconta di come sia stato usato una volta da una giovanissima Gianna Nannini, che una sera, in mezzo al piccolo locale, aveva organizzato un concerto improvvisato.

E ancora nomi illustri come Gaber, De Andrè, Benigni…tutti personaggi che in comune hanno avuto, a suo parere, la “capacità di interiorizzare l’arte, non dei semplici attori o cantanti; capaci di empatia e quindi di condivisione di quello che era in loro”.

Paolo ammette di aver beneficiato di queste conoscenze, imbevendosi di cultura al punto da comprare il suo primo quadro a soli 13 anni, ormai innamorato dell’arte. Tutto questo fervore artistico lo ha portato a prendere la decisione, un giorno, di fare di Vito una Fondazione con tutte le opere che ha raccolto -ed esposto- nella sua vita; affinché tutto rimanesse come era, perché questo locale che conserva ancora intatti gli arredi di quasi cinquant’anni fa, mantenesse intatto, come in un’esposizione permanente, quel senso autentico di amore per l’arte e semplicità arcaica con cui è nato.

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Fonte: Tafter

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Sadismo religioso: accomunare papa Roncalli con Wojtyła, l’Imperatore della Chiesa cattolica

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Papa Wojtyla e Mons. Oscar Romero teologo della Liberazione, ucciso in El Salvador nel 1980

Papa Wojtyla e Mons. Oscar Romero teologo della Liberazione, ucciso in El Salvador nel 1980

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Roncalli e Wojtyła santi: un enorme ossimoro

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di don Paolo Farinella

«Santo subito», gridava lo striscione a caratteri cubitali al quadrato che emergeva sulle teste della folla, il giorno del funerale di papa Giovanni Paolo II, il 5 aprile del 2005. «È morto un santo» disse la folla di credenti, non credenti e agnostici che gremivano piazza san Pietro il 3 giugno del 1963 alla morte di papa Giovanni XXIII. La differenza tra i due sta tutta qua: il polacco deve essere dichiarato «santo», il bergamasco lo è sempre stato senza bisogno di dimostrarlo.

Chi ha avuto l’idea di abbinare nello stesso giorno i due papi per la proclamazione della santità ufficiale, è stato un genio del maligno. Mettere insieme il papa del concilio Vaticano II e quello che scientemente e scientificamente l’ha abolito, svuotandolo di ogni residuo di vita, è il massimo del sadismo religioso, una nuova forma di tortura teologica. La curia romana della Chiesa cattolica, che Francesco non ha ancora scalfito, se non in minima parte, è riuscita ancora nel suo intento, imponendo al nuovo papa un calendario e una manifestazione politica che è più importante di qualsiasi altro gesto o dichiarazione ufficiale. La vendetta curiale è servita sempre fredda.

Il Vaticano sotto il papa polacco si trasformò in «santificio» fuori di ogni controllo e contro ogni decenza: più di mille santi e beati sono stati dichiarati da Giovanni Paolo II, superando da solo la somma di tutti i papi del II millennio. Un’orgia di santi e beati che annoverano figure dubbie o equivoche come Escrivá de Balaguer, padre Pio, Madre Teresa, per limitarci solo a tre nomi conosciuti e che ne escludono altre come il vescovo Óscar Arnulfo Romero, lasciato solo e isolato, offerto allo squadrone della morte del governo del Salvador che lo ammazzò senza problema.

Papa Giovanni XXIII non ha avuto fortuna da morto. Il 3 settembre dell’anno giubilare 2000 è stato dichiarato beato insieme a Pio IX, il papa del concilio Vaticano I, il papa che impose al concilio la dichiarazione sull’infallibilità pontificia, il papa del caso Mortara, il papa del «Sillabo», il papa che in quanto sovrano temporale faceva ammazzare i detenuti politici perché combattevano contro il «papa re». Il mite Roncalli, storico di professione, fu – perché lo era nel profondo – pastore e prete, il papa del Vaticano II che disse il contrario di quanto Pio IX aveva dichiarato e condannato in materia di coscienza, di libertà e di dignità: il primo s’identificava con la Chiesa, il secondo stimolava la Chiesa tutta a cercare Dio nella storia e nella vita. Accomunarli insieme aveva un solo significato: esaltare il potere temporale di Pio IX e ridimensionare il servizio pastorale di Giovanni XXIII. Un sistema di contrappeso: se avessero fatto beato solo Pio IX, probabilmente piazza san Pietro sarebbe stata vuota; papa Giovanni, al contrario, con il suo appeal ancora vivo e vegeto, la riempiva per tutti e due.

A distanza di quattordici anni, per la dichiarazione di santità, papa Giovanni si trova accomunato di nuovo con un altro papa agli antipodi dei suoi metodi e del suo pensiero, con Giovanni Paolo II, re di Polonia, Imperatore della Chiesa cattolica, idolo dei reazionari dichiarati e di quelli travestiti da innovatori. Wojtyła fu «Giano bifronte» nel bene e nel male. Nel bene, fu un papa con un carisma umano eccezionale perché aveva un rapporto con le persone che oserei definire «carnale»; non era finto e quando abbracciava, abbracciava in maniera vera, fisica. Diede della persona del papa un’immagine umana, carica di sentimenti e così facendo demitizzò il papato, accostandolo al mondo e alle persone reali. Fu un uomo vero e questo nessuno può negarglielo.

Come papa e quindi come guida della teologia ufficiale, come modello di pensiero e di prassi teologica fu un disastro, forse il papa peggiore dell’intero secondo millennio. Mise la Chiesa nelle mani delle nuove sètte che s’impadronirono di essa e la trasformarono in un campo di battaglie per bande. Gli scandali, scoppiati nel pontificato di Benedetto XVI, il papa insussistente, ebbero tutti origine nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II, che ebbe la colpa di non rendersi conto che le persone di cui si era circondato, lo usavano per fini ignobili, corruzione compresa. Durante il suo pontificato, uccise i teologi della liberazione in America Latina, decapitò le Comunità di Base che vedeva come fumo negli occhi, estromise santi, ma in compenso nominò vescovi omologati e cardinali dal pensiero presocratico, più dediti a tramare che a pregare.

Il suo pontificato fu un ritorno di corsa verso il passato, ma lasciando le apparenze della modernità per confondere le acque, eclissò e tolse dall’agenda della Chiesa il Concilio Vaticano II e la sua attuazione, vanificando così i timidi sforzi di Paolo VI, il papa Amleto che non sapeva – o non volle? – nuotare, preferendo restare in mezzo al guado, né carne né pesce e lasciando al suo successore, il papa polacco – papa Luciani fu una meteora senza traccia visibile – la possibilità del colpo di grazia, ritardando il cammino della Chiesa che volle somigliante a sé e non a Cristo.

Il cardinale Carlo Maria Martini, interrogato al processo di santificazione, disse con il suo tatto e il suo stile, che sarebbe stato meglio non procedere alla santificazione di Giovanni Paolo II, lasciando alla storia la valutazione del suo operato che, con qualche luce, è pieno di ombre. Il cardinale disse che non fu oculato nella scelta di molti suoi collaboratori, ai quali, di fatto, delegò la gestione della Chiesa e questi ne approfittarono per fare i propri e spesso sporchi interessi. Per sé il papa scelse la «geopolitica»: fu padre e promotore di Solidarność, il sindacato polacco che scardinò il sistema sovietico e che Giovanni Paolo finanziò sottobanco, facendo alleanze, moralmente illecite: Comunione e Liberazione, l’Opus Dei e i Legionari di Cristo (e tanti altri) furono tra i principali finanziatori e sostenitori della politica papale, in cambio ebbero riconoscimento, santi propri e anche condoni morali come il fondatore dei Legionari, padre Marcial Maciel Degollado, stupratore, drogato, donnaiolo, puttaniere, sulle cui malefatte il papa non solo passò sopra, ma arrivò persino a proporre questo ignobile figuro di depravazione «modello per i giovani».

In compenso ricevette una sola volta mons. Romero, dopo una lotta titanica di questi per parlare con lui ed esporgli le prove delle violenze e degli assassinii che il governo salvadoregno ordinava tra il popolo e i suoi preti. Il papa non lo ascoltò nemmeno, ma davanti alla foto dello sfigurato prete padre Rutilio, segretario di mons. Romero, assassinato senza pietà e con violenza inaudita, il papa invitò il vescovo a ridimensionarsi e ad andare d’accordo con il governo. Il vescovo, racconta lui stesso, capì che al papa nulla interessava della verità, ma solo gl’importava di non disturbare il governo. Raccolse le sue foto e le sue prove e tornò piangendo in patria, dove fu assassinato mentre celebrava la Messa. No, non può essere santo chi ha fatto questo.

Papa Wojtyła ha esaltato lo spirito militare e militarista, vanificando l’enciclica «Pacem in Terris» di papa Roncalli. Con la costituzione pastorale «Spirituali Militum Curae» del 21 aprile 1986 fonda le diocesi militari e i seminari militari e la teologia militare e la formazione di preti militari che devono «provvedere con lodevole sollecitudine e in modo proporzionato alle varie esigenze, alla cura spirituale dei militari» che «costituiscono un determinato ceto sociale “per le peculiari condizioni della loro vita”». In altre parole la Chiesa assiste «spiritualmente» chi va in nome della pace ad ammazzare gli altri, con professionalità e «in peculiari condizioni». Passi che fuori dell’accampamento ci sia un prete con indosso la stola viola, pronto a confessare e a convertire alla obiezione di coscienza, ma che addirittura i preti e i vescovi debbano essere «soldati tra i soldati», con le stellette sugli abiti liturgici, funzionari del ministero della guerra, è troppo e ne avanza per fare pensare che la dichiarazione di santità si può rimandare a tempi migliori.

Il pontificato di Giovanni Paolo II ha bloccato la Chiesa, l’ha degenerata, l’ha fatta sprofondare in un abisso di desolazione e di guerre fratricide, esasperando il culto della personalità del papa che divenne con lui, idolo pagano e necessario alle folle assetate di religione, ma digiune di fede. La gerarchia e la curia alimentarono codesto culto che più si esaltava più permetteva alle bande vaticane di sbranarsi in vista della divisioni delle vesti di Cristo come bottino di potere, condiviso con corrotti e corruttori, miscredenti e amorali. La storia del ventennio berlusconista ne è prova sufficientemente laida per fare rabbrividire i vivi e i morti di oggi, di ieri e di domani.

Avremmo preferito che papa Francesco avesse avuto il coraggio di sospendere questa sceneggiata, ma se non l’ha fatto, è segno che si rende conto che la lotta dentro le mura leonine è solo all’inizio e lui, da vecchio gesuita, è determinato, ma è anche cauto e prudente. Il 27 aprile, dopo avere chiesto scusa a papa Giovanni, io celebrerò l’Eucaristia, chiedendo a Dio che ci liberi dai vitelli d’oro e di metallo, anche se portano il nome di un papa. Quel giorno pregherò per tutte le vittime, colpite da Giovanni Paolo II direttamente o per mano del suo esecutore, il card. Joseph Ratzinger, che, da suo successore, perfezionò e completò l’opera come papa Benedetto XVI.

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Fonte: MicroMega