Perché la gente non si ribella?

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di Marino Badiale

Se “gente” suona troppo populista alle vostre orecchie, potete tirare in ballo il popolo, le masse, il proletariato, la classe operaia, i ceti subalterni, come meglio vi piace. Comunque sia, il problema è chiaro, ed è fondamentale. Dopo tante analisi sociopoliticoeconomiche, possiamo dire di aver capito, almeno in linea generale, cosa “lorsignori” stanno facendo, e perché. Ma la possibilità di una politica di contrasto ai ceti dominanti è appesa a questa domanda: perché la gente non si ribella?
Non ho risposte, lo dico subito. Mi sembra però di poter argomentare che alcune delle risposte che più comunemente vengono ripetute sono poco convincenti. Proverò allora a spiegare questo punto, nella convinzione che togliere di mezzo le spiegazioni deboli o incomplete possa aiutare ad elaborare spiegazioni migliori.

Risposta n.1: “La gente sta bene, o meglio, non sta ancora abbastanza male”. Il sottinteso di questa risposta è che l’ora della rivolta scocca quando si sta davvero male, quando arriva la fame. Ma questa idea è sbagliata. Se fosse corretta, il lager hitleriano e il gulag staliniano sarebbero stati un ribollire di rivolte, e sappiamo che non è andata così. La miseria non è condizione sufficiente per la rivolta, ma neppure necessaria: gli operai protagonisti di lotte dure, fra gli anni Sessanta e i Settanta del Novecento, non erano ricconi ma nemmeno miserabili ridotti alla fame.

Risposta n.2: “le condizioni non sono ancora peggiorate davvero”. Il sottinteso di questa risposta (che tiene conto delle obiezioni appena viste alla risposta n.1) è che la ribellione scatta non quando si sta male ma quando si sta peggio: quando cioè si esperisce un netto peggioramento delle proprie condizioni di vita. Tale tesi è facilmente confutata dall’esempio del popolo greco, che da anni vede le sue condizioni di vita peggiorare di continuo senza che questa faccia nascere una autentica rivolta (al più, qualche manifestazione un po’ dura).

Risposta n.3: “mancano i gruppi dirigenti”. Qui si vuol dire che i ceti subalterni non hanno ceti dirigenti che li sappiano guidare in una lotta dura e intransigente. Questa risposta coglie ovviamente una parte di verità: è proprio così, mancano le persone capaci di essere leader della lotta. Ma a sua volta questo dato di fatto richiede di essere spiegato. Il punto è che non sempre, nei grandi mutamenti storici, c’è un gruppo dirigente già formato. Ci sono certo persone più capaci di capire e di dirigere, ma difficilmente è già pronto un autentico gruppo dirigente, unito e lucido. In Francia nel 1789, per esempio, un tale gruppo dirigente non c’era. È la lotta rivoluzionaria che lo ha forgiato. In molti casi, anche se non in tutti, i gruppi dirigenti si formano nel fuoco della lotta. Ma se il fuoco non divampa non si possono formare.

Risposta n.4: “la gente è corrotta”. Ovvero, ormai la corruzione, l’illegalità, la prevaricazione hanno contaminato anche i ceti subalterni, che non si ribellano contro l’orrido spettacolo offerto dai ceti dominanti perché lo trovano normale, e al posto loro farebbero lo stesso. Anche qui, si tratta di una risposta che coglie qualche elemento di verità, soprattutto in riferimento all’Italia, ma che mi sembra insufficiente. Non mi pare che nel sentire comune vi sia questa accettazione maggioritaria del farsi gli affari propri, eventualmente in modo illecito e senza guardare in faccia nessuno. Il diffuso disprezzo per i politici testimonia del contrario. È vero che, notoriamente, l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, ma se anche si trattasse di ipocrisia questo testimonierebbe del fatto che un tale omaggio è necessario. Neppure in Italia è possibile dire apertis verbis “sono un ladro, siatelo anche voi”, e questo perché evidentemente la cosa non potrebbe reggere, perché non è vero che sono tutti ladri.

Risposta n.5: “siamo diventati tutti individualisti”: qui si  vuol dire che l’ideologia neoliberista è penetrata talmente in profondità che ormai tutti ci comportiamo come l’homo oeconomicus dei libri, calcoliamo freddamente i nostri interessi materiali e non ci facciamo smuovere dalle ideologie. L’obiezione però è semplice: proprio dal punto di vista del freddo interesse materiale appare evidente la necessità della rivolta collettiva. È evidente infatti, come diciamo da tempo in questo blog, che il progetto dei ceti dirigenti italiani e internazionali è la distruzione di diritti e redditi dei ceti subalterni, ed è pure evidente che il singolo individuo può ben poco. Ma allora la rivolta collettiva dei ceti subalterni appare come l’unica strategia razionale, proprio dal punto di vista dell’interesse personale.

Risposta n.6: “è venuta meno l’idea di una società alternativa” : insomma il crollo del comunismo ha trascinato con sé ogni tipo di rivolta popolare. Il capitalismo attuale viene concepito come l’unica realtà possibile e ciò che succede ai ceti popolari appare come una catastrofe naturale rispetto alla quale la ribellione non ha senso. Anche in questa risposta ci sono elementi di verità ma la spiegazione appare insufficiente: infatti i contadini si sono ribellati infinite volte, in Occidente e altrove, senza nessuna idea di una società nuova e alternativa, ma anzi chiedendo il ripristino dei vecchi rapporti sociali, turbati da innovazioni recenti o dall’arrivo di “nuovi signori”. La grandi rivolte contadine in Cina non hanno mai sovvertito l’ordine socioeconomico ma, quando erano vittoriose, portavano a sostituire una dinastia con un’altra. Qualcosa di simile si può dire delle rivolte di schiavi, che quasi mai mettevano in questione l’ordine sociale basato sulla schiavitù. Insomma, la  rivolta può esserci anche senza basarsi sull’idea di una società futura alternativa.

Risposta n.7: “non ci sono più i legami comunitari”, ovvero siamo tutti individui isolati che in quanto tali non riescono a lottare. Anche qui, c’è una verità ma è parziale. Se è vero che le lotte contadine sopra ricordate erano basate su legami comunitari, è anche vero che in altri casi dei legami comunitari si può dire quanto detto sopra a proposito dei gruppi dirigenti: ovvero che essi si formano nel fuoco della lotta. Le lotte operaie della fine degli anni Sessanta in Italia mettevano assieme operai immigrati da varie regioni del sud e operai del nord che magari chiamavano i primi “terroni”: i legami non erano dati a priori, si sono formati sulla base della condivisione degli stessi problemi e sull’individuazione degli stessi nemici.

Risposta n.8: “la gente non capisce, sono argomenti difficili”, o più brutalmente, “la gente è stupida”: ovvero la gente (il popolo, la classe ecc.) non capisce i suoi propri interessi, non capisce come essi siano messi in pericolo dagli attuali ceti dirigenti. L’argomento “la gente non capisce” è facilmente confutato dal fatto che i contadini cinesi o francesi in rivolta non erano necessariamente degli esperti di politica o di economia. Insomma per ribellarsi non è necessario avere le idee chiare sulle dinamiche socioeconomiche. Quanto alla tesi più brutale “la gente è stupida” si tratta di una tesi che è difficile da discutere, per la sua indeterminatezza (cos’è la stupidità? Come si misura?).
In ogni caso, anche ammettendo questa “stupidità” (qualsiasi cosa ciò voglia dire) essa non sarebbe una spiegazione ma a sua volta un problema da risolvere. Perché la gente è diventata stupida, ammesso che lo sia? Sembra poi strano dire che la stragrande maggioranza della popolazione, formata da tutti coloro che hanno da rimetterci dalle attuali dinamiche sociali ed economiche (casalinghe e operai, pensionati e professori universitari, scrittori e droghieri) sia diventata stupida nella sua totalità. Se si va al fondo e si cerca di capire cosa si intenda con questa “stupidità”, si vede alla fine che, per chi dice che “la gente è stupida”, la motivazione principale è appunto il fatto che non si ribella. Ma allora dire che la gente non si ribella perché è stupida vuol dire che non si ribella perché non si ribella, e abbiamo una tautologia, non una spiegazione.

Questo è quanto mi sembra di poter dire. Come ho detto sopra, non ho risposte da dare. Ciascuna delle risposte indicate contiene qualche elemento di verità, ma nessuna mi sembra cogliere davvero il problema, e anche mettendole assieme non mi pare si guadagni molto. Chiudo suggerendo  che forse abbiamo bisogno di altri strumenti, diversi da quelli della politica e dell’economia, abituali per me e per gli altri autori di questo blog (e, probabilmente, per la maggioranza dei nostri lettori). Altri strumenti che possono essere: filosofia, antropologia, psicologia. Si accettano suggerimenti, anche e soprattutto di lettura.

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Fonte: il main stream

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