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Reggio Emilia: Flash mob per Miriam Makeba (Mama Africa)

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nelson e miriam

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Miriam Makeba è morta il 9 novembre del 2008, questo sabato (9 novembre) sono esattamente cinque anni dalla sua scomparsa. Un’artista che ha dato tanto al mondo, ma anche qualcosa in più alla nostra città, andando a inserire anche questa importante presenza culturale all’amicizia tra Reggio Emilia e il Sudafrica.

L’idea è semplice, darci appuntamento in piazza Prampolini sabato 9 novembre alle ore 19.00 e con l’ausilio di un impianto, ballare per cinque minuti il Pata Pata in piazza. Ballarlo come ognuno lo sa o lo può fare, con un momento di vita.

Per farlo però sarebbe importante coinvolgere amici o compagnie di danza che sappiano ballarlo bene, per permettere a chi come me non è propriamente un ballerino provetto di non fare una brutta figura…


Quindi vi chiediamo se in queste ore conoscete qualcuno che sa ballare il Pata Pata o è in grado di impararlo, di convocarlo per celebrare Miriam.

E’ un gesto istintivo e che non è organizzato, ma che forse la nostra città – i suoi cittadini – possono tentare di farlo. Per dovere e per piacere.

Che ne dite? Siate liberi di coinvolgere il più possibile…

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Video

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Fonte: Facebook

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Approfondimento (madu)

Venerdì 9 Novembre a Castel Volturno tributo a Miriam Makeba

Castelvolturno: monumento in onore di Miriam Makeba

Miriam Makeba ci ha lasciati

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Reggio Emilia: incontro sulle “Altre Scuole Possibili”. Educazione senza aule né lavagne…

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Incontro con le scuole autonome zapatiste

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Giovedì 24 ottobre

ore 20,30 – presso Casa Bettola

Via Martiri della Bettola 6 – Reggio Emilia

 

Incontro all’interno del percorso “Altre scuole possibili”

Relatore Gianfranco Bianchi, accompagnante della scuola indigena autonoma.

Un educazione senza aule né lavagne, senza maestri né professori, senza curricula né voti. Autoeducazione viso a viso, con la comunità come soggetto che educa.

Info: 328 7640017

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La scuoletta della libertà

di Raúl Zibechi

(tratto dalla Jornada con il titolo «Las escuelitas de abajo»)

Ci sarà un prima e un dopo la scuoletta zapatista. Di quella appena conclusa e di quelle che verranno. Sarà un impatto lento, diffuso, che si farà sentire nel corso di alcuni anni ma che segnerà la vita de los de abajo per decenni. Quel che abbiamo vissuto è stata un’educazione non istituzionale, dove la comunità è il soggetto che educa. Autoeducazione viso a viso, apprendendo con l’anima e col corpo, come direbbe il poeta.

Si tratta di una non pedagogia ispirata alla cultura contadina: selezionare i semi migliori, spargerli in suoli fertili e irrigare la terra affinché si produca il miracolo dello spuntare dei germogli, che non è mai sicuro né si può pianificare.

La escuelita zapatista, dalla quale siamo passati in più di mille allievi nelle comunità autonome, è stato un modo differente di apprendimento e di insegnamento, senza aule né lavagne, senza maestri né professori, senza curricula né voti. Il vero insegnamento comincia con la creazione di un clima di fratellanza tra una pluralità di soggetti prima che con la divisione tra un educatore, con potere e sapere, e gli allievi ignoranti ai quali si devono inculcare le conoscenze.

Tra i molti insegnamenti, impossibili da riassumere in poche righe, forse influenzato dalla congiuntura che stiamo attraversando nel sud del continente americano, vorrei sottolineare cinque aspetti.

Il primo è che gli zapatisti hanno sconfitto le politiche sociali contrainsurgentes (gli zapatisti continuano a riferirsi a se stessi come «insorgenti», insurgentes, ndt) che sono il modo usato da los de arriba (quelli che stanno in alto, ndt) per dividere, cooptare e sottomettere i popoli che si ribellano. Vicino a ogni comunità zapatista, ci sono altre comunità affini al malgoverno, con le loro casette di mattoni, che ricevono assegni e quasi non lavorano più la terra. Migliaia di famiglie hanno ceduto (a queste forme di assistenza, ndt), una cosa comune da tutte le parti, e hanno accettato i regali che vengono dall’alto. La cosa notevole, però, la cosa davvero eccezionale, è che altre migliaia di famiglie vanno avanti senza accettare niente.

Non conosco alcun altro processo, in tutta l’America latina, che sia riuscito a neutralizzare le politiche sociali. Questo è il maggior merito dello zapatismo, conseguito con fermezza militante, chiarezza politica e un’inesauribile capacità di sacrificio. Questo è il primo insegnamento: è possibile sconfiggere le politiche sociali.

L’autonomia è il secondo insegnamento. Negli anni scorsi abbiamo sentito fare discorsi sull’autonomia tra i più diversi movimenti, un fatto di grande rilievo, naturalmente. Posso confermare di persona che nei municipi autonomi e nelle comunità che formano il caracol di Morelia gli zapatisti hanno costruito un’autonomia economica, della salute, dell’educazione e del potere. Vale a dire, un’autonomia integrale che abbraccia tutti gli aspetti della vita. Non ho alcun dubbio sul fatto che accada lo stesso anche negli altri quattro caracol.

Un paio di cose ancora sull’economia, o la vita materiale. Le famiglie delle comunità non «toccano» l’economia capitalista. Sfiorano appena il mercato. Producono tutti i loro alimenti, che comprendono una buona dose di proteine. Comprano quello che non producono (sale, olio, sapone, zucchero) nei negozi zapatisti. I risparmi delle famiglie e della comunità vengono conservati in bestiame, basandosi sulla vendita del caffè. Quando c’è bisogno, per una necessità di salute o per la lotta, vendono alcuni capi di bestiame.

L’autonomia nell’educazione e nella salute si basa sul controllo comunitario. La comunità sceglie chi dovrà insegnare ai suoi figli e alle sue figlie e chi si occuperà della salute. In ogni comunità c’è una scuola, nel posto di salute convivono levatrici, hueseras (una specie di osteopata tradizionale, ndt) e coloro che si specializzano nella conoscenza delle piante medicinali. La comunità li sostiene, come sostiene le sue autorità.

Il terzo insegnamento è in relazione con il lavoro collettivo. Come ha detto un Votán: «I lavori collettivi sono il motore del processo». Le comunità hanno terre proprie grazie all’esproprio degli espropriatori, primo ineludibile passo per creare un mondo nuovo. Uomini e donne hanno i loro lavori e gli spazi collettivi.

I lavori collettivi sono uno dei pilastri dell’autonomia, i cui frutti in genere si riversano su ospedali, cliniche, educazione primaria e secondaria, nel rafforzamento dei municipi e delle Giunte di buon governo. Niente di tutto quello che si è costruito sarebbe stato possibile senza il lavoro collettivo di uomini, donne, bambini, bambine e anziani.

La quarta questione è la nuova cultura politica che affonda le radici nelle relazioni familiari e si propaga poi in tutta la «società» zapatista. Gli uomini collaborano al lavoro domestico che continua a ricadere sulle donne, si prendono cura dei figli quando le donne devono uscire dalla comunità per svolgere i loro incarichi di autorità. Le relazioni tra genitori e figli sono affettuose e rispettose, in un clima generale di armonia e buonumore. Non ho visto un solo gesto di violenza o aggressività in casa.

L’immensa maggioranza degli zapatisti sono giovani o molto giovani, e ci sono tante donne quanti sono gli uomini. La rivoluzione non la possono fare altri che i giovani, e su questo non si discute. Quelli che comandano, ubbidiscono, non sono chiacchiere. Ci mettono il corpo, un’altra delle chiavi della nuova cultura politica.

Lo specchio è il quinto punto. Le comunità sono un doppio specchio: nel quale possiamo guardarci e possiamo vederle. Non l’una o l’altra cosa ma le due cose insieme, simultaneamente. Ci guardiamo guardandole. In questo andare e venire, impariamo lavorando insieme, dormendo e mangiando sotto lo stesso tetto, nelle stesse condizioni, usando le stesse latrine, calpestando lo stesso fango e bagnandoci nella stessa pioggia.

È la prima volta che un movimento rivoluzionario realizza un’esperienza di questo tipo. Fino a ora l’insegnamento tra i rivoluzionari riproduceva i modelli intellettuali dell’accademia, con un sopra e un sotto stratificati, e congelati. Questa è un’altra cosa. Impariamo con la pelle e con i sensi.

Infine, una questione di metodo o di modo di lavoro. L’Ezln è nato nel campo di concentramento che rappresentavano le relazioni verticali e violente imposte dai proprietari terrieri. Gli zapatisti hanno imparato a lavorare famiglia per famiglia e in segreto, innovando il metodo di lavoro dei movimenti antisistemici. Nel momento in cui il mondo sembra sempre di più un campo di concentramento, i loro metodi possono essere molto utili a noi che continuiamo a impegnarci per creare un mondo nuovo.

Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte de los de abajo e delle società in movimento, è un giornalista del settimanale Brecha e collabora con molte altre testate di diversi paesi. In Italia scrive per Comune-info, dopo aver collaborato per dieci anni con Carta. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità nei siti e nelle lingue di tutto il mondo. In Italia sono usciti anche diversi dei suoi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi.

Traduzione in italiano Maribel http://chiapasbg.wordpress.com/2013/07/29/votan-i/

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Fonte: casabettola.org

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