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Lou Reed è morto oggi, 27 ottobre 2013.

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Lou-Reed

Lewis Allan Reed (Lou Reed)

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Lou Reed,  cantautore  e chitarrista che ha contribuito a plasmare quasi cinquanta anni di musica rock, è morto oggi a Long Island all’età di 71 anni. La causa della sua morte non è stata ancora resa nota, ma probabilmente è legata ad un trapianto di fegato che Reed ha subito a maggio. (rollingstone.com)

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Lou Reed

Stregato dal rock’n’roll

di Stefania Zonarelli

Con le sue storie di ordinaria follia urbana ha raccontato l’altra faccia dell’America. Con i Velvet Underground ha praticamente inventato il rock decadente. E da solista ha continuato a sperimentare nuove forme di interazione tra poesia e musica. Storia di uno dei padrini della new wave, del “New York city man” per antonomasia, del “rock’n’roll animal” che si è immolato per sempre a quel “potere oscuro che può cambiarti la vita”…

“Me ne fregava solo della musica, mi interessava solo quello. Ho sempre creduto di avere qualcosa di importante da dire, e l’ho detto. E’ per questo che sono sopravvissuto, perché ancora credo di avere qualcosa da dire. Il mio Dio è il rock’n’roll. E’ un potere oscuro che ti può cambiare la vita”. (Lou Reed)

Un’icona. Un archetipo. Un mito. Una leggenda vivente. Questo è oggi Lou Reed, che al rock’n’roll ha dedicato una vita. Ma non una leggenda che sopravvive a se stessa, bensì un artista in continua trasformazione che, da quarant’anni, mantiene intatta la voglia di emozionare e di emozionarsi; che, da quarant’anni, continua a stupire, sfornando canzoni su canzoni che dice di sentire incessantemente nella sua testa come una radio permanente.
Dalla metà degli anni Sessanta non c’è stato decennio in cui non abbia lasciato la sua impronta contribuendo, di fatto, a uno sviluppo significativo della musica rock, di cui incarna incredibilmente ancora il vero spirito: iconoclasta, ribelle, fuori degli schemi.
Vittima per anni di abuso di droghe e alcool, a differenza di tante rockstar della sua generazione scomparse soccombendo a uno stile di vita che faceva dell’autodistruzione una forma di esperienza artistica, ha avuto la fortuna, ma soprattutto la forza e la capacità, di venirne fuori, acquisendo quell’equilibrio e quella integrità, assolutamente impensabili solo fino a qualche tempo prima, che gli hanno finalmente permesso di essere in pace con se stesso senza più la necessità di doversi nascondere dietro alle maschere dei suoi personaggi.

“Il rock’n’roll per me era tutto, ed è tuttora la promessa di un mondo al di fuori della mia stanza e qualunque mondo fosse mi sarebbe piaciuto”.
Lewis Firbank “Lou” Reed nasce a New York il 2 marzo 1942 e cresce nella cittadina di Freeport – Long Island, in una famiglia della borghesia ebraica medio-alta. Come tutti i giovani rampolli dell’ambiente “bene”, studia pianoforte classico ma, stregato dal rock’n’roll, considerata la musica del diavolo, a 10 anni inizia a strimpellare la chitarra. Al college suona in vari gruppi, scoprendo così il blues, il doo-woop e il rockabilly. E’ un adolescente eccentrico, bizzarro, ribelle contro la società e la famiglia “Non mi sono mai piaciute le scuole, non mi piacevano i gruppi, non mi piaceva l’autorità. Ero fatto per il rock’n’roll”. Scandalizza per gli atteggiamenti effeminati e provocatori, per i discorsi sull’omosessualità: nei primi anni Sessanta l’omosessuale è considerato ancora il soggetto più culturalmente minaccioso e destabilizzante. Lo psichiatra, al quale i genitori si rivolgono, sottopone il diciassettenne Lou a una serie di elettroshock; la terapia, in quel momento tristemente in voga, è traumatizzante e devastante per la sua ipersensibile e fragile personalità, e completa il processo di deterioramento già avviato nel rapporto con i genitori dai quali si sente tradito, e verso i quali riversa il proprio risentimento che, negli anni successivi, si manifesterà anche attraverso canzoni durissime, come “Kill Your Sons”, “Family”, “My Old Man” e “Standing On Ceremony”. Alla fine del trattamento, si convince che la sua personalità aveva subito una frammentazione in numerose “altre”, che poteva richiamare a suo piacere. “I hate psychiatrics”, scriverà in seguito in una delle sue migliori poesie.

Ma Lou sarà salvato dalla musica che, secondo le sue parole, gli restituirà la voglia di sognare. “La musica è tutto. La gente muore per un sacco di altri motivi e allora perché non per la musica. Salva così tanta gente!”.

“Il lavoro più incredibile che abbia mai letto; lo lessi all’università e cambiò la mia vita per sempre”. Questo potere sulla mente del giovane Reed lo esercita la raccolta di racconti “In Dreams Begin Responsibilities And Other Stories”, pubblicata nel 1937 da Delmore Schwartz, lo scrittore e poeta ebreo statunitense della Middle Generation di cui sarà allievo, discepolo e confidente.
Accomunati dal tormento di vivere un’omosessualità repressa, frutto di un’educazione perbenista e oppressiva, s’incontrano all’Orange Cafè, dove Schwartz, grande mentore e abile narratore, legge Joyce ed Eliot e declama poesie ai suoi allievi della Syracuse University, presso la quale insegna scrittura creativa. “Infuse valore a un’esperienza universitaria disastrosa” dirà di lui Reed. Iconoclasta e nichilista, il premio Nobel per la letteratura Saul Bellow, che alla sua figura s’ispirò per il protagonista del suo romanzo “Il dono di Humboldt”, lo definì “Il Mozart della conversazione”. Ma nei primi anni 60 è in declino, ha già alle spalle un decennio di abusi di alcool e anfetamine, ed è vittima di ossessioni e di crisi maniaco-depressive sempre più frequenti che lo porteranno all’autodistruzione. Alla sua morte, Lou Reed compone per lui “Black Angel’s Death Song”, canzone dal recitativo minimalista, perché Schwartz non amava i testi rock.

“Mi piace scrivere di cose che rappresentano l’umanità. Non conosco altro argomento più importante di questo”.
La prosa disadorna ed essenziale di cui Lou Reed si avvale, ancora oggi, per scrivere le sue canzoni s’ispira agli autori della Beat Generation come William Burroughs, a nomi come Raymond Chandler o come Hubert Selby Jr., il cui stile scabroso e conciso, il cui modo naturale di descrivere i comportamenti bestiali e crudeli dei personaggi di “Ultima fermata a Brooklyn”, i quali usano un linguaggio oscuro e gergale, Reed utilizza in brani come ad esempio “Sister Ray”, per rappresentare la varia umanità metropolitana degradata che lo circonda. L’amarezza e la rabbia insite negli scritti di Selby le troviamo anche nelle sue canzoni, ma se da una prima facile lettura ci lasciano senza speranza, presto vi scopriamo, a volte più esplicitamente altre solo fra le righe, un umorismo e un’autoironia che ci mostrano un altro aspetto delle cose, più positivo e divertente, quasi distaccato.
Ma la figura più autorevole nella sua vita e nelle sue opere sarà Delmore Schwartz. Dalla sua iniziazione alla lettura, dai suoi insegnamenti, dalla sua arte poetica – a detta di Reed “in grado di esprimere concetti incredibili e potenti che riescono a visualizzare l’Essenza delle cose utilizzando un linguaggio semplice e conciso per raggiungere le più alte vette artistiche” – trae l’ispirazione per quello che sarà il suo stile di scrittura. “E’ così che volevo scrivere, con parole semplici che suscitassero emozione e accompagnarle con i miei tre accordi. Sarebbe fantastico poter ascoltare un rock’n’roll che fosse all’altezza di un romanzo, ma con il divertimento della musica”. Il rock come linguaggio perfetto per raccontare la realtà.

Scrive canzoni commerciali per la Pickwick Records, con la quale a quattordici anni incide il suo primo disco. Proprio presso la casa discografica newyorkese incontra il musicista gallese John Cale; polistrumentista talentuoso (pianoforte, viola, basso) di estrazione classica, si trova in America grazie a una borsa di studio e collabora con le due personalità più eminenti della musica d’avanguardia d’oltreoceano: John Cage e LaMonte Young.
I Velvet Underground, nome carpito dal titolo di un libro di Michael Leigh che riporta in copertina una frusta e dei lunghi stivali in pelle, sono il frutto dell’unione di questi due artisti geniali e di due gregari di eccezione come il chitarrista Sterling Morrison (compagno di studi di Lou alla Syracuse University) e di Maureen Tucker (che sostituisce Angus McLise), prima donna batterista dell’epopea rock, dotata di una ritmica straordinaria. Precursori del fenomeno new wave, profondamente legati alla New York anni 60, un crogiolo di avanguardie, artisti e circoli underground, rappresentano l’anima più oscura e sotterranea della cultura alternativa.
Dylan aveva spalancato le porte e indicato la strada. Il rock poteva essere una musica viscerale ed emotiva, ma poteva anche servirsi della poesia per colpire ancora più in profondità.

Un mirato uso del lessico, un perfetto accostamento fra parole e sillabe che dà alle sue canzoni, brevi storie in musica, un tono più narrativo che lirico; il senso impeccabile per le frasi ottenuto con l’utilizzo, per la prima volta nella scrittura di una canzone, della cadenza plagale unito al continuo processo di sintesi, di condensazione, imposto dalla particolare struttura della forma canzone che richiede a ogni strofa la visualizzazione immediata di immagini precise, potenti e dense di suggestioni e inquietudini, rivelano in Reed, sin dall’inizio, una maturità stilistica impressionante.
Il lirismo innovativo dei suoi versi, con l’utilizzo accurato del monologo interiore, intensificato dalla narrazione in prima persona, descrive, senza compiacimento, un’umanità degradata e spesso crudele. Le sue canzoni parlano di droga, di sesso, di alienazione e di morte creando, come disse John Cale, “una mitologia della strada”. Proprio mentre si sta celebrando l’epopea hippie che utopisticamente sventola i simboli della pace e dell’amore come propria bandiera – e che oggi sappiamo avrebbe lasciato sul campo caduti illustri – Lou Reed guarda già oltre l’infrangersi di quel sogno collettivo contro l’impatto degli anni Settanta, quando le manifestazioni giovanili muteranno forma, assumendo sembianze meno idilliache, e partecipa alla sepoltura del mito hippie configurando l’iconografia punk.

La musica dei Velvet Underground, poi, è diversa da qualsiasi cosa suonata in precedenza. Sono scomparse le tonalità blues e i ritmi afro-americani, componenti principali di tutto il rock’n’roll suonato sino a quel momento. Quello che propongono è un rock cameristico, minimalista, il cui magma ritmico ed espressivo è il frutto di una strumentazione che è quanto di più innovativo e originale si possa immaginare.
Lo straordinario amalgama costituito dallo stridio della viola elettrica di John Cale – eredità dell’ensemble di musica seriale di LaMonte Young, il cui ponte appiattito permette di suonare contemporaneamente tutte le corde accordate sulla stessa nota (sistema particolare battezzato da LaMonte Young “Just Intonation System”), ottenendo così un effetto-bordone che può essere suonato per ore -, dallo stile di chitarra “ridondante” di Reed, in cui il feedback si scontra e interagisce con la fondamentale chitarra di Sterling Morrison, dalla ritmica scarsa, minimalista, quasi tribale della Tucker, che suona come un tamburo due timpani con i feltri. Questo straordinario amalgama ha fatto sì che il loro suono sia ancora oggi identificabile per la sua unicità.
La ricercata e frenetica intellettualità di Reed, unita all’avanguardia colta di John Cale; la fusione fra due generi musicali così apparentemente agli antipodi e la commistione fra musica e poesia hanno fatto scuola, tanto che oggi i Velvet Underground sono considerati, insieme con i Beatles, il gruppo più importante nel generare influenze dagli anni 60 in poi.

“Era dolcissimo, generoso, gentile, faceva coraggio anche a chi pareva non conoscerne i termini. Lavorare con lui significava arricchirsi nella fantasia e allargare senza confini la propria creatività”. Così oggi Reed parla di Andy Warhol, con Schwartz la figura fondamentale per la sua vita artistica.
Il loro primo incontro avviene nel dicembre 1965, quando l’artista più alternativo della scena newyorkese assiste, su segnalazione della regista Barbara Rubin, a una performance dei Velvet Underground al Café Bizzarre, proprio la sera in cui stanno per essere licenziati, e ne rimane folgorato. Sono esattamente il gruppo musicale provocatorio, disturbante e scandaloso che sta cercando. Li scrittura all’istante per lo spettacolo che deve mettere in scena: l’Eruptin, poi Exploding Plastic Inevitable. L’EPI, il prodromo dello spettacolo multimediale, ha lo scopo di abbattere le barriere fra le varie discipline artistiche con l’esecuzione in contemporanea di numerosi eventi artistici, nel nome della appena definita “Pop Art”, espressione della più sconcertante e audace frattura con la tradizionale idea d’arte, che non solo smaschera i legami con i media e la produzione delle merci, ma ne fa una propria idea d’arte: danza, fotografia, complessi effetti di luci stroboscopiche, suoi film e diapositive – ritratti non più eseguiti sulla tela, dichiara, infatti, di non credere più nella pittura, ma su pellicola – proiettati su di una band intenta a suonare musica devastante.
Entrano così a far parte della Factory, il quartier generale di Warhol, la “fabbrica” intesa come idea collettiva di produrre l’opera d’arte in una sorta di catena di montaggio, che fornisce una nozione nuova e anti-romantica dell’artista. Un eccitante laboratorio dove confrontarsi con le più innovative teorie estetiche, come la cosiddetta sensibilità “camp”, la cui essenza è l’amore per l’artificio e l’esagerazione. Un ambiente tollerante, dove si sperimenta una nuova forma d’arte costruita sulla sinergia di talenti che lui sostiene, come musicisti, poeti, scrittori, registi, frequentata da un universo eterogeneo di disadattati, emarginati, travestiti, giovani artisti, spacciatori, omosessuali e divi del rock di passaggio, tutti in cerca dei loro quindici minuti di notorietà che, secondo Warhol, non si potevano negare a nessuno. La frequentazione della Factory, un’immensa raccolta di personaggi e storie, sarà per Reed un serbatoio da cui attingere e che darà i suoi frutti anche negli anni successivi.

L’idea pop era che “chiunque poteva fare qualunque cosa”, esplorando ogni possibilità creativa. Solo un artista come Warhol, la figura che meglio ha interpretato la commistione fra arte e consumo di massa, poteva intuire, a metà degli anni 60, le insospettabili possibilità del rock, una forma espressiva fino ad allora considerata priva di valore. Decide così di inserirsi anche nell’ambiente musicale e riesce a trovare un contratto per l’house band della Factory. Nonostante un certo malcontento, impone alla band la presenza della sua pupilla, la biondissima e affascinante attrice/modella Nico, la cui presenza, il cui accento teutonico (era di origine tedesco/ungherese), la cui voce spettrale e profonda è in netto contrasto con la brutalità della musica dei Velvet Underground. Da questa formula magica scaturisce uno degli album più importanti e influenti nella storia del rock: The Velvet Underground And Nico. Per la prima volta la musica rock è concepita come forma artistica dotata d’integrità, e non solo come un prodotto commerciale da vendere. Il disco, pubblicato nel 1967, è prodotto dallo stesso Warhol che però lascia alla band carta bianca, firmando comunque la ormai famosissima copertina con la banana che, una volta sbucciata, scopriva una rosea banana color carne. A rock’n’roll stranianti, cantati da Lou Reed e arrangiati con feedback lancinanti, si contrappongo ballate più lente e oniriche cantate da Nico. Sono storie di varia umanità raccontate con chitarre distorte, una viola dissonante o in tenebroso contrappunto e percussioni tribali, una musica ben lontana da quella in quel momento in voga. Album lodato dalla critica – il Village Voice scrisse “pare un matrimonio fra Bob Dylan e il Marchese De Sade” – ma quasi totalmente ignorato dal pubblico.

Da Warhol, grande manipolatore dei media, Reed assimila l’estetica, la maniera di vedere le cose, la capacità di “capire”, di “partecipare” di “creare” nell’arte. Ciò nonostante il loro rapporto, certamente magico e basato su un grande affetto, ma sempre molto problematico, si spezza e le loro strade artistiche si dividono.
I Velvet Underground pubblicano altri tre album con Steve Sesnick, un produttore più esperto dell’ambiente musicale ma che, esacerbando i contrasti fra Reed e Cale basati soprattutto su divergenze riguardo l’indirizzo musicale da dare alla band (più pop per il primo, più sperimentale il secondo), si renderà responsabile delle numerose liti all’interno del gruppo.
Nel dicembre 1967 esce White Light/White Heat, un lavoro che accentua l’estremizzazione disturbante e rumorista dei suoni. Certamente di non facile ascolto, folle e abrasivo, è l’album che probabilmente più rappresenta la vera anima del gruppo. In seguito all’abbandono/estromissione di John Cale per dissidi con Reed, abilmente fomentati da Sesnick, escono The Velvet Underground nel marzo 1969 e Loaded nel settembre 1970; quest’ultimo vede l’abbandono di Reed a metà delle registrazioni, fisicamente e moralmente distrutto dall’abuso di droghe e afflitto da gravi problemi alla voce, tanto che alcune canzoni non ancora incise sono interpretate da Doug Yule, il bassista/tastierista che ha sostituito Cale.

Gli ultimi due album, che senza la presenza di Cale hanno perso l’originario radicalismo e le pulsioni avanguardistiche che residuano solo nel pezzo “The Murder Mystery”, sono pur sempre lavori di alto livello. Canzoni come “Pale Blue Eyes”, dedicata da Reed al primo e ormai perduto grande amore Shelley, “Sweet Jane”, “Candy Says”, “Rock & Roll” possono essere un assaggio di quella che sarà la carriera solista del cantautore newyorkese. Per una beffa del destino, i Velvet Underground riescono a ottenere un certo consenso popolare proprio nel momento in cui muoiono.
Negli anni successivi saranno pubblicati due album live: The Velvet Underground Live At Max’s Kansas City nel 1972 (testimonianza dell’ultimo concerto dei Velvet Underground con la presenza di Reed) e il doppio 1969 Velvet Underground Live nel 1974. Nel 1985 sarà pubblicato VU, nel 1986 Another View, entrambi con materiale inedito remissato. Nel 1995 Peel Slowly And See, un cofanetto che racchiude, in cinque cd, tutti gli album e una serie d’inediti.

“Sono triste, di umore incostante, stupito della mia stessa inettitudine, ma ancora stregato dal pensiero delle possibilità”.
La disgregazione dei Velvet Underground ha reso il ventiquattrenne Lou vittima di una grave crisi psicofisica, tanto da costringerlo, nei mesi successivi, a rifugiarsi a casa dei genitori, dove medita il ritiro dalle scene per dedicarsi esclusivamente alla scrittura. La sua personalità così sensibile, e per questo così fragile e vulnerabile, è tormentata dall’incerta sensazione di essere un omosessuale che, a causa di una severa educazione, desidera disperatamente essere etero, straziato dalla dicotomia fra ciò che è e ciò che vorrebbe essere. E’ di quel periodo il matrimonio con Bettye, la classica ragazza ebrea di buona famiglia, spudoratamente simile alla madre. La scelta è mossa, probabilmente, dal tentativo di dissociare la propria personalità dall’imbarazzante legame con l’ambiente gay/bisessuale della Factory e dal suo legame con Billy Name (fotografo di Warhol), anche se è in totale antitesi con quella che sarà la sua prossima immagine pubblica, caratterizzata da una spiccata ambiguità sessuale.

La ritrovata energia scaturita dall’amore per Bettye e le vittorie legali con Sesnick, che gli permettono di ottenere tutti i diritti per i due album Velvet Underground e Loaded (anche se perderà i diritti sul nome “Velvet Underground”), lo convincono a uscire dallo stato d’ibernazione e ad abbandonare l’esilio di Freeport.
Torna a New York, dove frequenta il Collective Coscience, un salotto letterario per scrittori rock fondato da Lisa e Richard Robinson. Quest’ultimo, produttore della Rca, presenta Reed a Dennis Katz, un agente della stessa casa discografica americana, che ha appena convinto David Bowie, nuovo astro nascente della musica britannica, a sottoscrivere un contratto con loro. Sarà proprio la firma dei rispettivi contratti che fornirà l’occasione a questi due straordinari artisti d’incontrarsi per la prima volta. Inizia così, firmando un contratto con la Rca per due album che si dovranno registrare negli studi di Londra, la sua lunga e contraddittoria carriera solista.

All’inizio degli anni 70 i Velvet Underground sono ritenuti, soprattutto nell’ambiente artistico londinese, un punto di riferimento per una nuova generazione di artisti, e il passaggio di Reed da figura appartenente a un gruppo di culto ad artista solista è atteso come un evento.
Il folkeggiante Lou Reed, prodotto dai Robinson e pubblicato nel maggio 1972, si rivela invece un preludio deludente e rischia di distruggere la sua carriera solista già dall’esordio. Si tratta, infatti, di un lavoro incerto e privo di idee nuove, anche se i pezzi, frutto di scarti dalle incisioni con i Velvet Underground, sono in ogni caso buone canzoni. I musicisti che la Rca mette a sua disposizione poi, per quanto validi, non sono idonei per le sonorità delle sue composizioni; la chitarra ritmica di Lou, da sola, non riesce a controbilanciare gli arrangiamenti, che appaiono incolori e poco efficaci. Album che oggi meriterebbe una rivalutazione, perché forse la sua unica vera colpa sta nell’essersi trovato soffocato fra i capolavori precedenti e quelli successivi, ma che all’epoca fu un flop, tanto da farlo risprofondare nel più cupo sconforto.

Il destino gli riserva però un’altra possibilità e la salvezza ha proprio l’effigie di David Bowie, artista particolarmente legato al suo stile e al patrimonio artistico dei Velvet Underground. Il “re del glam”, ormai perfettamente impadronitosi delle strategie comunicative e delle tecniche di manipolazione dei media di Warhol, sfrutta la propria influenza dovuta a un repentino successo, e, molto generosamente, si offre di produrre, con la collaborazione di Mick Ronson (suo chitarrista di fiducia), Transformer, il secondo album solista di Reed che, in perfetto stile glam-rock, rende omaggio proprio all’ambiguo mondo della Factory di Warhol, in cui il glam affonda le radici. Per l’occasione Reed dichiara pubblicamente la propria bisessualità e si trasforma, sempre con l’aiuto di Bowie, nel “fantasma del rock”: occhi bistrati, trucco giapponese, unghie laccate di nero. Il disco è una sequenza di successi: il singolo “Walk On The Wilde Side”, prima canzone che conteneva espliciti riferimenti al travestitismo, “Perfect Day”, bellissima ballata dal sapore jazzy, dolce e malinconica, impreziosita dagli arrangiamenti per pianoforte e archi di Ronson, “Vicious”, con il suo andamento giocoso e un arrangiamento volutamente scarno, per far risaltare il riff distorto della chitarra nervosa di Ronson; e ancora “Satellite Of Love”, una delle glam-song più belle di sempre, con la presenza nel coro dell’eccezionale voce di Bowie, uno struggente accompagnamento di piano e un testo, follemente ironico, che tratta con scherno il tema della gelosia.
L’album è certamente il suo lavoro più celebre, quello con il quale la maggioranza del pubblico lo identifica. Pubblicato nel novembre 1972, si rivela un trampolino di lancio e gli regala finalmente la notorietà sino a quel momento vanamente cercata, facendogli ritrovare la fiducia in se stesso e dando un nuovo impulso alla sua creatività.
Ma Lou Reed, artista poco incline alle mode e ai compromessi, è incapace di gestire il successo, con il quale ha sempre avuto un rapporto contraddittorio (lo desidera e al tempo stesso lo detesta). Abbandona rapidamente i panni glam, e negli anni successivi si dibatterà fra aspirazioni avanguardistiche e il ruolo d’icona della trasgressione sessuale dedita a ogni tipo di droghe.

Grazie al successo ottenuto, riesce però a imporre alla sua casa discografica un lavoro difficile come Berlin, sublime e intenso vertice del suo talento. Pubblicato nel luglio 1973 è l’album che completa il trittico londinese. E’ un concept ambientato nelle nebbiose atmosfere decadenti dei cabaret tedeschi d’inizio Novecento, che racconta, come una lunga poesia, una storia d’amore malata, angosciante, degenerata e cinica, e narra di disperazione, sesso e droga. Definito da Reed “Il mio Amleto elettrico”, è lo specchio della sua vita privata e del rapporto disastroso con la moglie. I personaggi non sono descritti, ma delineati attraverso il monologo, i dialoghi e le loro azioni, con un perfetto uso del mezzo linguistico. “Lady Day” è un chiaro riferimento alla sfortunata cantante jazz Billie Holiday, morta prematuramente per abuso di droghe e alcol, la cui figura è utilizzata, metaforicamente, in relazione alla protagonista Caroline, facendo già presagire il tragico epilogo della vicenda. In “Caroline Says Part 1” conosciamo, attraverso il resoconto in forma indiretta del narratore, le parole della protagonista, nella quale possiamo riconoscere, con la definizione “Germanic Queen”, il prototipo di molte delle figure femminili “dominatrici” che hanno rivestito un ruolo importante nella vita di Reed. In “How Do You Think If Feels”, il brano più autobiografico di tutto l’album, Lou pone alla sua donna una serie di domande retoriche, da cui sa già che non otterrà risposta essendo certo di non essere capito. E “Sad Song” è il cinico epitaffio con cui si autoassolve, alleggerendosi la coscienza dal peso di poter essere responsabile del suicidio della sua compagna (“I’m gonna stop wasting time, somebody else would have broken both of her arms”). Prodotto da Bob Ezrin, che ne cura anche gli arrangiamenti traboccanti e barocchi che lo rendono, se possibile, ancora più “malato”, Berlin è un lavoro che rimarrà a lungo incompreso: male accettato dalla critica, che lo giudica nichilista e deprimente, e quasi totalmente ignorato dal pubblico, soprattutto americano, che si aspettava un altro lavoro alla Transformer.

Deluso dalle speranze andate a vuoto, Reed si nasconde dietro a un’altra maschera, trasformandosi in un fantoccio androgino, ossigenato e dinoccolato. Il ruolo che recita è quello di un personaggio elegante, ma cinico e corrotto, quel Rock’n’Roll Animal di cui abbiamo un assaggio nella sconvolgente e provocatoria foto di copertina dell’omonimo album, uno dei live più celebrati nella storia del rock. Registrato all’Academy of Music di New York e pubblicato nel febbraio 1974, è la testimonianza delle sue splendide interpretazioni canore e delle eccezionali performance della sua band, con Steve Hunter e Dick Wagner alle chitarre (gli stessi di Berlin), con magistrali riletture in chiave hard-rock di alcuni pezzi dei Velvet Underground.

Quando, nell’agosto 1974, pubblica Sally Can’t Dance, la paranoia, dovuta a un consumo massiccio di anfetamina e metedrina, ha raggiunto livelli insopportabili e lo ha trasformato in un individuo violento e irascibile, prossimo alla follia. La stampa musicale lo indica, e mai profezia si è rivelata più errata, come la più probabile prossima vittima del rock insieme a Keith Richards. L’album, studiato a tavolino per essere commerciale – raggiunse, infatti, alti piazzamenti nelle classifiche di vendita – è il secondo pegno che deve pagare alla sua casa discografica, dopo il live, per la pubblicazione di Berlin. Il produttore Steve Katz segue quelle che sono le tendenze musicali del momento, rhythm and blues e soul, ma il risultato è solo una mediocre parodia di Transformer. Lou asserisce di avervi partecipato apaticamente e di essersi limitato a cantare. Lo ha sempre bollato come una schifezza, tanto da dichiarare, con una delle sue celebri e irresistibili battute sarcastiche, tipiche dell’umorismo yiddish che lo caratterizza: “E’ incredibile. Più faccio schifo e più vendo. Se nel prossimo disco non compaio affatto arriverò al numero uno”. Il lavoro, nonostante tutto, ha una sua dignità e contiene pezzi notevoli con liriche toccanti, come quelle di “Kill Your Sons” dove Reed racconta della sua terribile esperienza con l’elettroshock.

Era stato John Cale, sin dai tempi dei Velvet Underground, a introdurre Lou Reed alla musica elettronica e al concetto di tonalità monocorde. Ed è a questo stile che si ispira il doppio album Metal Machine Music (luglio 1975), un lavoro irriverente e sconfortante, che avrà lo stesso effetto deflagrante di un colpo di cannone. Provocatorio sin dalle note di copertina dove Reed scrive “Se questo disco non vi piacerà, non vi biasimo. Non è per voi. La mia settimana scandisce il vostro anno”. I 64 minuti d’assalto sonoro, le stratificazioni di puri e semplici feedback, di overdub, di chitarre rallentate e rumorismo elettronico distorto e riverberato, cacofoniche e totalmente prive di cantato, sono una rivendicazione della sua autonomia artistica, sia verso il pubblico (“volevo fare piazza pulita e liberarmi di tutti quegli stronzi fottuti che vengono ai miei concerti e si mettono a urlare “Vicious” o “Walk on the Wild Side”), sia verso la sua casa discografica, che pretende da lui solo opere commerciali e alla quale, con un discorso forbito, lo presenta come un grandioso capolavoro artistico, frutto di sei anni di lavoro. La versione su vinile si compone di quattro facciate uguali, della durata ognuna di 16 minuti. Grazie a un espediente tecnico studiato con Andy Warhol per i Velvet Underground, ma mai utilizzato, la quarta si ferma sull’ultimo solco proseguendo all’infinito e costringendo così l’ascoltatore ad alzarsi per togliere la puntina manualmente. Solo conoscendo l’eccellente utilizzo che Reed sa fare del sarcasmo, si può forse comprendere la vera portata di questa “truffa” confezionata con stile e intelligenza. Album a suo modo rivoluzionario – sarà fonte d’ispirazione per vari artisti, come ad esempio i Sonic Youth, o per il movimento punk di cui Reed è considerato, suo malgrado, il padrino e che già affonda le proprie radici nella rivoluzione sonora dei Velvet Underground – acquisterà nel tempo un valore fondamentale per la storia della musica. All’epoca, tuttavia, vende pochissimo e anche fra i pochi acquirenti vi è addirittura chi lo restituisce.

Con Coney Island Baby, pubblicato nel febbraio 1976 e prodotto da Godfrey Diamond, dopo la provocazione sonora di Metal Machine Music il songwriter newyorkese ritrova la sua migliore vena compositiva.
L’album, soft e intimo, è dedicato a Rachel, bellissima icona del travestitismo newyorkese con cui convive, dopo aver lasciato la moglie Bettye, tra lo scandalo di tutti i benpensanti. Dotata di intelligenza e arguzia, Rachel è l’artefice di una sua ritrovata serenità. Nel pezzo “Crazy Feeling”, Reed racconta del loro primo incontro con il fatale “colpo di fulmine”. Lavoro commerciale ma di classe, musicalmente più consono alle sue composizioni grazie al ritorno alla formazione chitarra/basso/batteria, contiene alcune bellissime canzoni con dolci melodie. La splendida title-track, ispirata a “Glory Of Love” degli Harptones, è uno dei suoi testi più autobiografici; uno squarcio che ci permette di intravedere una parte della sua anima di eterno bambino di Coney Island, che ci mostra il suo lato più dolce, messo in luce anche grazie al suo amore per Rachel, alla quale, negli ultimi versi della canzone, dichiara che per lei sarebbe disposto a mollare tutto; non manca però il classico “pugno nello stomaco” cui ci ha ormai abituato, rappresentato da “Kiks”, una curata e attenta analisi del “Male” e della perversione.

Rock’n’Roll Heart, pubblicato nell’ottobre 1976, doveva essere una conferma, dopo il successo ottenuto con il lavoro precedente. Si rivela invece nettamente inferiore ed è quasi uno shock per i suoi fan, anche se, come in tutti i suoi lavori, il talento viene sempre a galla. Album commerciale, di puro divertimento, forse un pegno da pagare per il contratto con la nuova casa discografica, ma impreziosito dalla presenza di Michael Fonfara alle tastiere e di Marty Fogel al sax, che lo affiancheranno anche negli anni successivi.
Eccezionale viceversa il tour “Rock’n’Roll Heart”, intrapreso dopo l’uscita dell’album, poiché si avvale di una mastodontica scenografia formata da 48 televisori che proiettano immagini girate da Mick Rock, ma anche e soprattutto perché, in aggiunta alla validissima band, Reed ingaggia un suo mito musicale, il trombettista Don Cherry, per il quale ri-arrangia i brani in chiave rock-jazz favorendo così gli assolo e le fioriture della sua tromba raffinata.

Alla fine degli anni 70, Reed inizia la ricerca del sound perfetto, ed è sempre più apprezzato per la tecnica che utilizza per registrare gli album, a suo dire “tesa a trovare il modo più immediato e puro per trasferire l’arte su di un disco, alla continua ricerca della tonalità che tocchi il cuore dell’anima.”
Pubblicato nel febbraio 1978, l’album Street Hassle, letteralmente “incidente stradale”, che però gioca sull’assonanza con “feccia di strada”, è in pratica una registrazione live con sovraincisioni realizzate in studio e arrangiamenti minimalisti, ed è l’ennesimo capolavoro con il quale torna allo scoperto la sua vena dura e cinica. La “violent music” ha ormai sostituito la “stupid music” degli ultimi album. Un lavoro crudo, provocatorio, di forte denuncia sociale e feroce critica contro il perbenismo americano ipocrita, al punto da essere censurato dalle radio, nonostante le critiche positive. La title-track, impreziosita da un cameo vocale di Bruce Springsteen, è una canzone degna dei migliori Velvet Underground, sia per il tema trattato, sia per la composizione: una suite in tre tempi sostenuta da una musica spirituale guidata da un violoncello. La storia è narrata, come nel suo stile, attraverso una visualizzazione poetica di immagini, e raggiunge momenti di toccante lirismo.
La pubblicazione dell’album coincide anche con la fine della relazione con Rachel, sua musa ispiratrice degli ultimi anni.

Il doppio album live Take No Prisoners è la registrazione di uno spettacolo tenutosi nel 1978 al Botton Lime, club di New York, tappa del tour “Rock And Roll Heart” purtroppo ormai orfano di Don Cherry. Lo affiancano gli stessi, validi strumentisti di Street Hassle, che creano un’ideale colonna sonora per le sue esternazioni.
Il lavoro, che lui stesso ha definito la sua “comedy alcum”, è un perfetto ritratto del Lou del momento, tanto che a un certo punto dichiara: “interpreto Lou Reed meglio di chiunque altro”, e dove, più che cantare (anche se quando lo fa è da brivido, a conferma di una sua splendida condizione di forma), stravolge completamente le canzoni e si scaglia, in maniera diretta e senza parafrasi, contro tutto e tutti. Vestito di nero, occhiali neri a specchio, espressione distaccata e strafottente, con le sue battute sarcastiche non risparmia nessuno: artisti, musicisti e soprattutto critici musicali, verso i quali riversa tutto il proprio risentimento. L’album è il trionfo del suo egocentrismo, tipico esempio di come sa essere arrogante, cinico, crudele, strafottente, sgradevole, ma anche piacevolmente divertente. “Album di blues urbano, la cosa più vicina a Lou Reed che avrete mai”, disse rivolto ai propri fan quando uscì il disco nel novembre 1978. Il suono strepitoso è dovuto a una tecnica d’incisione che utilizzerà anche per “The Bells”, particolarmente innovativa per l’epoca, conosciuta come Stereo Binaural Sound, in cui voce e musica sono sullo stesso piano.

The Bells, dell’aprile 1979, è un lavoro più sperimentale con forti influenze jazz – genere per il quale Reed non ha mai nascosto il suo amore – dovute anche alla presenza della tromba di Don Cherry, maestro del free-jazz. Registrato in Germania con la tecnica biacustica, è uno splendido esempio di fusione fra rock e jazz, ed è definito da Lester Bangs alla sua uscita, “l’unica autentica fusione fra jazz e rock mai incisa dai tempi di “On The Corner” di Miles Davis”. Per uno strano gioco del destino il testo della title-track, ispirato alla poesia “The Bells” di Edgar Allan Poe, Reed se lo inventa di sana pianta durante la registrazione del pezzo, proprio mentre Don Cherry sta improvvisando una rilettura musicale del brano “Lonely Woman” di Ornette Coleman, musicista quest’ultimo che parteciperà al suo recente lavoro The Raven, dedicato proprio a Poe.

Dopo aver passato gli anni 70 a “rifinire, correggere, negare e contraddire la sua immagine”, come scrisse di lui un critico dell’epoca, senza riuscire più a distinguere la vita vera della figura pubblica, Lou trova nella decade 80 una ventata di aria fresca, una via d’uscita da una vita segnata dall’abuso di droghe e alcool che lo ha portato spesso sull’orlo dell’abisso, tanto da autodefinirsi come “un equilibrista senza rete che ha attraversato un’esperienza spaventosa da tutti i punti di vista”. Abbandona le pose e gli atteggiamenti provocatori, si rivolge agli alcolisti anonimi e a una psichiatra e, dopo aver rilasciato alla stampa dichiarazioni che confermano la sua omosessualità, con un gesto ancora una volta contraddittorio, e ai più incomprensibile, il giorno di San Valentino del 1980 si sposa con Sylvia Morales.

Da sempre attento alle necessità degli strati più deboli della popolazione, da questo momento inizia il suo impegno nella politica e nel sociale, partecipando anche a innumerevoli iniziative benefiche, a varie manifestazioni per i diritti civili per Amnesty International, al progetto anti-apartheid di Sun City, cantando anche per il Papa nel concerto del Giubileo per “Un mondo senza debiti”.

Ma gli anni 80 sono stati, dal punto di vista musicale, una via crucis per quasi tutti i grandi del passato e a questo calvario non si sottrae nemmeno Lou Reed. Album come gli onesti Growing Up In Public dell’aprile 1980, Legendary Hearts del maggio 1983 e New Sensations dell’aprile 1984, un omaggio alla musica centroamericana, sono prodotti godibili ma che non graffiano, frutto probabilmente anche di una rilassata vita borghese che non si addice troppo a un artista che, sino a quel momento, aveva fatto dell’inquietudine e del tormento le sue principali fonti d’ispirazione. Reed arriva a toccare il fondo con il banale, imbarazzante Mistral, pubblicato nell’aprile 1986: un lavoro emblematico di un artista in crisi creativa.

Non manca però la zampata del fuoriclasse: The Blue Mask, l’album pubblicato nel febbraio 1982, dedicato a Delmore Schwartz, è una piccola perla, forse ancora troppo sottovalutata. E’ un lavoro raffinato, con liriche impeccabili e un livello musicale eccellente: strumentazione scarna ed essenziale ridotta a chitarre/basso/batteria. La line-up è composta da Fernando Saunders al basso (ancora oggi suo fedele collaboratore), Doanne Perry alla batteria e, alle chitarre, lo stesso Reed e il geniale Robert Quine (chitarra del primo missata sul canale destro e quella del secondo su quello sinistro).
Inventore di uno stile chitarristico nuovo, composto di riff dislessici e assoli semi-atonici, Quine proviene dall’esperienza newyorkese dei Voidoids di Richard Hell che, insieme ad artisti come Patti Smith, Ramones, Blondie, hanno segnato un’epoca di grandi cambiamenti musicali e culturali, avvenuti anche grazie alle innovazioni rivoluzionarie dei Velvet Underground, di cui Quine è un fan della prima ora. Con grande lungimiranza, registrò una serie di nastri di alcuni concerti che i Velvet tennero a San Francisco nel 1969, nel periodo immediatamente precedente la pubblicazione di Loaded. Le registrazioni sono state recentemente remissate e pubblicate su tre cd racchiusi nel cofanetto Quine Tapes Vol. 1 e, nonostante la qualità non sia delle migliori, rappresentano una testimonianza storica di come, anche se ormai orfani della viola “maledetta” di Cale, sapevano essere ipnotici, perversi, oscuri, a iniziare dalle tre versioni chilometriche di “Sister Ray”, passando attraverso le plumbee atmosfere di “Black Angel’s Death Song” sino al blues eroinico di “I’m Waiting For The Man”.

Come Bowie dieci anni prima, Quine è l’artefice della ritrovata fiducia di Lou in se stesso, tanto da convicerlo a riprendere a suonare la chitarra elettrica in studio, abbandonata negli ultimi lavori. Sulle 10 tracce spiccano: “My House”, che racconta del contatto medianico con Delmore Schwartz durante una seduta spiritica (Dedalus e Bloom, personaggi dell’Ulysse di Joyce, sono i nomignoli con i quali si erano soprannominati); la commuovente “The Day John Kennedy Died”, canzone di grande impatto emotivo con liriche bellissime e cantata in modo impeccabile; la paranoica ” Waves Of Fear “, con uno splendido assolo di Quine; la cavalcata elettrica, violenta e dolorosa della title-track, un autoritratto delle sue “personalità” in lotta fra loro, con un finale degno di un crescendo rossiniano; sino a “Heavenly Arms”, atto d’amore forgiato con liriche intense e appassionate e melodie vocali mozzafiato, dedicato alla moglie Silvia. L’album è registrato pressoché in presa diretta e i musicisti interagiscono fra loro con un’empatia quasi magica.

Ma la collaborazione con Quine, molto vicina per livello artistico a quella con Cale – entrambi intelligenti, colti, ma soprattutto capaci, a differenza di Reed, di condividere con altri il genio di cui erano capaci – proprio come quest’ultima si spezza. Reed ha sempre dimostrato un grande intuito nello scegliere persone eccezionali con le quali lavorare, desiderando confrontarsi sempre con i migliori ma, per colpa del suo egocentrismo, anche una totale incapacità a condividere meriti e successo. Nel dicembre 1984, alla fine del New Sensation Tour, dopo l’ennesima lite, Quine se ne va sbattendo la porta, mettendo così definitivamente la parola fine a una collaborazione durata quasi quattro anni. Di che cos’era la sua band con Robert Quine alla chitarra, Fernando Saunders al basso e, successivamente, Fred Maher alla batteria, rimane testimonianza nell’album Live In Italy. Documento sonoro, scarno ed essenziale di una raggiunta maturità artistica. Lontano anni luce dagli eccessi del passato, è un mix del migliore repertorio reediano (velvettiano e solista). Registrato fra Verona e Roma e pubblicato nel gennaio 1984, è il suo quarto album live ufficiale.

Il 22 febbraio 1987, in seguito a un banale intervento chirurgico, muore improvvisamente Andy Warhol. Sotto shock, Lou Reed e John Cale si ritrovano al suo funerale e, dopo 22 anni, decidono di tornare a lavorare insieme. Il progetto prevede di comporre una biografia musicale il cui titolo dovrà essere il nomignolo con cui gli amici avevano soprannominato Warhol: “Drella”, combinazione di Dracula e Cindarella (Cenerentola), in altre parole la rappresentazione dei lati opposti del suo carattere. Lo scopo è di rendere omaggio al loro pigmaglione, mostrando al mondo il loro affetto, ma anche quello di controbilanciare le varie iniziative commemorative, tipicamente, orribilmente pedanti e didascaliche. Si chiudono in studio e si rendono conto che, magicamente, l’alchimia musicale fra loro funziona ancora e, come ai tempi dei Velvet Underground, le liriche di Reed si adagiano perfettamente sul tappeto di note steso da Cale. In dieci giorni compongono, in 14 canzoni biografiche ordinate cronologicamente, il loro personale requiem per Andy Warhol, anche se la lavorazione si rivelerà difficile e problematica tanto che, sulle note di copertina, Cale farà scrivere “‘Songs For Drella’ è una collaborazione, la seconda fra me e Reed dal 1965, e devo dire che, anche se gran parte dell’opera è sua, in questo lavoro mi ha permesso di mantenere una posizione dignitosa”.

Terminati di scrivere i testi di Songs For Drella, Reed, molto scosso dalle riflessioni che lo riguardano contenute nei diari di Andy Warhol appena pubblicati, inizia le registrazioni dell’album che sarà l’ennesimo capolavoro, per molti “il” capolavoro della sua carriera.

New York, pubblicato nel febbraio 1989, incentrato sulla decadenza sociale, morale ed economica della “Grande Mela” agonizzante è, per definizione dello stesso autore nelle note di copertina, “un disco da leggere, un libro da ascoltare”.
La sua poetica tocca vertici altissimi. Con liriche concise e precise, ancora una volta Reed punta il dito contro i mali della società e della famiglia, denunciati con lucidità, rabbia, vigore. Il suo sguardo è rivolto verso New York City, ed è uno sguardo ricco d’amore, ma anche di disincanto, per una città spietata, incarnazione di tutti i mali del mondo.
I testi delle canzoni sono pesantissimi atti d’accusa. Contro una città dove la favola di Romeo e Giulietta, inevitabilmente, si trasforma in una storia malata e decadente, ambientata in una New York povera e squallida, tra spiacciatori di armi e poliziotti, e dove il portoricarno Romeo Rodriguez, alla fine si è “fatto” Giulietta (“Romeo had Juliette) e dove “Manhattan sta sprofondando come una roccia dentro il letame dell’Hudson”; dove l’Aids, ritenuto dai moralisti “la piaga dei gay”, colpisce continuamente, e l’occasione per stilare la lista degli “scomparsi” è l’annuale sfilata di Hallowen del movimento gay e lesbico (“Halloween Parade”); dove regnano la violenza, il razzismo e la droga; dove i senza tetto dormono sotto i ponti e per sopravvivere frugano nella spazzatura; dove i bambini sono violentati e le mogli picchiate; dove Pedro, il protagonistra dell’intensa “Dirty Boulevard”, sogna di volare via dallo “sporco viale”, un formicaio di poveri e alienati, e Reed trasforma, con un abile gioco fonetico, la Statue of Liberty (Statua della Libertà), in Statue of Bigotry (Statua dell’Intolleranza) che grida: “Portatemi gli affamati, gli stanchi, i poveri e piscierò loro addosso”; dove i figli sono destinati a commettere gli stessi errori dei loro padri, in un “ciclo infinito” (“Endless Cyrcel”), anche a causa del metodo con cui l’uomo medio solitamente alleva il proprio figlio (“Beggining of a Great Adventure”), riversando su di lui tutte le proprie paure e frustrazioni: dove, come descritto nella bellissima parabola “Last Great American Whale”, scandita dalle percussioni di Maureen Tucker, la “grande balena bianca”, simbolo di purezza e innocenza, viene uccisa da “un bifolco locale riservista che teneva un bazooka nel soggiorno”; dove per sporavvivere è indispensabile “tenere duro” (“Hold On”) e avere una “vagonata di fede” (“Busload of Faith”). Contro un mondo avido, ipocrita ed egoista, e Reed individua nel reaganismo spietato la rappresentazione della sconfitta del “Sogno americano” (“Sick Of You”). Contro il razzismo e l’ipocrisia politica (Good Evening Mr. Waldheim”), e contro chi, dopo avere portato la devastazione in Vietnam, soprattutto con l’uso sconsiderato del Napalm, abbandona poi a se stessi i reduci della guerra (“Xmax In February”). Contro l’America ricca e opulenta, che Reed rappresenta come “l’uomo di paglia” (“Strawman”), che manovra e investe milioni di dollari ignorando completamente i poveri e i derelitti che vivono ai margini della società; dove non c’è più tempo per nulla perché il futuro è dietro l’angolo e il tempo stringe (“There Is No Time”). L’ultima canzone,”Dime Story Mistery”, Reed la dedica ad Andy Warhol, scomparso in quel periodo e, facendosi accompagnare dalle percussioni di Maureen Tucker, coglie l’occasione per cimentarsi, molto poeticamente, in una serie di riflessioni sulla fede, sulla vita e la morte. Come spiega lui stesso nelle note di copertina “non si possono battere due chitarre, un basso e una batteria” e infatti musicalmente l’essenzialità ha di nuovo la meglio. L’ensemble, di alta classe, è composto da basso (Bob Wasserman), batteria (Fred Maher e Maureen Tucker) e due chitarre, la sua e quella di Mick Rathke, che ha degnamente sostituito Quine, e con il quale inizia una lunga collaborazione che, incredibilmente, continua ancora oggi.

Anche la sua immagine pubblica è cambiata. Non è più il rocker maledetto e tormentato, ma un intelligente e colto intellettuale cinquantenne, totalmente liberato dalle inquietudini, che può finalmente guardare con distacco e indifferenza al suo imbarazzante passato.

Anticipato da uno spettacolo tenutosi il 30 novembre 1989 all’accademia musicale di Brooklyn (con l’ausilio di filmati, un esplicito omaggio all’Exploding Plastic Inevitabile), nell’aprile 1990, viene pubblicato l’intenso e a tratti struggente Songs For Drella, epitaffio suo e di Cale per Andy Warhol: un grande artista omaggiato da due grandi artisti. L’album verte sulle loro voci, la chitarra di Reed, le tastiere e la viola di Cale. La struttura musicale è ridotta all’osso per fare risaltare i testi che, molto poeticamente ma senza rinunciare a quel senso d’ironia e d’autoironia tipico di Reed, narrano le vicende e la vita del re della Pop Art.

Nell’estate 1991, Reed realizza un suo antico sogno, pubblicando la raccolta di testi e di poesie “Between Thought And Expression”. Sceglie personalmente la scaletta delle canzoni, con il criterio di poter essere lette senza la necessità della musica, come autentiche poesie che aiutano il progresso della narrazione che segue il percorso di una persona attraverso New York per tre decenni: gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. Definita da Reed stesso “materiale per adulti”, la raccolta comprende anche due interviste: la prima a Hubert Selby Jr., scrittore che Reed ama particolarmente, e l’altra a Vaclav Havel, presidente dell’allora appena liberata Repubblica Ceca e fan della prima ora dei Velvet Underground, che ricambierà regalandogli una copia di uno dei 200 libri stampati a mano con le sue poesie e i testi delle sue canzoni che circolavano a Praga fra i dissidenti pre-Glastnost.

L’album Magic And Loss (gennaio 1992), dedicato a due cari amici morti all’inizio degli anni Novanta di cancro, il musicista Jerome “Doc” Pomus e “Rotten” Rita, è la conferma della sua ritrovata scintilla creativa. “Nell’arco di due aprili ho perduto due amici, nell’arco di due aprili la magia e la perdita”, scrive nelle note di copertina. Il dolore della perdita può essere mitigato dalla magia, una magia in grado di trascendere e di portare via tutto il resto. E’ un’occasione per riflettere, senza pudore, sulla vita e la morte, tema, quest’ultimo, che da sempre suscita in lui un enorme fascino. La morte è una sirena ammaliatrice sì, ma proprio per questo anche una nemica da combattere che purtroppo sta vincendo troppe battaglie. Le liriche, affascinanti e rarefatte, di pura poesia, supportate da melodie semplicissime con arrangiamenti quasi impercettibili, non solo ci fanno comprendere la sua sofferenza, ma ce ne rendono partecipi. E’ un lavoro di grande impatto emotivo che il Newsweek definisce “Il disco rock più adulto mai inciso”.

Inizia da quel momento la svolta nei suoi spettacoli, che si svolgono essenzialmente nei teatri. Pretende che durante le sue esibizioni, quando esegue per intero Magic And Loss rispettando rigorosamente la scaletta dell’album, il pubblico rimanga in religioso silenzio, nonostante questo gli alieni una parte di fan, ma è ormai chiaro che Lou Reed è cresciuto e vuole che il pubblico lo segua in questo nuovo percorso, anche rischiando di perdere qualcuno per strada.
Magic And Loss, New York e Songs For Drella compongono una ideale, intensa trilogia, con la quale Reed traccia un bilancio della sua vita e della sua maturità artistica e che lo consacra a pieno titolo come uno dei poeti più raffinati e uno dei musicisti più intellettuali della scena americana; la conferma di essere, a quasi venticinque anni dal debutto, un artista al massimo della sua forza vitale e creativa.

Il 18 febbraio 1992 riceve a Parigi l’investitura a “Cavaliere dell’ordine delle arti e delle lettere”, e durante la cerimonia dichiara che la cosa più importante per lui è l’arte, che è ciò cui ricorre per sopravvivere.

Il 1993 vede, dopo 25 anni, la reunion della formazione storica dei Velvet Underground, anche se priva di Nico, morta nel luglio 1988 a causa di un banale incidente di bicicletta. La band si esibisce in una serie di concerti europei, documentati poi nel doppio album Live MCMXCIII; ma il pathos e la magia non riescono più a ricrearsi e le loro esibizioni, per quanto splendide e tecnicamente perfette, mancano di quell’impatto emotivo che li ha sempre caratterizzati.
Il progetto doveva comprendere anche la pubblicazione di un nuovo album in studio, ma le vecchie tensioni fra i componenti del gruppo riaffiorano presto e il tentativo fallisce, maggiormente per colpa dello stesso Reed, del suo egocentrismo, della sua incapacità, che è anche talento, di accettare il confronto, del suo voler imporre la propria maniacale produzione sottraendola a Cale, che si rifiuta di fare un album “alla Reed”.
La morte per infarto di Sterling Morrison, nell’agosto 1995, pone ineluttabilmente la parola fine all’esperienza dei Velvet Underground. Cale, Reed e la Tucker suoneranno insieme un’ultima volta nel 1996, in occasione della cerimonia d’ammissione dei Velvet Underground nel Rock & Roll Hall of Fame, dove eseguiranno una canzone scritta per l’occasione e dedicata proprio a Sterling.

Ancora una volta Lou Reed cambia completamente la sua vita liberandosi, con un netto colpo di spugna, da interi gruppi di persone.
Nel 1994, dopo aver divorziato dalla moglie/mamma/manager/protettrice Sylvia Morales e aver posto fine a un matrimonio durato 14 anni, inizia una relazione sentimentale e una collaborazione artistica, che continua ancora oggi, con l’artista multimediale Laurie Anderson, una delle figure più geniali dell’underground newyorkese, conosciuta alla fine del 1993 al Festival delle Arti di Monaco dove, su invito dello stesso Reed, cantò “A Dream” da Songs For Drella. “Sono rimasto stupefatto quando l’ha cantata esattamente come avrei fatto io dal punto di vista ritmico, con gli intervalli giusti”, racconterà Reed.

Anche se può apparire paradossale, lo scioglimento dei VU si rivela una mossa vincente per la sua carriera solista, che dal quel momento manterrà sempre un alto profilo. Direttamente o indirettente, l’aver suonato con i Velvet Underground è stato per Lou un momento di eccezionale ispirazione. La dimostrazione è Set The Twilight Reeling, l’album pubblicato nel febbraio 1996, dedicato a New York, città con la quale dichiara di essere sempre in perfetta armonia, e a Laurie Anderson, la sua attuale compagna. Lavoro meticoloso sin nei minimi dettagli, di cui Reed cura personalmente la produzione, compone tutti gli arrangiamenti e suona tutte le parti di chitarra. Il suono, frutto di due anni e mezzo di lavoro di ricerca maniacale deve, secondo Reed, dare a chi ascolta l’impressione di assistere ad un’esibizione dal vivo. Abbandonato lo stile minimalista dei suoi ultimi lavori, i ritmi sono quelli del più puro ed energico rock’n’roll a tratti quasi noise, alternati a dolci ballate con qualche mirabile assolo di chitarra. I temi trattati sono quelli dell’amore e dei rapporti di coppia – splendida la descrizione di Laurie in “The Adventurer” – e raccontano, senza sdolcinature e mai banalmente, di un uomo nuovo, ritrovato, che si libera di tutti i suoi rimpianti, innamorato e felice al punto da “far vorticare il tramonto”; anche se ci tiene a rimarcare, attraverso colte citazioni shakespeariane, che lui è sempre un duro, un “New York City Man”. Immancabile il pezzo di forte impatto sociale rappresentato da “Sex With Your Parents”, un’accusa durissima contro il moralismo di alcuni esponenti della destra bigotta americana, accusati di una forte restaurazione in materia di sesso, e contro un intrattenitore radiofonico con il pallino dell’ordine ottenuto con il manganello, il fucile e la sedia elettrica.

Il 13 luglio 1997, in occasione del Meltdown Festival, una rassegna musicale che si tiene a Londra curata dalla stessa Anderson, Reed si esibisce in un concerto semi-acustico con una chitarra commissionata appositamente a un mastro liutaio, che, a suo dire, “ha il suono di un diamante”. L’album, pubblicato nell’aprile 1998 con il titolo Perfect Night, è la registrazione di quel concerto che, pezzo dopo pezzo, ripercorre idealmente la sua carriera, dai vecchi classici dei Velvet Underground all’ultimo lavoro teatrale Time Rocker. Lou Reed canta e suona in modo veramente impeccabile, e i duetti chitarristici con Mike Rathke riportano alla memoria quelli con Robert Quine.

Il 1997 vede anche la riconciliazione con David Bowie, dopo quasi vent’anni di lontananza. La celebrazione ufficiale della loro ritrovata amicizia, avviene l’8 gennaio durante il Concerto di Beneficenza organizzato al Madison Square Garden di New York, in occasione del cinquantesimo compleanno del Duca Bianco, il quale presenta Lou come “Il Re di New York”, per poi lanciarsi con lui nei duetti di “White Light/White Heat” (Velvet Underground) e di “Queen Bitch”, canzone che Bowie scrisse proprio ispirandosi a Reed.
Nell’aprile 2000, quando pubblica Ecstasy, Reed ha 58 anni. Il suo primo album del nuovo millennio – dedicato a Laurie Andersson, sua musa ispiratrice – è ancora una volta sbalorditivo. I 14 brani per 80 minuti di musica, come piccole perle di una splendida collana, rappresentano un’ulteriore conferma del suo talento. Su tutte si distinguono la sorprendente jam acida di 14 minuti di “Like A Possum”; la bellissima “Rock Minuet”; la poetica minimalista della title-track; la tiratissima “Big Sky”; sino ad arrivare a “Paranoia Key”, probabilmente il brano più convincente, grazie anche a una ritmica contagiosa e coinvolgente. Per quanto riguarda le liriche, i tempi maturi e la situazione più calma hanno evidentemente predisposto l’artista a una riflessione sul suo passato selvaggio e sugli errori commessi.

Nel giugno 2001 esce, finalmente in veste ufficiale, un concerto esegutio da Reed il 26 dicembre 1972 a New York per la trasmissione radiofonica American Poet, con splendide riletture di brani dei Velvet e di Transformer.

Robert Wilson – col quale ha già collaborato e per il quale ha musicato 16 canzoni con testo di Darryl Pinckney, per lo spettacolo teatrale Time Roker ispirato a “La macchina del tempo” di H.G. Wells – prende contatto con lui per un progetto che prevede la messa in scena di una pièce teatrale il cui titolo è POEtry, un abile gioco di parole fra il cognome di Poe e la parola “poesia” (in inglese “poetry”); l’operazione, ambiziosa e ardita, è incentrata sulla poetica e sulle tematiche del lavoro di Poe, filtrate e rielaborate da Reed che, per questo spettacolo, scrive anche le parti recitate.
Nel 2000 il produttore Hal Wilner, grande estimatore di E.A. Poe, aveva chiamato Lou Reed a leggere alla St. Anne Church di New York il racconto “The Tell-Tale Heart”. “All’improvviso e per la prima volta, mentre lo leggevo, ho capito il senso del racconto” rivelerà in seguito. Molteplici sono le affinità fra l’ottocentesco scrittore americano, così incredibilmente moderno e in sintonia con il nostro tempo, e un artista come Lou Reed, così vicino allo spirito crepuscolare di colui che, nella sua mente, considera come il padre di William Burroughs e di Hubert Selby jr. Li accomuna lo stesso graffiante sarcasmo, un’attrazione fatale per il Male dal quale hanno il coraggio di non sottrarre lo sguardo, il fascino che la colpa e l’ossessione esercitano su di loro, una forte pulsione per l’auto-mortificazione, per il desiderio di distruzione. Entrambi si pongono le stesse domande: Chi sono io? Perché siamo ispirati a fare ciò che non dovremmo, ad amare ciò che non possiamo avere, a respingere ciò che abbiamo e ad appassionarci per ciò che è sbagliato?

L’album The Raven, del gennaio 2002, altro non è che il lavoro teatrale rivisto e rielaborato da Reed appositamente per essere inciso.
Reed ha anche scritto canzoni da film e in alcuni si è riservato piccole parti cameo, come in “Così Vicino Così Lontano” di Wim Wenders o in “Blue Face” di Paul Auster.
Ha vissuto pericolosamente ed è stato così vicino alle fiamme dell’inferno da poter affermare: “Ho camminato nel fuoco passandomi la lingua sulle labbra”, titolo dell’ultima autobiografia lirica con tutti i suoi testi sino a Ecstasy, realizzata con un’accattivante grafica dei testi originali che si sposa perfettamente con le parole (anche se la traduzione in italiano ha suscitato alcune critiche) nella quale, pagina dopo pagina, ci addentriamo nel dolore, nella sporcizia, nella pena, di trans, prostitute, sbandati, pazzi, eroinomani e nel degrado che è da sempre in grado di “fotografare” così abilmente. “Ho sempre pensato che le mie parole andassero al di là del reportage e prendessero posizioni emotive benché amorali”.

Artista completo, dotato di carisma e cultura, adorabile e affascinante, seducente ma anche perfido e tutt’altro che accomodante, è stato, ed è, scrittore, poeta, inventore di suoni, musicista, ricercatore. La sua grandezza sta nell’essere riuscito a fare assurgere alla statura intellettuale la musica rock, sino a quel momento ritenuta una forma artistica giovanile, trasformandola in quello che lui stesso ha più volte definito “rock per adulti”. Ha saputo, proprio come aveva fatto Warhol in altri campi, veicolare la “cultura alta” in un formato accessibile alle masse. Con le sue liriche ha rappresentato in modo compassionevole i lati oscuri della società contemporanea, rivelando le profondità nascoste, disperate, dell’animo umano. Ha reso bella la sofferenza dando adito alla speranza, senza mai cedere alla tentazione di giudicare. Il suo lavoro non è mai apparso datato, tanto che le sue canzoni di ieri sembrano scritte oggi. La maglietta attillata e i pantaloni di pelle, rigorosamente nero catrame, rappresentano una sorta di divisa che ha attraversato decenni di cambiamenti di mode, di stili e di filosofie. Le rughe che solcano il suo viso, imperscrutabile, ironico, indifferente e schivo, sono come ideogrammi che raccontano l’intera storia del rock, attraverso tutte le fasi della sua pluridecennale carriera.
Il suo stile come chitarrista è intenso, viscerale, eccitante. La chitarra è per lui “come un utensile, un mezzo per comunicare emozioni, stati d’animo, per sperimentare soluzioni sonore dando forma ai pensieri”. La sua voce, profonda e inconfondibile, forse nemmeno bella e quasi bizzarra, può essere ironica e sferzante, calda e leggera, vibrante e trepidante, compassionevole e recitante, al punto da sembrare un caro amico che ci racconta una storia, e sempre in grado di regalare forti emozioni. Oggi si dedica alla letteratura, ai reading di poesia e ai concerti. Vive e lavora sempre nella sua New York, alla continua ricerca dell’esatto mezzo espressivo che gli permetta di continuare a essere creativo e di mantenere intatta la sua integrità, senza mai perdere quella trasgressività che lo ha sempre caratterizzato. “Una delle mie regole è: mai ascoltare i propri vecchi dischi. Chi lo fa è solo un idiota nostalgico intento a crogiolarsi senza interesse a inventare qualcosa di nuovo. Io credo che la vita sia troppo breve per concentrarsi sul passato, preferisco guardare al futuro”.

Nel 2007 Reed sforna il bizzarro Hudson River Wind Meditation, un disco di meditazione-sperimentazione elettronica, pubblicato dalla Sounds True: suoni ciclici, che tentano di emulare il vento che spira sul fiume newyorkese. Nello stesso anno, il bardo della Grande Mela riprende in mano il songbook di Berlin, portandolo in scena nei teatri europei.

Nella primavera 2011 arriva il classico fulmine a ciel sereno: nasce la partnership con i Metallica che si concretizza nel breve volgere di qualche mese nel doppio album intitolato Lulu. Si tratta di una vera opera rock, ispirata a due atti teatrali scritti dal tedesco Frank Wedekind. E mentre il disappunto da parte delle due fazioni di tifo monta, l’album mostra il classico Reed declamante accompagnato dal sound scuro e oltranzista prodotto dalla band di Frisco. Cantautorato in salsa metal, si direbbe. Di certo c’è la vicenda di Lulu, smarrita eppure lucida vittima della violenta confusione odierna. La risposta mediatica è discorde, tra i parecchi rifiuti, anche a priori, spuntano non poche voci che gridano al (quasi) capolavoro. Il risultato non è comunque da buttare via o da applaudire in maniera incondizionata. Un discreto disco heavy rock, tutto sommato innocuo e prevedibile, eppure sano e fatto bene.

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Fonte: ondarock.it

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Bologna: Gender Bender Festival – “Il pelo nell’uovo”

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Bologna 26 ottobre – 2 novembre 2013

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Gender Bender è il festival internazionale che presenta al pubblico italiano gli immaginari prodotti dalla cultura contemporanea, legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale.

Il Festival è interdisciplinare e propone un programma di appuntamenti che si articola in proiezioni cinematografiche, spettacoli di danza e teatro, performance, mostre e installazioni di arti visive, incontri e convegni di letteratura, concerti e live set di musicisti e dj, party notturni.

Realizza percorsi di senso inediti tra fenomeni culturali e comunicativi apparentemente lontani e contraddittori, indicando come sia possibile andare in maniera creativa oltre le norme e gli stereotipi del maschile e del femminile, e anticipando le trasformazioni divenute parte integrante del nostro immaginario.

Gender Bender è promosso da Il Cassero, gay lesbian center di Bologna.

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Info-contatti:  www.genderbender.it/ita/contatti.asp

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Fonte: genderbender.it

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Attacco di Assange al film su WikiLeaks “Il Quinto potere”

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La verità su Quinto Potere

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di G. Niola

Il film che ripercorre la storia di Wikileaks esce nelle sale. Con annessa polemica di Julian Assange. Che, probabilmente, non ha tutti i torti nel giudicare negativamente la pellicola

Quasi sempre quando esce un film che racconta storie o fatti di cronaca che riguardano persone ancora in vita, queste hanno da ridire. Questa volta però la persona in questione, Julian Assange, è il gestore del più grande collettore di documenti segreti del pianeta, WikiLeaks, e quindi non gli è stato troppo difficile ottenere la sceneggiatura definitiva di Il quinto potere prima che fosse visto in sala. E, dopo aver intessuto una corrispondenza con Benedict Cumberbatch (l’attore che ha impersonato la sua riduzione cinematografica), farne un accurato debunking, punto per punto.

In effetti, ora che abbiamo potuto vedere il film (esce nelle sale italiane il 24 ottobre) si fa fatica a dare torto ad Assange: che non ha nemmeno potuto vedere come quella sceneggiatura è stata recitata e come anche le immagini giochino a suo sfavore.

La storia è sceneggiata da Josh Singer (ex sodale di Aaron Sorkin su West Wing) ed è tratta da due libri: Inside WikiLeaks: My Time with Julian Assange and the World’s Most Dangerous Website di Daniel Domscheit-Berg, ex collaboratore di WikiLeaks ora in causa con Assange (non proprio la persona più imparziale da cui attingere), e WikiLeaks: Inside Julian Assangès War on Secrecy di David Leigh and Luke Hardin, giornalisti del Guardian(anch’essi coinvolti nei fatti raccontati, dunque non imparziali). Si parte dalla prima volta in cui Daniel Domscheit-Berg incontra fisicamente Julian Assange e comincia a collaborare con il suo sito, fino a quando i due non si separano burrascosamente in seguito alla pubblicazione dei cablogrammi e dei resoconti di guerra dall’Afghanistan del 2010.

Se da una parte l’idea che ne esce è che WikiLeaks sia stato determinante, una svolta necessaria che porterà ad un cambio in meglio nella nostra società, dall’altra è anche molto sottolineato come sia stato un esperimento immaturo, pericoloso, frutto del delirio di un uomo che non voleva ascoltare la ragione (rappresentata da Daniel Domscheit-Berg) e condotto senza tutti quegli strumenti che il giornalismo vero (rappresentato dal Guardian) ha maturato nei suoi secoli di evoluzione. Dunque non rimane che Assange a cui dare la colpa.

Nella sua disamina sulle inesattezze del film (dal suo punto di vista) Julian Assange, l’unica persona assente tra le fonti del film, si premura innanzitutto di difendersi dall’accusa più grave. Nel film infatti si sostiene, come spesso è stato ripetuto, che il problema con le rivelazioni del 2010 fu che mettevano in pericolo le fonti e i collaboratori del governo USA in zone pericolose e vediamo anche come uno di questi (preso ad esempio per tutti gli altri) scappi sudato e preoccupato con bambini in braccio e altri particolari melodrammatici. Tuttavia, ricorda il fondatore di WikiLeaks, nessuna fonte, nessuna persona e nessuno nominato in quei documenti ha subito ritorsioni o è stato effettivamente messo in pericolo. La minaccia tanto paventata non si è mai verificata. Questo nel film non è specificato.

Assange stesso è rappresentato come un mezzo matto, cosa che il soggetto in questione smentisce citando diverse interviste di Benedict Cumberbatch, in cui l’attore racconta di aver dovuto lottare con il regista perché il personaggio non sembrasse un megalomane o un cattivo da cartone animato. Allo stessa maniera poi il suo pensiero viene semplificato fino ad essere stravolto. Chi conosce i discorsi e la filosofia dietro WikiLeaks sa infatti che Assange non è un maniaco della trasparenza a tutti i costi come viene dipinto, ma una persona che crede fermamente nella privacy degli individui e ritiene che la trasparenza debba essere proporzionale al potere. In più, dopo aver ricordato che la base sono pubblicazioni di persone (Domscheit-Berg) che sono in causa con lui, l’interessato cita altri collaboratori come Sarah Harrison, Joseph Farrell o Kristinn Hrafnsson che a suo dire potrebbero raccontare gli eventi da un altro punto di vista.

A parte le considerazioni più generali, i dettagli più grossolanamente errati su cui Assange si sofferma riguardano gli eventi del 2010 durante i quali, a suo dire, Daniel Domscheit-Berg sarebbe stato già assente. Per il fondatore di WikiLeaks lui e il suo collaboratore non si sono più visti dopo il soggiorno in Islanda, dunque egli non avrebbe mai preso parte in alcuna maniera alle divulgazioni di Collateral Murder, War logs e i cablogrammi come invece il film mostra (mettendolo anche nella redazione di diversi giornali a rappresentare WikiLeaks). In più sembra che Assange non abbia mai incontrato Anke Domscheit-Berg (compagna di Daniel) con la quale invece lo vediamo intessere siparietti che suggeriscono un suo legame quasi morboso a Daniel. La storia dei due segue infatti gli stereotipi della love story, e Assange spesso si comporta come un partner deluso e tradito.

Ovviamente sono totalmente ricusate anche le accuse più lievi come quella di tingersi i capelli di bianco in seguito ad un’abitudine maturata quando da piccolo aderiva ad una setta (cosa anch’essa smentita), al pari dei passaggi più canzonatori come quando il protagonista è mostrato come un paranoico ossessionato dall’essere sorvegliato, cosa che secondo Assange è non solo vera ma anche ampiamente dimostrata.

Ma anche trascurando le controversie relative ad elementi di certo non marginali, l’impressione vedendo Il quinto potere è che sia il risultato del lavoro di qualcuno che ne apprezza il concetto di base (ribellione, conquista dei propri diritti di cittadini ecc) ma che proviene da un mondo molto lontano da quello di WikiLeaks e da una mentalità radicalmente differente.

Lo dimostra la metafora usata per spiegare l’organizzazione (un ufficio anni ’50 dove i leak arrivano sotto forma di fogli di carta!), lo dimostra la poca confidenza con la tecnologia (“Per sistemare questo filmato possiamo usare FFMPEG e Final Cut” viene detto ad un certo punto da un esperto, con il tono di chi ha usato un linguaggio oscuro e nominato stratagemmi da smanettone), e lo dimostra il totale appoggiarsi per qualsiasi conclusione, e per dare a WikiLeaks l’onore delle armi, alla vecchia e cara carta stampata, ai giornalisti del Guardian, unici depositari della vera coerenza e della sapienza giornalistica.

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Il blog di G.N.

Fonte: Punto Informatico

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