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Gravity di Alfonso Cuaròn
(USA/Regno Unito – 2013)
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di Marcello Polizzi
La tecnica nel cinema, come in ogni arte, può essere un fattore decisivo, attraverso cui molti registi rendono le loro opere dei prodotti di ottima fattura. E questo è il caso di Alfonso Cuaròn che in Gravity sfrutta appieno tutte le sue capacità.
Sgombriamo però subito il campo dagli equivoci: Gravity non è assolutamente un semplice esercizio di stile, non è tecnica fine a se stessa. Sin dal primo, bellissimo piano-sequenza dell’incipit ci accorgiamo che Cuaròn orchestra alla perfezione tutte le parti, dai lenti movimenti di macchina alla luce, creando un equilibrio perfetto. Il tutto al servizio dell’elemento più importante del film: il 3D. C’è chi ha sostenuto che Gravity è il primo film in cui il 3D ha uno scopo preciso, serve realmente a qualcosa. Ed è vero. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un uso sfrenato di questa tecnica (già di per sé di dubbio valore), presentataci in tutte le salse ed i rari casi degni di nota si sono avuti solo quando ad utilizzarla sono stati dei grandi maestri, realizzando film dal sapore quasi sperimentale (Cave of Forgotten Dreams di Herzog, Pina di Wenders). Ma Cuaròn è riuscito a renderlo un vero e proprio linguaggio, un mezzo inscindibile dal film. Gravity può essere visto solo in 3D.
Il regista ha così anche riscattato un genere, quello fantascientifico (seppur il film non ne rispetti propriamente i canoni classici), facendolo però con quanto di più lontano possa esserci dalle sterili “abbuffate” di digitale e computer grafica delle pellicole degli ultimi anni. Alfonso Cuaròn proviene dalla stessa “scuola messicana” di Alejandro González Iñárritu, e si vede. Ciò che pervade il film (così come nel precedente I figli degli uomini) è infatti un intenso realismo e l’uso magistrale del 3D contribuisce a questo scopo, giocando con le inquadrature (belle le due soggettive) e le profondità di campo. Ogni cosa è fortemente reale, tanto che si riesce quasi ad avvertire l’assenza di gravità e ci si emoziona guardando lo spettacolo dell’aurora dallo spazio. Si avverte un forte senso di concretezza, soprattutto nelle scene più catastrofiche in cui i protagonisti tentano con tutte le loro forze di aggrapparsi a qualsiasi possibile appiglio, per evitare di andare alla deriva.
Gravity è insomma un film che coinvolge ed appassiona grazie alla notevole abilità del regista. Ma rimane purtroppo quella sensazione di incompletezza, che neppure l’ottima riuscita tecnica riesce a compensare. Il film pare non sviluppare pienamente i presupposti da cui parte, non raggiungendo così lo scopo prefissato. Nonostante Cuaròn tratti dei temi importanti ed universali, conferendo un’aria riflessiva ed introspettiva alla vicenda – sulla scia di alcuni tra i più alti esempi della fantascienza, come 2001: Odissea nello spazio e Solaris – la narrazione tende man mano a farsi retorica. Si viene a creare un contrasto tra il forte realismo della prima parte della pellicola (senza dubbio la più riuscita), brillantemente smorzatadall’ironia del Kowalsky di Clooney e un racconto troppo enfatizzato che caratterizza la seconda parte, con diverse scene decisamente ridondanti, sottolineate da una musica eccessivamente invadente (unica pecca dell’aspetto tecnico).
Il punto debole del film non sono però i contenuti che anzi rafforzano la convinzione che non ci troviamo di fronte a pura tecnica, ma che essa sia propedeutica alla messa in scena. Vi sono difatti momenti in cui il regista riesce a fondere alla perfezione questi due caratteri, dando vita ad alcune tra le scene più suggestive della pellicola: la “danza” fluttuante con la quale la dottoressa Stone (Sandra Bullock) si spoglia della tuta spaziale, quasi come fosse un’armatura fattasi ormai troppo pesante da portare. Sembra che, stanca di combattere contro quel passato troppo forte da sconfiggere, si chiuda in una posizione fetale – in un chiaro rimando al film di Kubrick – desiderando solo di ritornare al ventre materno, in attesa forse di una rinascita.
La pellicola di Cuaròn ha aperto l’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia e proprio tale scelta potrebbe infine indurci ad una riflessione: è possibile che una pellicola, che dal cast al genere, sino alla produzione si presenta come un blockbuster (per lo più in 3D) sia allo stesso tempo un film d’autore? Gravity è la risposta. Con tutte le difficoltà che un atto (di coraggio) del genere comporta.
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TRAILER
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