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Se(mi)natrice a vita. Di Ogm
La prismatica vicenda Ogm non smette di offrire spunti e angoli di visuale. Il protagonismo in materia sulle pagine di Repubblica della Senatrice Cattaneo ne è fertile esempio, analogo a quello dell’ex Senatore Umberto Veronesi, da tempo lanciato nella promozione taumaturgica di Ogm al di là da venire (semmai arriveranno). Sarà l’imminenza dell’Expo 2015 di Milano dedicato al tema del cibo, sarà l’effervescenza del dibattito sulle colture transgeniche, sarà la fame di polarizzazione di cui si saziano i media, sarà l’autorevolezza della firma a doppia qualifica di scienziati e legislatori, ma la numerosità, periodicità e tempestività dei commenti a tema Ogm è degna dei più attivi blogger.
Non vi è dubbio alcuno che ogni materia di rilevanza sociale debba aprirsi a un confronto cui ognuno è abilitato a contribuire, sulla base delle proprie convinzioni, esperienze, ragionamenti, informazioni, timori. Se ha competenze specifiche, meglio, pur non essendo prerogativa di legittimità. Vale per gli Ogm come per le staminali. Gli articoli della Senatrice Cattaneo rientrano di diritto tra i contributi pieni di liceità, incluso il fatto che rivendichi di esercitare la propria convinzione scientifica in un ambito assai diverso da quello di sua pertinenza disciplinare. Presentano però una protervia carica di scientismo e tendono a giocare il ruolo di ariete di sfondamento sull’opinione pubblica in virtù del suo alone di scienziata, tanto più nobilitata dall’insigne riconoscimento a Senatrice a vita, che conferisce al suo parere una presupposta oggettività e terzietà, quindi rispettosità nella società della chiacchiera in cui viviamo.
Da operatore del mondo della ricerca, mi interessa proprio confrontarmi sulla base delle evidenze e delle valutazioni di opportunità con le molte affermazioni che la Senatrice Cattaneo presenta nel suo ultimo contributo su Repubblica del 4 ottobre 2014, nella convinzione che contenga considerazioni erronee, approssimative o fuorvianti, oltre a latitare di fatti, dati e statistiche sulla base dei quali dichiara si debbano assumere le decisioni di sviluppo e le scelte produttive.
La prima considerazione, in ordine di apparizione e di importanza, è che a fronte di una prolungata crisi economica non si possa non aprire agli Ogm, un assioma non spiegato e certo non suffragato dal citato deficit del nostro agroalimentare che resterebbe immutato per caratteristiche e dimensioni aprendo o meno al transgenico. Elefantiasi dell’apparato zootecnico industriale, eccesso di produzione e consumo di prodotti animali, mortificazione della dieta animale sostanzialmente ridotta a ‘bifagia’ di mais e soia, abbandono di una strategia sulla coltivazione di proteine vegetali in Italia e in Europa a fini di alimentazione umana e zootecnica, non sembrano meritare attenzione e approfondimento.
Gli Ogm vengono poi qualificati come un fatto nuovo, pur sottolineando che da circa 15 anni abbiamo evidenza della loro innocuità. Questo ‘fatto nuovo’ è presente in commercio da 20 anni nella stessa identifica forma dei suoi esordi ed è frutto di una ricerca & sviluppo che data anni ’80. Gli Ogm con cui oggi ci confrontiamo altro non sono che la novità di 30 anni fa.
La Spagna e gli Usa sono inoltre presentati come la vetrina che espone la mercanzia di successo, ma forse è utile adottare un altro angolo visuale che il settore biologico può offrire. In Spagna l’introduzione del mais transgenico ha determinato una coesistenza tutt’altro che pacifica (secondo l’auspicio che, in piena guerra fredda, formulava Krusciov) nel conflitto tra mais GM e biologico. La perdita di mercato per le coltivazioni biologiche che si è registrata nel Paese iberico con l’espansione della coltivazione di mais MON810 e con le contaminazioni da questo determinato nei fatti, ha comportato un evidente danno economico relativo alla perdita di certificazione da parte del coltivatore, la conseguente commercializzazione a prezzo inferiore delle partite vendute come convenzionali e l’abbandono di ampie superfici a mais biologico.
Questo è dovuto in buona parte alla ‘natura’ stessa delle colture transgeniche, ma sembra anche frutto di un inadeguato sistema di governance, facendo emergere un quadro di inadeguata vigilanza e verifica di eventuali impatti negativi di carattere ambientale e socioeconomico. Un aspetto spesso poco considerato è inoltre la conflittualità generata dall’introduzione di coltivazioni transgeniche sia tra aziende che nel quadro più generale del contesto territoriale. Dispute tra agricoltori si sono già generate in Spagna, dove si è diffuso un certo grado di timore, e studi dell’Università di Barcellona hanno messo in luce diversi casi di conflitto nelle aree rurali spagnole3. Gli Stati Uniti, terra di adozione degli Ogm, sono un altro caso interessante. Un recentissimo rapporto del Dipartimento dell’Agricoltura (USDA) dedicato alle performance economiche della coltivazione del mais in un Paese dove la coltura è al 90% Ogm4, indica un guadagno netto medio per acro (circa 0,4 ettari) dei coltivatori biologici pari a 555$ contro i 307$ dei loro colleghi maidicoltori transgenici5.
Già, il biologico, di cui la Senatrice si dice ‘non contraria’.
E meno male! Traducendo in soldoni le considerazioni scientifiche della Senatrice Cattaneo, il biologico è cancerogeno, costoso, elitario e lui stesso infarcito di Ogm. Cancerogeno perché il mais si riempie di micotossine, incluso quello convenzionale che in più è imbottito di pesticidi (caduti in disgrazia con l’avvento degli Ogm anche tra coloro che prima ne rivendicavano l’ineluttabilità). Sarebbe utile acquisire studi sui livelli comparati di micotossine tra tipologie di coltivazione realizzate su scala commerciale e non sperimentale; sarebbe utile capire quanta parte della coltivazione di mais sarebbe destinata all’alimentazione umana, quanta a quella animale e quanta a quella quota crescente di impianti energetici a biomassa che vanno riempiendo la Pianura Padana; sarebbe utile distinguere le diverse tipologie di micotossine in funzione della loro cancerogenicità e del grado di protezione offerta dal mais Bt (si scoprirebbe, ad esempio, che le aflatossine, la classe ad alta cancerogenicità, non sono efficacemente arginate da eventuale uso di mais Bt6, con buona pace di Umberto Veronesi7); sarebbe utile ragionare sulla diversificazione colturale, sulle buone prassi agronomiche e di conservazione; sarebbe utile, infine, ricorrere ad argomenti meno strumentali e carichi di emotività. Il biologico ‘costoso’ (non necessariamente, a seconda dei canali di vendita, e con una forbice che va restringendosi, dato il calo del differenziale percentuale negli ultimi 3 anni8), poi, internalizza costi ambientali e sanitari che le restanti filiere lasciano a carico dei cittadini e dell’erario (sarebbe inoltre interessante un confronto tra spesa al consumo per unità nutrizionale di cibo acquistato).
Elitario, laddove la Senatrice indica in un mero 2% la popolazione che ne fa uso, poi proprio non lo è: in primis, le elaborazioni Nomisma-Sana9 (2014) parlano di una ben più alta percentuale di popolazione italiana che acquista prodotti bio, con il 21,8% delle famiglie che lo fa almeno una volta alla settimana e il 12,9% ogni giorno; secondariamente, uno studio Nomisma10 rivela che tra le famiglie che acquistano bio ve ne sono almeno 4 milioni individuabili come “fedeli”, perlopiù famiglie giovani, tra i 30-40 anni, con figli piccoli in età pre-scolare, dove la quota di vegetariani è più alta della media (16% a fronte del 7% nella popolazione) e con stili di vita sostenibili. Quelle stesse mense scolastiche che servono pasti bio ai bambini in numerose località italiane rendono inoltre il bio un fenomeno di cittadinanza e un investimento in salute (di cui dovrebbe in futuro giovarsi il bilancio sanitario del Paese). Per finire, gli Ogm sono banditi dal bio: non si possono coltivare in aziende biologiche in nessun Paese al mondo, sono esclusi per ragioni etiche e sociali, ancor prima che ambientali, economiche ed agroecologiche. Vero che il Regolamento comunitario, in via di revisione, ammette una soglia dello 0.9% per gli Ogm autorizzati, ma il paniere biologico che prevalentemente entra nelle case e nei pasti non prevede soia, mais, colza o cotone; il sistema di controllo verifica se vi è traccia di transgenico nella mangimistica, pena esclusione della certificazione; molti produttori zootecnici bio si avvalgono di foraggi e mangimi che escludono ‘materie prime’ a rischio proprio per fugare anche pericoli remoti. Mangi con fiducia un salame bio, Senatrice, e poi ci dica, in punta di scienza, se sente o meno il gusto di Ogm, come da lei stessa ipotizzato nel suo articolo.
Un’ultima considerazione sul profilo sanitario degli Ogm: non c’è pistola fumante della loro nocività, vero, ma non c’è neanche consenso scientifico e tanto meno pietra tombale. Laddove studi vengono pubblicati evidenziando alcune problematiche sanitarie, gli autori vengono fatti oggetto di killeraggio scientifico sistematico, intimidendo ulteriori ricercatori e ponendo un enorme e devastante problema di agibilità scientifica per saperi ed evidenze controcorrente o, più correttamente, contrari a imponenti interessi economico-industriali. Venderne comunque la loro innocuità a fronte del fatto che negli Usa li consumino da oltre 20 anni (non da noi, Senatrice, lo chieda alle autorità sanitarie italiane ed europee che verificano costantemente l’osservanza agli obblighi di etichettatura dei prodotti Ogm e lo confronti con l’assenza totale di Ogm sugli scaffali dei rivenditori di alimenti) fa spregio di ogni criterio scientifico legato ad indagini epidemiologiche e alla raccolta di evidenze su campioni di popolazione esposta a fronte di un omologo campione di controllo.
Spero convintamente che gli Ogm, comunque destinati in grandissima parte alla mangimistica animale o ad usi industriali, non si rivelino una bomba sanitaria a orologeria, ma la questione è un’altra: ci si ostina a non capire che per l’Italia, come per molti altri Paesi, la scelta ha valore strategico; di posizionamento del sistema agroalimentare; di rispetto della sovranità alimentare dei cittadini; di inversione dei rapporti di forza e potere intorno al cibo; di traiettorie di innovazione che non si esauriscono, come lascia ad intendere, a una sola tecnologia peraltro datata; di regole che impediscano che i vasi di ferro mandino in frantumi quelli di porcellana. È il caso della coesistenza, Senatrice, che lei assiomaticamente stabilisce sia possibile: lo chieda ai produttori biologici spagnoli!
Spero apprezzi l’impegno a evitare l’emotività e a ricorrere a fatti e numeri. Qui ci si è sforzati di Exporli.
Distinti saluti.
p.s. sul come si misuri un tanto al chilo l’autorevolezza scientifica, sua o di Vandana Shiva, meglio invece astenersi
A cura di Luca Colombo
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Fonte: AIAB Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica
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