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I Diritti Umani nel mondo: Rapporto 2014-2015 (Amnesty International)

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Profughi siriani

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Il Rapporto 2014-2015 di Amnesty International, pubblicato in Italia da Castelvecchi il 25 febbraio, nel giorno del 10° anniversario della scomparsa del suo fondatore Peter Benenson, documenta la situazione dei diritti umani in 160 paesi e territori nel corso del 2014.

Lo scorso anno sarà ricordato per i violenti conflitti e l’incapacità di tanti governi di proteggere i diritti e la sicurezza dei civili.

Un anno catastrofico per milioni di persone intrappolate nella violenza di stati e gruppi armati. Di fronte ad attacchi barbarici e repressione, la comunità internazionale è rimasta assente.

Ma il 2014 è stato anche un anno che ha visto significativi progressi nella difesa e nella garanzia di alcuni diritti umani.

Ha segnato date importanti, quali l’anniversario della fuoriuscita di gas a Bhopal nel 1984, la commemorazione del genocidio in Ruanda del 1994 e l’analisi, a 30 anni dalla sua adozione, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Ha visto l’entrata in vigore del Trattato sul commercio di armi.

Momenti che ci fanno riflettere sui passi avanti compiuti ma anche su quanto resti ancora da fare per garantire giustizia alle vittime di gravi violazioni.

Questo rapporto testimonia il coraggio e la determinazione di donne e uomini che si battono per difendere i diritti umani, spesso in circostanze difficili e rischiose. Ed è a queste donne e questi uomini che dedichiamo il nostro rapporto.

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INTRODUZIONE

“Gli scontri tra le forze governative e i gruppi armati avevano trasformato il quartiere Yarmouk, a Damasco, dove vivevo, in un alveare. Era strapieno. Yarmouk era diventato un rifugio per le persone che fuggivano dagli altri quartieri. Lavoravo nell’assistenza umanitaria ed ero un attivista dell’informazione ma gli uomini con il volto coperto non facevano differenze tra operatori umanitari e combattenti dell’opposizione. Io mi nascondevo perché un numero sempre maggiore di miei amici erano stati arrestati. Decisi che era ora di andarmene e radunai le mie cose. Ma dove? I rifugiati palestinesi della Siria non possono entrare in un altro paese senza prima ottenere un visto. Ho pensato che  forse il Libano sarebbe stata la meno complicata delle opzioni ma avevo sentito dire che lì i rifugiati palestinesi erano esposti a razzismo e privati di molti dei loro diritti.”

Un rifugiato palestinese della Siria, che è poi riuscito a raggiungere l’Europa, passando attraverso Egitto e Turchia, e ad approdare in Italia dopo una rischiosa traversata via mare.

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Il 2014 è stato un anno devastante per coloro che cercavano di difendere i diritti umani e per quanti si sono trovati intrappolati nella sofferenza delle zone di guerra.

I governi a parole sostengono l’importanza di proteggere i civili ma i politici di tutto il mondo hanno miseramente fallito nel compito di tutelare coloro che più avevano più bisogno d’aiuto. Amnesty International ritiene che tutto ciò può e deve finalmente cambiare.

Il diritto internazionale umanitario, ovvero la legislazione che regolamenta la condotta nelle operazioni belliche, non potrebbe essere più chiaro. Gli attacchi non devono mai essere diretti contro i civili. Il principio di distinzione tra civili e combattenti è una salvaguardia fondamentale per le persone travolte dagli orrori della guerra.

E tuttavia, più e più volte, nei conflitti sono stati proprio i civili a essere maggiormente colpiti. Nell’anno della ricorrenza del 20° anniversario del genocidio ruandese, i politici hanno ripetutamente calpestato le regole che proteggono i civili o hanno abbassato lo sguardo di fronte alle fatali violazioni di queste regole da parte di altri.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non è intervenuto ad affrontare la crisi siriana negli anni precedenti, quando ancora sarebbe stato possibile salvare innumerevoli vite umane. Tale fallimento è proseguito anche nel 2014. Negli ultimi quattro anni, sono morte 200.000 persone, la stragrande maggioranza civili, principalmente in attacchi compiuti dalle forze governative. Circa quattro milioni di persone in fuga dalla Siria hanno trovato rifugio in altri paesi. Più di 7,6 milioni sono sfollate in territorio siriano.

La crisi in Siria è intrecciata con quella del vicino Iraq. Il gruppo armato che si autodefinisce Stato islamico (Islamic State – Is, noto in precedenza come Isis), che in Siria si è reso responsabile di crimini di guerra, nel nord dell’Iraq ha compiuto rapimenti, uccisioni sommarie assimilabili a esecuzione e una pulizia etnica di proporzioni enormi. Parallelamente, le milizie sciite irachene hanno rapito e ucciso decine di civili sunniti, con il tacito sostegno del governo iracheno.

L’assalto condotto a luglio su Gaza dalle forze israeliane è costato la vita a 2000 palestinesi. E ancora una volta, la stragrande maggioranza di questi, almeno 1500, erano civili. Come ha dimostrato Amnesty International in una dettagliata analisi, la linea adottata da Israele si è distinta per la sua spietata indifferenza e ha implicato crimini di guerra. Anche Hamas ha compiuto crimini di guerra, sparando indiscriminatamente razzi verso Israele e causando sei morti.

In Nigeria, il conflitto in corso nel nord del paese tra le forze governative e il gruppo armato Boko haram è finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo a causa del rapimento, da parte di Boko haram, di 276 studentesse nella città di Chibok, uno degli innumerevoli crimini commessi dal gruppo. Quasi inosservati sono passati gli orrendi crimini commessi dalle forze di sicurezza nigeriane, e da altri che hanno agito per conto loro, contro persone ritenute appartenere o sostenere Boko haram; alcuni di questi crimini, rivelati da Amnesty International ad agosto, erano stati ripresi in un video che mostrava le vittime assassinate e gettate in una fossa comune.

Nella Repubblica Centrafricana, oltre 5000 persone sono morte a causa della violenza settaria, nonostante la presenza sul campo dei contingenti internazionali. Tortura, stupri e uccisioni di massa hanno a stento raggiunto le prime pagine dei giornali a livello mondiale. Ancora una volta, la maggior parte delle vittime erano civili.

E in Sud Sudan, lo stato più recente del mondo, decine di migliaia di civili sono stati uccisi e due milioni sono fuggiti dalle loro case, nel contesto del conflitto armato tra le forze governative e quelle dell’opposizione. Entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Questo breve elenco, come mostra chiaramente quest’ultimo rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani in 160 paesi, non rappresenta che una parte del problema. Qualcuno potrebbe sostenere che di fronte a tutto questo non è possibile fare nulla, che da sempre la guerra viene fatta alle spese della popolazione civile e che niente potrà mai cambiare.

Ma si sbaglia. È essenziale affrontare la questione delle violazioni contro i civili, oltre che assicurarne alla giustizia i responsabili. C’è una misura evidente e concreta che attende solo di essere adottata: Amnesty International ha accolto con favore la proposta, attualmente appoggiata da circa 40 governi, di dotare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di un codice di condotta che preveda l’astensione volontaria dal ricorso al veto in situazioni di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, per non bloccare l’azione del Consiglio di sicurezza.

Sarebbe un primo passo importante e potrebbe già salvare molte vite.

I fallimenti tuttavia non hanno riguardato soltanto l’incapacità d’impedire le atrocità di massa. È stata anche negata l’assistenza diretta ai milioni di persone in fuga dalla violenza che inghiottiva villaggi e città.

Quei governi, tanto pronti a denunciare a gran voce i fallimenti degli altri governi, si sono poi dimostrati essi stessi riluttanti a farsi avanti e fornire gli aiuti essenziali di cui avevano bisogno i rifugiati, sia in termini di aiuti economici, sia di opportunità di reinsediamento. A fine anno, i rifugiati della Siria reinsediati erano meno del due per cento, una cifra che dovrà almeno triplicarsi nel 2015.

Nel frattempo, un numero enorme di rifugiati e migranti continua a perdere la vita nel Mar Mediterraneo, nel disperato tentativo di raggiungere le coste europee. La mancanza di supporto da parte di alcuni stati membri dell’Eu nelle operazioni di ricerca e soccorso ha contribuito allo sconvolgente tributo in termini di vite umane.

Una misura che potrebbe essere adottata per proteggere i civili nei conflitti è limitare ulteriormente l’impiego di armi esplosive nelle aree popolate. Ciò avrebbe permesso di salvare molte vite in Ucraina, dove sia i separatisti appoggiati dalla Russia (che seppur in maniera poco convincente ha più volte negato un suo coinvolgimento) sia le forze pro-Kiev hanno colpito quartieri abitati da civili.

L’esistenza di regole sulla protezione dei civili è importante in quanto implica un concreto accertamento delle responsabilità e l’ottenimento della giustizia, laddove tali regole siano violate. In questa prospettiva, Amnesty International ha accolto con favore la decisione assunta dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, a Ginevra, di avviare un’inchiesta internazionale in merito alle accuse di violazioni dei diritti umani e di abusi commessi durante il conflitto in Sri Lanka, dove, negli ultimi mesi di combattimenti nel 2009, furono uccise decine di migliaia di civili. Amnesty International si è molto impegnata negli ultimi cinque anni affinché fosse istituita quest’inchiesta. Senza un tale accertamento delle responsabilità non sarà possibile compiere alcun passo avanti.

Ma anche altri aspetti inerenti la difesa dei diritti umani devono essere migliorati. In Messico, la sparizione forzata di 43 studenti, avvenuta a settembre, è andata tragicamente ad aggiungersi alle vicende di oltre 22.000 persone scomparse finora o delle quali si sono perse le tracce dal 2006; si ritiene che la maggior parte di queste siano state rapite da bande criminali ma in molti casi le informazioni raccolte lasciano intendere che siano state sottoposte a sparizione forzata per mano di poliziotti o militari, i quali avrebbero agito in alcuni casi in collusione proprio con le bande criminali. Le poche vittime i cui resti sono stati ritrovati mostravano segni di tortura e altro maltrattamento. Le autorità federali e statali non hanno provveduto a condurre indagini su questi crimini per stabilire l’eventuale coinvolgimento di agenti dello stato e garantire un rimedio legale efficace per le vittime, compresi i loro familiari. Oltre a non aver dato una risposta, il governo ha tentato di nascondere la crisi dei diritti umani, in un contesto di elevati livelli d’impunità, corruzione e progressiva militarizzazione.

Nel 2014, i governi di molte parti del mondo hanno continuato a reprimere le Ngo e la società civile, una sorta di perverso riconoscimento dell’importanza del loro ruolo. La Russia ha accresciuto la sua stretta micidiale con l’introduzione di una spaventosa “legge sugli agenti stranieri”, un linguaggio degno della guerra fredda. In Egitto, le Ngo sono state al centro di un grave giro di vite, con l’utilizzo della legge sulle associazioni risalante all’era Mubarak, per mandare il chiaro messaggio che il governo non intendeva tollerare alcun tipo di dissenso. Organizzazioni per i diritti umani di rilievo hanno dovuto ritirarsi dall’Esame periodico universale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Egitto, per timore di rappresaglie nei loro confronti.

Come già accaduto in varie occasioni in precedenza, i manifestanti hanno dimostrato il loro coraggio malgrado le minacce e la violenza contro di loro. A Hong Kong, a decine di migliaia hanno sfidato le minacce delle autorità e affrontato un uso eccessivo e arbitrario della forza da parte della polizia, in quello che è diventato il “movimento degli ombrelli”, esercitando i loro diritti fondamentali alle libertà d’espressione e di riunione.

Le organizzazioni per i diritti umani sono talvolta accusate di essere troppo ambiziose nei loro sogni di dar vita a un cambiamento. Dobbiamo comunque ricordare che i traguardi straordinari sono raggiungibili. Il 24 dicembre, è entrato in vigore il Trattato internazionale sul commercio di armi, dopo che tre mesi prima era stata superata la soglia delle 50 ratifiche.

Amnesty International, tra gli altri, si è impegnata a favore del trattato per 20 anni. Più volte ci era stato detto che non saremmo mai arrivati a ottenerlo. Ebbene, il trattato adesso esiste e servirà a proibire la vendita di armi a quanti potrebbero utilizzarle per commettere atrocità. Potrà pertanto svolgere un ruolo decisivo negli anni a venire, quando la questione della sua implementazione sarà cruciale.

Nel 2014 ricorrevano anche i 30 anni dall’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, un’altra convenzione per la quale Amnesty International si è battuta per molti anni e una delle motivazioni per le quali le fu conferito il premio Nobel per la pace nel 1977.

Questo anniversario è, sotto un certo punto di vista, un momento da celebrare ma è anche l’occasione per sottolineare come la tortura sia ancora dilagante in molte parti del mondo, motivo per cui Amnesty International, proprio quest’anno, ha lanciato la sua campagna globale “Stop alla tortura”.

Questo messaggio contro la tortura ha avuto una particolare risonanza in seguito alla pubblicazione a dicembre di un rapporto del senato statunitense, che ha dimostrato la facilità con cui era stato tollerato l’uso della tortura negli anni successivi agli attacchi agli Usa dell’11 settembre 2001. È sconcertante come alcuni dei responsabili per quegli atti criminali di tortura sembrassero ancora convinti di non avere alcun motivo di cui vergognarsi.

Da Washington a Damasco, da Abuja a Colombo, i leader di governo hanno giustificato orrende violazioni dei diritti umani sostenendo che era necessario commetterle in nome della sicurezza. In realtà, è semmai vero il contrario. Questo tipo di violazioni sono uno dei motivi principali per i quali oggi viviamo in un mondo tanto pericoloso. Non può esserci sicurezza senza rispetto dei diritti umani. Abbiamo ripetutamente visto che, anche nei momenti più bui per i diritti umani, e forse in special modo in tempi come questi, è possibile dar vita a un cambiamento straordinario.

Dobbiamo solo sperare che, quando negli anni a venire guarderemo indietro al 2014, ciò che abbiamo vissuto in quest’anno ci sembrerà il fondo, l’ultimo punto più basso da cui siamo risaliti e abbiamo creato un futuro migliore.

Salil Shetty

Segretario generale di Amnesty International

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Fonte: Amnesty International

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Attiviamoci! Partecipiamo alla realizzazione de “La Carovana della Gioia”

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La Carovana della Gioia sarà in movimento per tutta la Primavera 2015.
Andremo nelle scuole e nelle piazze di tutta Italia per portare un messaggio di Pace e di Gioia, un messaggio che vuole cambiare il nostro modo di vedere le cose e trovare soluzioni positive per tutti i problemi che stiamo vivendo ora.
Raccoglieremo le idee dei bambini e dei ragazzi, faremo esplodere i colori e i segni degli illustratori che ci aiuteranno nel ridipingere il joybus e comunicare le nostre idee.
Proietteremo il film “Bambini in fuga” e leggeremo il libro “Amin, Aisha e il Mare” perché non ci siano più morti in mare.
Realizzeremo due Missioni di Solidarietà in Italia e all’estero.
Torneremo a Palermo in Sicilia per occuparci ancora dei Bambini in Fuga, in particolare di quelli non accompagnati.
Andremo fino in Ucraina per manifestare il nostro desiderio di Pace.
Per realizzare il progetto servono circa 10.000 euro. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti/e!!!
Per contribuire e sostenere la Carovana della Gioia vai alla pagina http://www.lacarovanadellagioia.org/coproduci.htm e fai subito una donazione!

.Italo Cassa

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Facebook

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Arabia Saudita: 7 anni e 600 frustate per Raif Badawi. Firma l’appello!

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Raif Badawi Receives 50 Lashes

Raif Badawi Receives 50 Lashes

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Arabia Saudita: Raif Badawi fustigato

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Cosa è successo a Raif Badawi?

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Raif Badawi è fondatore di”Free Saudi Liberals”, un forum ideato per discutere del ruolo della religione in Arabia Saudita. Già nel 2008 era stato arrestato per apostasia e rilasciato pochi giorni dopo. In quella occasione, il governo gli aveva proibito di lasciare il paese e nel 2009 aveva congelato i suoi conti bancari. Il 17 giugno 2012 è stato nuovamente arrestato, con la stessa accusa, perché nei suoi articoli aveva criticato figure religiose. Il 17 dicembre 2012, il tribunale distrettuale di Gedda aveva rinviato la causa alla Corte di appello di Gedda, raccomandando che Raif Badawi fosse processato per reato di “apostasia”. Il 29 luglio 2013, il tribunale penale di Gedda ha condannato Raif Badawi a sette anni di carcere e 600 frustate per aver violato le norme del diritto informatico e aver insultato le autorità religiose fondando e gestendo il forum online “Free Saudi Liberals“. Raif Badawi è stato inoltre condannato per aver infamato simboli religiosi pubblicando post su Twitter e Facebook, e per aver criticato la Commissione perla promozione della virtù e la prevenzione del vizio (conosciuta anche come la polizia religiosa) e i funzionari che avevano sostenuto il divieto di includere le donne nel Consiglio della Shura. Contestualmente alla condanna, il giudice ha disposto la chiusura del forum online.

Dal 17 giugno 2012, Raif Badawi è detenuto nel carcere di Briman, a Gedda. Il processo a suo carico è stato viziato da irregolarità. Secondo il suo avvocato, il giudice nominato per il processo è stato sostituito da un altro giudice, che aveva sostenuto che Raif Badawi dovesse essere punito per “apostasia”.

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Aggiornamento 6 febbraio – Fustigazione rinviata per motivi sconosciuti

La fustigazione pubblica di Raif Badawi in programma per il 6 febbraio non è stata effettuata per ragioni sconosciute. Come la scorsa settimana, non è stato chiamato dalla sua cella ne esaminato dal medico del carcere. Non è chiaro il motivo per cui il check-up medico di routine non ha avuto luogo ne il motivo per il quale la fustigazione è stata rinviata.

Amnesty International ha appreso che il caso di Raif Badawi è stato sottoposto da parte della Corte Suprema alla Corte d’appello di Jeddah il 3 febbraio. Altre informazioni circa i dettagli di questo trasferimento non sono stati resi disponibili. La Corte Suprema potrebbe confermare la condanna e la pena, o potrebbe chiedere un nuovo processo ribaltando la sentenza e la condanna o presentare osservazioni e raccomandazioni. Le autorità saudite non hanno ancora fatto una dichiarazione ufficiale sul caso, nonostante l’indignazione internazionale. Ma fino a quando la condanna alla fustigazione e alla prigione rimarrà in vigore, Raif Badawi sarà sempre a rischio di fustigazione e sconterà la condanna a 10 anni di carcere. (leggi tutto)

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FIRMA SUBITO L’APPELLO!

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Fonte: Amnesty International

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