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Berlino – ” Basta con l’ossessione per la carriera. Il lavoro, così come si dà oggi, è una malattia…”

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Capitalism Kills Love

Photo by © Jeremy hunsinger

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«La vita? Non è solo lavoro»: a Berlino nasce il centro per il rifiuto della carriera

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Perché lavoriamo? Produciamo beni e servizi perché ne abbiamo realmente bisogno o solo perché possano tramutarsi in profitto? Ma soprattutto: chi ha stabilito che l’attuale mondo del lavoro debba fondarsi sull’ossessione per la carriera e sulla costante tensione verso l’automiglioramento? Queste e altre domande affollavano la mente di Alix Faßmann quando, circa due anni fa, decise di abbandonare il suo lavoro di giornalista e addetta stampa per la SPD (il partito socialdemocratico tedesco) e di intraprendere un viaggio chiarificatore in Sicilia. Ed è stato lì che ha incontrato Anselm Lenz, autore teatrale presso l’Hamburger Spielhaus (uno dei teatri più prestigiosi di Germania) che, stanco a sua volta di sacrificare amicizie, passioni e tempo libero sull’altare della carriera, si era licenziato ed era partito alla volta dell’Italia. Lenz, affascinato dalle idee dell’allora 33enne Faßmann, la convinse a raccoglierle in un libro: fu così che, nella primavera del 2014, vide la luce Arbeit ist nicht unser Leben: Anleitung zur Karriereverweigerung (Il lavoro non è la nostra vita: guida al rifiuto della carriera). Il libro fu una sorta di manifesto programmatico per Haus Bartlebythink tank che i due fondarono pochi mesi dopo a Berlino intendendolo come un Zentrum für Karriereverweigerung, “centro per il rifiuto della carriera”. Ma, soprattutto, come pensatoio che, pur non disponendo di teorie e modelli per il mondo di domani, ritiene indispensabile elaborare spunti critici verso la società tardocapitalistica e le sue modalità di lavoro.

Il centro. Haus Bartleby, che ha sede a Neukölln, deve il suo nome a un romanzo di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, il cui protagonista lavora come copista presso uno studio legale di Wall Street ma ad un tratto, dopo un periodo di attività intensissima, si rifiuta di continuare la sua ottundente mansione pronunciando la celebre frase I would prefer not to, che è appunto lo slogan del Zentrum berlinese. Haus Bartleby raccoglie professionisti dei settori più disparati, tutti accomunati dalla volontà di decostruire l’assunto in base al quale carriera e successo debbano determinare il valore di una persona. Un progetto culturale che ha evidentemente intercettato un nervo scoperto della società tedesca: gli abbonamenti alla rivista del centro sono infatti in crescita costante, mentre diversi importanti quotidiani (tra cui Die Welt, Die Zeit, Huffington Post) si sono interessati alla creatura di Faßmann e Lenz, che nel frattempo ha continuato a sfornare pubblicazioni, a incassare l’appoggio di istituti importanti come il Club of Rome e la Rosa-Luxemburg Stiftung e a organizzare una serie di conferenze con filosofi ed economisti sul futuro del lavoro. Tra i simpatizzanti dell’associazione, che ormai conta una decina di membri fissi e più di quaranta collaboratori esterni, ci sono anche Dirk von Lowtzow della celebre rock band amburghese Tocotronic e l’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, entrambi autori di un saggio nell’antologia Sag alles ab!, pubblicata nel 2015.

La filosofia di Haus Bartleby. «Il lavoro, così come si dà oggi, è una malattia. La proprietà, nelle forme attuali, un crimine di dimensioni storiche», si legge sul sito del centro. Il j’accuse di Haus Bartleby è radicale, e si rifà chiaramente a un filone di pensiero da sempre molto vivo in Germania, che abbraccia analisi marxiana, anticapitalismo, teoria critica. Ma queste riflessioni provengono in primis dalle concrete esperienze di vita e di lavoro dei suoi fondatori. Che, prima di mollare tutto, non erano manager stressati o precari sottopagati, ma professionisti con mansioni stimolanti, almeno in apparenza. Tra di essi, c’è anche Hendrik Sodenkamp, 27enne ex assistente personale di Carl Hegemann (affermato drammaturgo del Berliner Volksbühne) e studente di letteratura tedesca prima di imbattersi in Haus Bartleby. Anche lui, come Faßmann e Lenz, sentiva che qualcosa non funzionava: ne aveva abbastanza di lavorare 60 ore alla settimana, di sacrificare amicizie e tempo libero, di piegarsi a logiche improntate alla competizione, al continuo self improvement, al mantra anni ’80 del “lavoratore imprenditore di se stesso”, così come ai meccanismi di un’università strutturata soltanto su crediti, voti e «attenzione alle richieste del mercato». E tutto questo per cosa? Per inseguire il mito della carriera, un’ambizione che costringe a vivere «costantemente proiettati nel futuro, nel prossimo step funzionale al successo, mentre nel “qui e ora” non facciamo mai quello che sarebbe giusto per noi», spiega Sodenkamp Die Zeit. Ma, suona la domanda posta da Haus Bartleby, a chi serviamo quando ci dedichiamo alla promessa della carriera? Non a noi stessi, se il nostro lavoro è determinato soltanto dalla necessità economica di portare a casa uno stipendio o dalla pressione sociale che ci impone di raggiungere una posizione adeguata alle aspettative nostre o di chi ci circonda. Ma nemmeno agli altri e al mondo, se il risultato di tanti processi produttivi – materiali o intellettuali – è soltanto «aria fritta» – così definisce Alix Faßmann le sue mansioni alla SPD – o spesso addirittura nocivo.

Rifiuto della carriera, non elogio dell’ozio. Ma questi “negatori della carriera”, in realtà, non rifiutano il lavoro in sé, come potrebbe a prima vista sembrare, bensì soltanto quello eterodiretto (un tempo si sarebbe detto alienato), non incentrato sulla realizzazione delle proprie passioni e dei propri bisogni. «Da quando ci siamo licenziati lavoriamo in realtà molto di più», ride Sodenkamp, «ma per qualcosa che riteniamo davvero utile, riflettere sulle disfunzioni del nostro modello sociale. Insomma, il lavoro è qualcosa di positivo, purché sia autodeterminato. Ma se lo si svolge solo sotto la pressione di imperativi economici e sociali, allora una vita buona diventa impossibile». Certo, qualcosa bisogna pur mangiare, e così Faßmann, Lenz e tutti i collaboratori a tempo pieno si arrangiano con lavori part-time di vario genere per arrivare alla fine del mese. Ma, anche se i soldi sono pochi e la fatica tanta, sono soddisfatti perché riescono a non perdere il senso di quello che fanno: contribuire a immaginare un nuovo mondo del lavoro.

Il “tribunale del capitalismo”. E in quest’ottica rientra anche il nuovo progetto di Haus Bartleby, il “tribunale del capitalismo”. Si tratta di una piattaforma online su cui ogni cittadino può indicare gli aspetti dell’attuale sistema economico che ritiene maggiormente patogeni e da superare. In breve tempo sono arrivati sul sito già quattrocento “capi d’accusa” che toccano questioni molto diverse tra loro come l’austerity e il potere delle multinazionali, la distribuzione della ricchezza e la ripartizione sociale del lavoro. L’anno prossimo i temi più sentiti saranno presentati e dibattuti alla Haus der Kulturen der Welt. I Karriereverweigerer dicono di fare sul serio, di non proporre soltanto una provocazione estetica o un’utopia in stile paese di cuccagna, con benessere per tutti e lavoro soltanto per chi lo desidera. Certo, dopo la pars destruens, manca loro un progetto politico preciso. Ma, come mostrano le proteste di Nuit Debout (che Sodenkamp ha seguito da vicino), il malessere causato dal modello sociale vigente è forte. E qualcosa, prima o poi, dovrà cambiare. Chissà che i progressi nel campo dell’automazione e i dibattiti sul reddito di base non segnino la strada da seguire per una società libera dai feticci neoliberisti della carriera e della produttività a ogni costo.

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Fonte: Berlino Magazine

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Veneti e friulani saliti sull’altopiano per difendere la foresta

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La foresta del Cansiglio

La foresta del Cansiglio

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Consiglio: giù le mani dalla foresta!

16 Settembre 2016

I sindaci dell’Alpago e della pedemontana trevigiana del Cansiglio vogliono un investitore che acquisti dalla Regione l’hotel San Marco e lo trasformi n un centro benessere? «Si accomodino» hanno reagito i promotori della prima festa popolare del Cansiglio, davanti ai 2 mila tra veneti e friulani saliti sull’altopiano, nonostante il brutto tempo e che neppure un violento acquazzone ha fatto scappare.

Ne erano attesi 300, domenica 19 giugno, non di più, per protestare contro la vendita (o la svendita?) del San Marco, chiuso da due decenni ed in precarie condizioni, ne sono arrivati cinque volte tanto. Un’autentica sorpresa, che ha colto impreparati anche gli organizzatori, da Mountain Wilderness all’Ecoistituto del Veneto, passando per Radio Gamma5.

«Questo dimostra com’è condiviso e popolare il sentimento di una protezione assoluta per questa foresta» ha commentato Michele Boato, presidente dell’Ecoistituto e autore di una lettera aperta al governatore del Veneto Zaia, per dirgli che quegli 815 mila euro che sono la base d’asta della vendita del San Marco non porteranno alcun beneficio economico, mentre daranno il via alla privatizzazione dell’altopiano. Sono state raccolte, nella circostanza, anche le prime 1200 firme in calce ad una petizione pubblica. Gli alpinisti Kurt Diembergher e Fausto De Stefani, tra i nomi più noti di scalatori, quando ieri mattina sono stati portati al San Marco per constatare il sito, hanno subito osservato che «sarebbe uno scempio aprire, in un luogo così fragile e strategico dal punto di vista naturalistico, un centro benessere, un albergo che richiamerebbe la necessità di un indotto di altre strutture, e di conseguenza la privatizzazione del Cansiglio».

È intervenuto anche Cesare Lasen, già pressidente del Parco nazionale Dolomiti bellunesi, una delle autorità in campo botanico, per sottolineare l’importanza del Cansiglio su questo piano. Da qui la necessità che prima di pensare alla candidatura delle colline del Prosecco come patrimonio tutelato dall’Unesco, si prenda in considerazione questa la sollecitazione di De Stefani la candidatura del Cansiglio. O, ancor meglio, la sua aggregazione alle Dolomiti già protette. Duemila persone non se le aspettava proprio nessuno, ieri in faccia al monte Pizzoc, da una parte, e al monte Cavallo, dall’altra. Gli organizzatori hanno promosso al mattino alcune escursioni per conoscere puntualmente la foresta: lungo la strada del Patriarca, al Giardino alpino, al Museo naturalistico e a quello etnografico “Anna Vieceli”; il gruppo più nutrito ha voluto conoscere i grandi alberi della foresta, i più storici.

Poi la festa e, prima che diluviasse, le riflessioni ad alta voce. C’è ancora tempo hanno convenuto gli oratori perché Zaia, che ha dimostrato grande sensibilità nel salvare centinaia di cervi dalla mattanza, ritiri il bando di vendita del San Marco, e magari lo faccia abbattere essendo in condizioni precarie, e lasci il colle su cui sorge alla fruibilità delle migliaia di visitatori dell’antico bosco da remi della Serenissima Repubblica.
La festa è proseguita quando è cessata la pioggia. È stata ospitata dall’ex base militare della guerra fredda, dove sta per essere definitivamente sistemato un grande parcheggio per camper e dove uno dei vecchi hangar sarà trasformato in un Museo della guerra fredda, con annesso auditorium. Museo che i sindaci ritengono inutile («non si possono spendere 600 mila euro in questa maniera» commenta il sindaco di Tambre), mentre sarebbe più urgente la definitiva sistemazione del parcheggio dei camper.

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Fonte: Salva le Foreste

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Approfondimento

Alpago

Cansiglio

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73° Biennale del Cinema di Venezia: “Spes contra spem” docufilm sull’ergastolo ostativo

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Al Festival di Venezia in scena “Spes contra spem-Liberi dentro”, docufilm di Ambrogio Crespi sul fine pena mai.

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Fine pena: mai. È la condanna scritta nel destino dei detenuti cui è applicata la massima punizione prevista dal nostro codice penale, il cosiddetto ergastolo ostativo. Una pena immutabile che, a differenza di quanto accade con l’ergastolo “normale” – in cui, dopo 26 anni di detenzione, il condannato può uscire dal carcere e avere la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale – prevede che il detenuto viva tutta la sua esistenza in un regime di eccezione, senza poter accedere ad alcun beneficio penitenziario. A raccontarne le ombre è stato Ambrogio Crespi, nel docufilm Spes Contra Spem – Liberi subito, prodotto in collaborazione con Nessuno Tocchi Caino, Indexway e Radio Radicale. L’opera, che sarà presentata questa settimana alla 73° Biennale del Cinema di Venezia, racconta le storie di criminali, mafiosi e pluriomicidi, immergendo lo spettatore nel viaggio di colpa, reclusione e speranza di chi è condannato all’ergastolo ostativo.

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Il regista, in particolare, ha incontrato e intervistato detenuti e agenti di polizia della casa di reclusione Opera, tracciando – senza pregiudizi e senza buonismi – “un manifesto contro la criminalità, scritto da criminali che sgretolano il mito del criminale stesso”, raccontando “storie di uomini con un ergastolo ostativo, un ‘fine pena mai’ che oggi sono un manifesto delle istituzioni e che ringraziano senza dubbi chi li ha sottratti alle loro vite ‘libere’ perdute. Dal film emerge con chiarezza, infatti, non solo un cambiamento interiore dei detenuti – nel loro modo di pensare, di sentire e di agire – ma anche la rottura esplicita con logiche e comportamenti del passato e una maggiore fiducia nelle istituzioni.

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La prima proiezione è prevista per il 7 settembre alle ore 15:00. A seguire, interverranno il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, il regista Ambrogio Crespi e Sergio d’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino. Il 9 settembre alle 11:00 la seconda proiezione, nella Sala Pasinetti della Biennale. La capienza della sala è di 120 persone e l’ingresso è libero.

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Trailer

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Da: Ristretti Orizzonti

Fonte: galileonet.it

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Approfondimento

Che cos’è l’ergastolo ostativo

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