Utilizzo di Facebook sul posto di lavoro? Controlli e licenziamenti!

.

.

US-IT-COMPANY-STOCKS-IPO-INTERNET-FACEBOOK-FILES

.

Cassazione: Facebook incastra il lavoratore

.

di Claudio Tamburrino

Una sentenza apre alla possibilità di controlli (e licenziamenti) per l’utilizzo dei social network sul posto di lavoro. Anche tramite fake account e geolocalizzazioni: del resto, il lavoratore ha accettato di condividere pubblicamente i propri dati

I datori di lavoro possono esercitare un controllo sui propri dipendenti monitorandone l’utilizzo dei social network e delle app di messaggistica anche assumendo identità fittizie. E – in caso di utilizzo sul posto di lavoro – possono anche licenziarli.

A riferirlo è la sentenza 17 dicembre 2014-27 maggio 2015, n. 10955 della Corte di Cassazione che sembra porsi in antitesi con la giurisprudenza in materia di tecnocontrollo e il trend seguito negli altri paesi, dove anzi i mezzi di comunicazione digitali sono spesso visti come un mezzo di coercizione del datore di lavoro. Anche lo stesso Statuto dei lavoratori italiano vieta (all’art. 4) i controlli a distanza sull’attività del personale, un divieto peraltro già ridimensionato da alcune previsioni del Jobs Act che aprono la porta al tecnocontrollo dei dipendenti facilitando i controlli sugli strumenti di lavoro (PC, Tablet e telefoni aziendali).

Il caso esaminato vede contrapposta l’azienda P.A. srl ad un suo ex dipendente licenziato per giusta causa: un giorno si era allontanato per una telefonata privata di circa 15 minuti che gli aveva impedito di intervenire prontamente su di una pressa, bloccata da una lamiera che era quindi rimasta incastrata nei meccanismi. Lo stesso dipendente è stato colto, nei giorni successivi, a conversare su Facebook durante l’orario di lavoro.

Secondo la sentenza della Cassazione l’utilizzo di social network e la negligenza rispetto alle attività di lavoro, per esempio per effettuare telefonate, costituisce un fatto potenzialmente grave, indice di una condotta potenzialmente lesiva della fiducia che l’azienda ripone sul proprio dipendente. E già solo questo può portare a sanzioni, magari lievi, nei confronti del collaboratore. Ma se a ciò si aggiunge la possibilità di distrarre il dipendente compromettendo la sicurezza dell’azienda od il blocco delle sue attività, allora il datore di lavoro può anche licenziarlo.

La logica della Cassazione è che, per quanto i controlli a distanza siano in via generale proibiti, un controllo diretto è permesso qualora abbia l’obiettivo di tutelare i beni del patrimonio aziendale oppure impedire eventuali comportamenti illeciti, quale sprecare il proprio tempo su Facebook. Inoltre, l’accettazione da parte del dipendente dei termini di utilizzo del social network bastano ad aggirare lo Statuto dei Lavoratori, acconsentendo di fatto a mettere a disposizione i propri dati e quindi alla possibilità di essere monitorato.

Non basta. Secondo la sentenza che sembra destinata a segnare le libertà dei dipendenti in determinati casi ed i poteri di tecnocontrollo dei datori di lavoro, questi ultimi possono anche ricorrere a falsi profili per spiare i comportamenti dei propri dipendenti: nel caso specifico il datore di lavoro era riuscito ad ottenere l’amicizia del suo dipendente tramite un fake account femminile. Uno spionaggio – fanno intendere i giudici – da intendere in via chiaramente “difensiva” della propria azienda.

Difatti, come si legge nella sentenza, dalla giurisprudenza – che già ammette per esempio la possibilità di ricorso ad investigatori privati – “può trarsi il principio della tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi occulti, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti”.

La Cassazione ha chiarito che la creazione del falso profilo Facebook non costituisce, di per sé, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro: esso attiene, piuttosto, ad una semplice modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva, né volta a istigare l’illecito. È il dipendente, infatti, che aderisce prontamente all’invito al colloquio sulla chat.

In generale, “le disposizioni dello Statuto dei lavoratori secondo il tribunale non escludono il potere dell’imprenditore di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno – costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa – l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede.”

Ultimo bastione di sicurezza per i dipendenti che vogliono tutelare la propria privacy nei confronti del datore di lavoro, quindi, restano le disposizioni di social network come Facebook e Google Plus che cercano di porre un freno agli account con pseudonimi o nomi falsi.

D’altra parte, secondo la Cassazione un datore di lavoro può addirittura accedere ai dati di geolocalizzazione forniti dai social network (nello specifico Facebook) eventualmente generati dai dispositivi mobile dei dipendenti: non essendo il datore di lavoro che mette in atto un controllo a distanza, ma un’app terza come appunto Facebook, si presuppone la consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato attraverso il sistema di rilevazione satellitare del proprio cellulare e quindi non vi è alcuna violazione dello Statuto dei lavoratori.

.

Fonte: Punto Informatico

.

.

.