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4th Conferenza mondiale su Internet | L’assurdo messaggio del presidente cinese Xi Jinping

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Alla Conferenza mondiale su internet, applausi ambigui per Xi Jinping e per il controllo sul web

di Wang Zhicheng

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5 dicembre 2017 – Si conclude oggi la Conferenza mondiale su internet, tenutasi dal 3 dicembre a Wuzhen (Zhejiang), che aveva come scopo quello di costruire una comunità aperta sul web, a beneficio di tutti. Ad esso hanno preso parte 1500 rappresentanti da 80 Paesi.
Per l’occasione, il presidente cinese Xi Jinping ha inviato un messaggio in cui sottolinea come “costruire una comunità con un futuro comune nel cyberspazio è divenuto una percezione condivisa e diffusa nella società internazionale”.

Allo stesso tempo, egli spera che la comunità internazionale rispetti la “sovranità” nel cyberspazio e sostenga uno spirito di collaborazione per avanzare insieme nello sviluppo, nel salvaguardare la sicurezza, nel partecipare all’organizzazione e condividere i benefici. “Le porte della Cina – ha sottolineato – non si chiuderanno mai al mondo, anzi si apriranno sempre di più”.
Molti rappresentanti hanno applaudito al messaggio di Xi per il suo “grande significato e concretezza”. Ma alcuni esperti fanno notare la contraddizione esistente fra la promessa di “maggiore apertura” e il radicale controllo a cui il web è sottomesso nel Paese. Tale controllo viene giustificato come “sovranità” nel cyberspazio, che ogni nazione dovrebbe esercitare all’interno dei suoi confini.

La Cina non solo attua il “Grande Firewall”, censurando su internet i contenuti internazionali che essa ritiene pericolosi per il Paese (democrazia, scioperi, dissidenza, questioni etniche e religiose, Tibet, Tiananmen, Xinjiang, ecc…), ma costringe i giganti del web a offrire servizi “zoppi”. Lo scorso anno Apple ha dovuto rimuovere diverse app che non piacciono al governo. E Google è ancora bloccato in Cina, per il suo non sottomettersi alle richieste di Pechino. Anche Facebook, Skype, Twitter e Youtube sono bloccati.

In compenso, le grandi compagnie cinesi di internet che accettano i limiti imposti dalla “sovranità” cibernetica, fanno affari d’oro nel Paese. Un rapporto pubblicato lo scorso settembre dalla Deloitte, indica che in Cina vi sono 98 compagnie nel campo valutate a 1 miliardo ciascuno. Fra queste vi sono la Tencent, Alibaba, Baidu, JD.com e altre.

La potenza economica della Cina sta nel suo mercato immenso. Secondo l’Ufficio nazionale delle statistiche, nel Paese vi sono 731 milioni di internauti che ormai usano il cellulare per tantissime operazioni, dai pagamenti online alla condivisione delle biciclette. Tom Cook, capo della Apple, presente alla Conferenza, fa notare che da quando la sua compagnia è entrata nel mercato cinese, vi sono stati 1,8 milioni di inventori cinesi di app che hanno guadagnato in totale 112 miliardi di yuan (circa 16,9 miliardi di dollari Usa).

La Freedom House, associazione Usa per i diritti umani, ha classificato la Cina all’ultimo posto nella lista dei Paesi per la libertà su internet. Ma questo sembra non avere peso fra coloro che vogliono fare affari con Pechino. In margine alla Conferenza, Cina, Serbia, Arabia saudita, Laos, Thailandia, Turchia e Emirati arabi uniti hanno annunciato un’iniziativa comune di “Belt and Road digitale”, una nuova Via della Seta che passa da internet e comprende un maggior accesso alla banda larga, una cooperazione nel commercio online, un incremento degli investimenti nel settore IT (Information technology).

Il timore di diverse organizzazioni è che attraverso la “collaborazione” internazionale, la “sovranità” nel cyberspazio della Cina diventi un controllo mondiale.

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Fonte: AsiaNews

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Approfondimento

Sito web della Conferenza

Tim Cook in Cina per la conferenza del governo su Internet

Great Firewall

La guerra della Cina alla rete

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WikiLeaks pubblica 300 mila email del partito AKP di Erdogan

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ISTANBUL, TURKEY - JULY 15  (Photo by Burak Kara/Getty Images)

ISTANBUL, TURKEY – JULY 15 (Photo by Burak Kara/Getty Images)

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Turchia, Wikileaks mostra l’email del partito di Erdogan

300mila missive scambiate dai membri dell’AKP, partito del premier. Ankara risponde con l’oscuramento del sito sul suolo nazionale

di Alfonso Maruccia

L’ultima release di Wikileaks riguarda le comunicazioni riconducibili all’AKP, il partito politico del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, da cui una fonte non meglio precisata ha “estratto” circa 300mila email inviate a partire dal 2010 fino al 6 luglio scorso – pochi giorni prima del fallimentare tentativo di colpo di stato a cui Erdogan sta ora rispondendo con una purga anti-opposizione senza precedenti.

Il database delle email dell’AKP include ovviamente solo messaggi scritti in turco, e il partito del leader e premier aveva evidentemente tutto l’interesse a non lasciar trapelare le comunicazioni visto che è bastato annunciare l’arrivo del nuovo leak per scatenare una reazione immediata da parte degli hacker. Prima della pubblicazione delle email, infatti, Wikileaks ha dovuto sopportare un attacco DDoS che è durato 24 ore e che ha spinto l’organizzazione di Julian Assange a bruciare le tappe rilasciando i dati in anticipo sui tempi inizialmente annunciati.

Le email dell’AKP potrebbero – tra le altre cose – contenere informazioni utili a risolvere il mistero del fallito golpe organizzato da una fazione anti-governativa dell’esercito turco, un colpo di stato conclusosi rovinosamente dopo pochissime ore e a cui ora Erdogan sta rispondendo arrestando, denunciando e licenziando decine di migliaia di non allineati o presunti tali tra giudici, poliziotti, militari, professori e ogni altro tipi di dipendente pubblico.

Nella Turchia di Erdogan le comunicazioni telematiche non hanno mai avuto vita facile, al punto da arrivare all’arresto dei giornalisti per utilizzo di software di cifratura comunemente utilizzati dagli utenti di tutto il mondo. Al premier di Ankara Internet e i servizi telematici piacciono solo quando servono ad aizzare i suoi sostenitori al sollevamento contro i soldati insorti, mentre per quanto riguarda Wikileaks la pubblicazione delle email dell’AKP ha portato al più che prevedibile blocco dell’accesso al sito in Turchia da parte delle organizzazioni che sovrintendono alle politiche da imporre agli ISP.

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Fonte: Punto Informatico

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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna la Turchia per aver bloccato YouTube

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Turkey-blocks-YouTube

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Turchia, condanna europea per il blocco del Tubo

di Claudio Tamburrino

Inibire gli accessi a YouTube per una manciata di video che, pur illegalmente, sbeffeggiano Ataturk viola i diritti fondamentali. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna la Turchia per aver impedito la libera manifestazione del pensiero.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato la Turchia per aver tagliato fuori dalla rete del paese YouTube in diverse occasioni tra il 2008 ed il 2010, un blocco decretato sulla base della presenza di diversi video illegali che avrebbero infangato l’immagine di Mustafa Kemal Ataturk, che la Turchia ritiene padre fondatore della Turchia moderna, e rimosso solo con la rimozione dei video.

Non si tratta dell’ultimo caso in cui la piattaforma viene bloccata in Turchia: all’inizio del 2014, per esempio, Ankata l’aveva resa inaccessibile in concomitanza con le elezioni amministrative. Sulla piattaforma di videosharing erano comparse delle registrazioni di certe intercettazioni sgradite al primo ministro Erdogan, che avrebbero rivelato troppo sulle strategie del potere turco in Siria. L’autorità che vigila sulle tecnologie delle comunicazioni, così come era avvenuto anche con Twitter, aveva ordinato ai fornitori di connettività di innescare i filtri: solo in un secondo momento era intervenuta l’autorità giudiziaria, riconducendo i blocchi all’illegalità di dieci video che che tiravano in ballo Ataturk, pericolosi per la sicurezza nazionale. Contro tale decisione non erano mancati i ricorsi, che in un primo momento avevano anche ottenuto la sospensione del blocco giudicato non proporzionale: tuttavia, davanti all’impossibilità da parte delle autorità locali di bloccare l’accesso ai singoli video, questo era stato rimosso ed il caso era arrivato fino alla Corte Costituzionale, che ne aveva infine decretato l’illegalità.

Il caso legato ai blocchi imposti dal Governo tra il 2008 ed il 2010, nel frattempo, non essendo riuscito ad ottenere giustizia nelle corti locali, faceva il suo iter: grazie al ricorso dei cittadini Serkan Cengiz, Yaman Akdeniz e Kerem Altıparmak, è giunto fino alla Corte di Strasburgo che si è così trovata per la seconda volta a condannare la Turchia per il blocco di un contenuto online considerato lesivo della memoria di Ataturk. Come in un analogo caso del 2012, scaturito dalla decisione da parte delle autorità locali di chiudere – insieme ad un sito accusato di ledere la memoria di Ataturk – anche l’intera piattaforma di blogging Google Sites, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha rilevato la violazione della libera manifestazione del pensiero.

Nella sentenza si legge inoltre che non vi è nessuna disposizione nella normativa nazionale che permetta alle autorità di bloccare una piattaforma intera in forza di un solo contenuto trovato in violazione della legge. Altresì si specifica che le restrizioni all’accesso di contenuti online sono considerate lecite solo nella misura in cui riguardino contenuti specifici e che non rispettino invece l’articolo 10 della Convenzione internazionale sui diritti dell’uomo quelle interdizioni generali che finiscono per colpire una piattaforma intera o comunque altri contenuti estranei a quelli accusati di violazione.

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Fonte: Punto Informatico

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