Steve Jobs e l’estetizzazione dell’economia

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di Massimo Adinolfi | 7 ottobre 2011 |

La grandezza di Steve Jobs è fuori discussione – a condizione che sia chiaro quale sia la discussione da cui è fuori. Sarebbe sciocco non riconoscere il talento di un uomo che ha rivoluzionato la tecnologia e il costume, cambiato con i suoi prodotti il paesaggio di cinema e negozi, studi e uffici, scrivanie e automobili, creato nuovi, enormi mercati inventando le corrispondenti abitudini di consumo e portato un marchio, la Apple, in cima al mondo (o più precisamente: in cima alla classifica della capitalizzazione di borsa). Molti sarebbero pronti a sottoscrivere il giudizio dell’_Inquirer_: “Nel campo dell’_information technology_, Steve Jobs ha avuto lo stesso effetto che hanno avuto, nei loro rispettivi campi, Shakespeare o Einstein“. Ma se l’effetto è stato lo stesso, forse non è inutile tenere ben fermo che i campi restano differenti. E dunque: se la grandezza dell’uomo è fuori discussione, non è affatto fuori discussione cosa una società giudichi grande. Come Musil, alle prese con cronache sportive che celebravano la genialità dei cavalli da corsa, possiamo chiederci: d’accordo, saranno pure dei purosangue vincenti in tutti i concorsi, saranno pure i più begli esemplari fra gli equidi, ma com’è fatta una società che rilascia patenti di genialità ai cavalli?

Tutti ricordano la celebre notazione di Schumpeter: “Mettete insieme quante diligenze vorrete, non avrete mai, in tal modo, una ferrovia”. Steve Jobs è l’uomo della ferrovia, capace di vedere rotaie che attraversano da un capo all’altro il paese mentre tutti si aggirano ancora in un mondo di diligenze. Steve Jobs è l’imprenditore, nell’accezione schumpeteriana del termine. L’imprenditore non è colui che inventa (quello è appunto il geniale inventore) e non è neppure colui che assume il rischio (quello è il capitalista), ma è colui che scorge la possibilità di applicare l’invenzione al processo produttivo. “Il successo dipende tutto dall’intuizione, dalla capacità di vedere le cose nella maniera che in seguito si dimostrerà giusta”, scriveva Schumpeter, che non mancava di riconoscere all’imprenditore, sorta di demiurgo energico e ispirato, doti di autorità, prestigio, iniziativa, consentendoci così di ricondurre la visionarietà di cui si parla a proposito di Jobs a un esercizio esemplare della funzione di entrepreneur.

Ora, è curioso che nessuno dei più sinceri ammiratori del genio di Steve Jobs si accontenti di celebrarne le doti imprenditoriali, come se il campionato dell’imprenditoria non fosse il più bello del mondo e fosse necessario far scendere Steve Jobs in pista in altri tornei, fra icone pop e scienziati moderni, guru semi-religiosi e altre figure carismatiche: lo si potrebbe persino considerare un caso particolare del fenomeno più generale, valido in vita non meno che in morte, per cui gli imprenditori non se ne stanno più al loro posto, a ridosso della produzione su cui devono riversare la loro capacità di innovare, ma smaniano dalla voglia di riversarla altrove, vuoi nella politica vuoi nell’arte. Lo stesso Jobs diceva infatti di sé di situarsi “all’incrocio fra tecnologia e arti liberali”: evidentemente, la collocazione nel solo ambito dell’attività d’impresa gli andava stretta. Ma perché poi? E cosa c’è che non va nel dire (soltanto) che è morto uno dei più grandi imprenditori dei nostri tempi (quello che “sapeva vendere. Oh, se sapeva vendere!”, secondo il giudizio di Walt Mossberg sul Wall Street Journal)? (leggi tutto)

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Fonte: Left Wing

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