Monthly Archives: Dicembre 2015

Sardegna: pacifisti annunciano sabotaggi non violenti contro la produzione di bombe

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Bombe Made in Sardegna: un pacifista annuncia azioni nonviolente di sabotaggio

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di Luca Kocci

«Signor prefetto, signor questore, la informo che per quanto riguarda la fabbrica di bombe di Domusnovas (Ca), potrei attuare delle azioni di sabotaggio nonviolente. Considerato che il governo italiano sta violando la legge 185/90. Infatti in base a quella norma non si possono vendere armi alle nazioni in guerra! L’Arabia Saudita usa queste bombe, ci sono le prove, anche e soprattutto contro civili inermi. La mia coscienza di cristiano mi impone di farlo».

È questa la breve lettera che il pacifista sardo Antonello Repetto, aderente a Pax Christi – ma la sua, precisa, «è una iniziativa personale» – e non nuovo ad iniziative nonviolente antimilitariste, ha inviato al prefetto e al questore di Cagliari per “autodenunciarsi” e, contestualmente, denunciare la condotta illegittima della Rwm Italia munitions (sede centrale a Ghedi, provincia di Brescia, e uno stabilimento a Domusnovas, provincia di Cagliari), costola della Rheinmetall Defence, colosso tedesco degli armamenti, subentrato nel 2010 alla Società esplosivi industriali spa, che dal 2001, dopo aver prodotto per anni esplosivi da cava e per altri usi civili, è stata convertita a fabbrica per ordigni militari.

Secondo un’inchiesta giornalistica di Reported.ly – rilanciata in Italia, fra gli altri, da Famiglia Cristiana, Il fatto quotidiano e l’Unione sarda – a Domusnovas vengono prodotte bombe, vendute, attraverso l’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e regolarmente utilizzate per bombardare lo Yemen (v. Adista Notizie n. 40/15), come denunciano anche Amnesty International, Medici senza frontiere, Rete Disarmo e Opal Brescia. In violazione, quindi della legge 185/90, che regola l’export di armi dall’Italia e vieta la vendita di armamenti a Paesi impegnati in conflitti.

«Mi sono autodenunciato per rendere pubblica, in questo modo, la violazione della legge», spiega ad Adista Antonello Repetto. «È la mia coscienza, di cristiano, che me lo impone, perché il quinto comandamento parla chiaro: non uccidere. E con le bombe fabbricate a Domusnovas si uccide, anche civili inermi. Rilevo poi, con rammarico, che la Chiesa sarda, tranne pochissime eccezioni, continua a restare in un assordante silenzio, facendo il contrario di quello che dice papa Francesco, che in più occasioni ha denunciato la guerra, la produzione e il commercio di armi. Ma io non potevo più tacere». Il prossimo 19 dicembre è in programma un sit-in presso la Rwm di Domusnovas. E in quell’occasione i pacifisti potrebbero mettere in atto nuove inziative nonviolente nei confronti dell’industria.

Repetto ha indirizzato una lettera anche agli operai della Rwm di Domusnovas, allegandole il testo della Preghiera semplice di Francesco d’Assisi. «Mi permetto di scrivervi per invitarvi a riflettere su quello che purtroppo contribuite a fabbricare», si legge nella lettera inviata anche ad Adista. «Come ben sapete gli ordigni da voi prodotti vengono usati dall’Arabia Saudita contro lo Yemen. I raid aerei hanno causato la morte di migliaia di civili. Amnesty International afferma che sono stati compiuti veri crimini di guerra. Sono state infatti distrutte scuole e addirittura ospedali. Capisco cosa vuol dire oggi come oggi avere la fortuna di lavorare, e il posto di lavoro va indubbiamente salvaguardato, soprattutto quando si ha famiglia. Però non me ne vorrete se voglio rammentare che anche in Yemen hanno la famiglia! Quanti civili inermi dovranno ancora morire a causa di questi micidiali ordigni che provengono, purtroppo, anche dalla Sardegna? Vorrei, se mi permettete, farvi una proposta: perché tramite i vostri rappresentanti sindacali non chiedete una riconversione della fabbrica? So benissimo che non è un discorso facile da affrontare. Vorrei che in occasione del Natale prendeste in considerazione la mia proposta».

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Fonte: Adista

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AGGIORNAMENTO:

Un altro pacifista, Francesco Arcuri, si è autodenunciato. Anch’egli, come il collega Repetto, attuerà azioni nonviolente per sabotare la produzione di Bombe della fabbrica Rwm Italia Munitions di Domusnovas (CA). Arcuri ha comunicato la sua decisione con due lettere inviate ai vertici di Prefettura e Questura. Nelle lettere affronta anche il problema sui posti di lavoro nella fabbrica: “Sono contro il ricatto occupazionale e non voglio che i cittadini siano costretti a scegliere fra la disoccupazione e il lavoro in fabbriche di morte, diretta o indiretta che sia… io mi autodenuncio per puntare il dito contro lo Stato Italiano che non mi garantisce né un lavoro né una casa a favore di spese belliche, perché voglio che i miei figli crescano in un paese dignitoso, dove possano vivere felicemente e serenamente, senza guerre alimentate da scopi economici e poi spacciate per “sante”.”  (madu)

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“Siamo violenti, è la natura umana… Queste asserzioni sono basate sul nulla.”

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Kalahari - Famiglia boscimane (Gruppo etnico più antico dell'Africa)

Kalahari – Famiglia boscimane (Gruppo etnico più antico dell’Africa)

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La violenza non sarebbe sempre esistita

Scienziati e fautori dell’empatia si sono uniti in un progetto semplice e ambizioso: dimostrare che la brutalità non è inerente all’animale umano, e che possiamo cambiare.

Di Marylène Patou-Mathis, storica della preistoria

No, la violenza non è sempre esistita.

Ci fu un tempo nel quale non c’era nessuna violenza. Non si tratta di un sogno, di una favola da speculazione filosofica ma lo scenario che sempre più spesso viene delineato dalla scienza, alla confluenza tra archeologia, antropologia, biologia evolutiva, discipline che studiano il cervello e la psiche. All’immagine di una natura umana impastata di violenza e competizione il pensiero contemporaneo ne sostituisce un’altra, fatta di empatia e cooperazione. Le attuali conoscenze circa la natura umana rendono quindi possibile immaginare un mondo senza massacri, senza guerre, senza brutalità: niente di tutto questo sarebbe infatti inevitabile, dato ciò che siamo…

Medico, psicoterapeuta e regista, il francese Michel Meignant esplora questo territorio in un documentario in preparazione, per il quale è in corso una campagna di raccolta fondi partecipativa (leggi qui sotto). Abbiamo intervistato due delle partecipanti.

Una preistoria pacifica

La morte violenta inflitta da un essere umano a un altro compare tardi rispetto alla comparsa dell’umanità stessa e resta a lungo un fenomeno molto limitato. Questo è quanto emerge dalle testimonianze archeologiche. Nel 2013 Marylène Patou-Mathis, storica della preistoria e direttrice del centro di ricerca presso il CNRS, ha dedicato un libro al tema, Préhistoire de la violence et de la guerre (edizioni Odile Jacob). “Sono partita dal senso di fastidio che mi derivava dal sentir ripetere sempre la stessa cosa: siamo violenti, è la natura umana, queste cose sono sempre esistite, quando queste dichiarazioni sono basate sul nulla. Come scienziata, ho pensato: interroghiamo i dati”

Risultato? Se la violenza è molto rara nel Paleolitico, esiste in circostanze particolari. “Le prime tracce sono relative al cannibalismo, che può essere un rito funebre, ma anche un rituale connesso con il sacrificio di un individuo, che viene poi mangiato per unire il gruppo: ognuno prende parte della colpa, per così dire, durante il pasto cannibalesco”. Il sacrificio, perché, esattamente? “Per cercare di rispondere a un problema, ad una grave crisi come un’epidemia o una carestia, si sacrifica qualcosa di molto prezioso: un membro del gruppo”.

Un fatto in contrasto con i preconcetti secondo i quali la violenza primitiva sarebbe attivata dalla competizione per le risorse o dallo scontro tra gli appetiti. “Secondo un immaginario ampiamente condiviso, la violenza sarebbe iniziata aggredendo l’altro per prendergli qualcosa. Sono molti i miti di questo tipo, non basati su alcuna considerazione archeologica o antropologica: quello del rapimento di donne, ad esempio, che è una proiezione della società del XIX secolo”.

Nessun ingenuo buonismo, tuttavia: non siamo nel giardino dell’Eden, teniamo i piedi per terra. “Non bisogna confondere violenza e aggressività. Quest’ultima è un riflesso, un istinto animale, che ci permette di sopravvivere”. Meccanismo di difesa, l’aggressività naturale è legata al nostro status di predatori. “I cacciatori-raccoglitori uccidono gli animali per cibarsene. Ma anche qui ci sono dei riti, sia prima che durante e dopo la caccia. Non si conosce un solo popolo di cacciatori che non abbia tali rituali. Ne hanno bisogno per essere in grado di uccidere questo prossimo, questo quasi-simile, questo quasi-fratello che per loro è l’animale.”

L’assenza di violenza non significa che non esiste alcun conflitto: “Le testimonianze etnografiche raccolte presso i popoli detti tradizionali, come per esempio i Boscimani o i San dell’Africa meridionale, pressi i quali ho avuto la possibilità di vivere per un periodo, ci mostrano come tra di loro ci sia poca violenza. Quando sorge un litigio, tutti si riuniscono. Se non si giunge ad una soluzione, si ha una scissione: una parte va con uno dei protagonisti nel conflitto”.

L’archeologia permette di tracciare la preistoria dell’empatia? “Sì. La si vede nel ritrovamento di scheletri che presentano lesioni invalidanti o difetti di nascita. Ci sono molti casi, ad esempio un uomo di Neanderthal trovato a Shanidar, in Iraq, privo di un avambraccio e che aveva vissuto più di 40 anni: ciò significa che era stato preso in carico dal gruppo, che non era stato rifiutato e lasciato morire”. Cosa sappiamo degli atteggiamenti preistorici nei confronti dei bambini? “Non esiste alcun mezzo archeologico per sapere in che modo venissero educati i bambini paleolitici. Ma se si guarda alle popolazioni di cacciatori-raccoglitori contemporanee, vediamo che nella loro società non esiste nessuna violenza educativa. Lo schiaffo o la sculacciata sono sconosciuti”.

In che modo l’umanità pacifica degli inizi diventa brutale? “Non appena i gruppi diventano stanziali, c’è una crescita demografica. Ciò comporta un cambiamento economico, la domesticazione di piante e animali. Cominciano a comparire l’ammasso di scorte e il possesso di beni. È a questo punto che, nelle pitture rupestri, si vedono apparire alcuni personaggi più grandi degli altri: le élite. Non voglio tirare in ballo Rousseau, ma questi sono i fatti”. Ci sono popoli stanziali senza violenza? “Qualche società orticoltrice di piccole dimensioni. La questione dei numeri è fondamentale”.

La brutalità “soft” dell’educazione

Ci sono due categorie di violenza sui bambini: entrambe vengono trasmesse tra le generazioni e rappresentano il collegamento tra singole violazioni e i danni sociali. Cornelia Gauthier,ginevrina, medico, psicoterapeuta, autrice di vari libri sul tema, ( Sommes-nous tous des abusés? edizioni Georg, Victime? Non merci!  edizioni Jouvence), collaboratrice per una serie in vari volumi, ha studiato queste due forme di violenza, e in particolare la più banale: “L’abuso è tipico di chi in precedenza ha subito maltrattamenti. La violenza educativa ordinaria è commessa, praticamente da tutti e più o meno a propria insaputa, credendo di fare bene, con l’idea che il bambino ne abbia bisogno per diventare una persona perbene”.

Fatta di minacce, grida, lacrime ignorate e qualche schiaffo o sculacciata, sembra benigna, addirittura benefica, mentre sarebbe ‘il terreno di coltura della violenza’: minando la capacità di empatia del bambino, porterebbe, in ultima analisi, allo sviluppo delle nostre violenze da adulti. Conterrebbe quindi in sé il meccanismo della propria perpetuazione. “È un linguaggio che si acquisisce sin da piccoli: poiché il bambino impara per imitazione, il modello educativo che viene impostato determina cosa sarà percepito come normale e giusto ai suoi occhi”.

E tuttavia, rimuovendo qualsiasi forma di violenza soft dall’arsenale educativo non rischiamo di creare dei piccoli tiranni? “Dimenticate questo preconcetto! Permetteremo forse al bambino di fare qualsiasi cosa? Certo che no. Ha bisogno di avere dei limiti. In realtà, li cerca. È uno dei più grandi malintesi tra l’adulto e il bambino”. Esaminiamo le cose da vicino. “L’adulto mette un limite. È rassicurante per il bambino, che verificherà quindi se il limite esiste. Quando gli si dice: “Non devi fare questo”, è quindi ovvio, è previsto in anticipo, che il bambino lo farà”. E a quel punto, l’adulto s’innervosisce, si offende, perché interpreta come disobbedienza qualcosa che per il bambino è in realtà una verifica”. Che fare? “Ripetere: “No, non si fa”, senza minacce, con calma e con fermezza. Ciò avrà un effetto calmante sul bambino, anche se si sente frustrato, e gli permetterà di crescere bene senza i blocchi emozionali derivanti dalla violenza educativa”.

Un altro classico malinteso: “Si dice ad un bambino di 2 anni: “No, non devi toccare il telecomando”. Il bambino sente “telecomando”, assimila l’informazione con il suo piccolo lobo frontale, ma non è ancora maturo dal punto di vista neurologico per annullare allo stesso tempo questa immagine nella sua mente in modo da poter seguire l’interdizione. Allora toccherà l’oggetto, compiendo il gesto molto lentamente e allo stesso tempo guardandoci dritto negli occhi: non sta disobbedendo, sta effettuando una verifica”.

Come Olivier Maurel, Cornelia Gauthier crede che la violenza educativa appaia nella storia dell’umanità sulla scia della sedentarizzazione. “Il numero delle nascite essendo aumentato rispetto alle società di cacciatori-raccoglitori, i figli maggiori dovevano essere svezzati in modo che i nuovi nati potessero essere allattati. Questo deve aver creato aggressività nei fratelli maggiori, che hanno iniziato a picchiare i cadetti. La madre, che gli ormoni legati all’allattamento rendono iper-aggressiva se le si tocca il piccolo, deve aver a quel punto iniziato a picchiare il maggiore. È un’ipotesi plausibile per spiegare la comparsa del ciclo della violenza nel cerchio familiare”.

Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia per Pressenza

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Fonte: Pressenza

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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna la Turchia per aver bloccato YouTube

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Turchia, condanna europea per il blocco del Tubo

di Claudio Tamburrino

Inibire gli accessi a YouTube per una manciata di video che, pur illegalmente, sbeffeggiano Ataturk viola i diritti fondamentali. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna la Turchia per aver impedito la libera manifestazione del pensiero.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato la Turchia per aver tagliato fuori dalla rete del paese YouTube in diverse occasioni tra il 2008 ed il 2010, un blocco decretato sulla base della presenza di diversi video illegali che avrebbero infangato l’immagine di Mustafa Kemal Ataturk, che la Turchia ritiene padre fondatore della Turchia moderna, e rimosso solo con la rimozione dei video.

Non si tratta dell’ultimo caso in cui la piattaforma viene bloccata in Turchia: all’inizio del 2014, per esempio, Ankata l’aveva resa inaccessibile in concomitanza con le elezioni amministrative. Sulla piattaforma di videosharing erano comparse delle registrazioni di certe intercettazioni sgradite al primo ministro Erdogan, che avrebbero rivelato troppo sulle strategie del potere turco in Siria. L’autorità che vigila sulle tecnologie delle comunicazioni, così come era avvenuto anche con Twitter, aveva ordinato ai fornitori di connettività di innescare i filtri: solo in un secondo momento era intervenuta l’autorità giudiziaria, riconducendo i blocchi all’illegalità di dieci video che che tiravano in ballo Ataturk, pericolosi per la sicurezza nazionale. Contro tale decisione non erano mancati i ricorsi, che in un primo momento avevano anche ottenuto la sospensione del blocco giudicato non proporzionale: tuttavia, davanti all’impossibilità da parte delle autorità locali di bloccare l’accesso ai singoli video, questo era stato rimosso ed il caso era arrivato fino alla Corte Costituzionale, che ne aveva infine decretato l’illegalità.

Il caso legato ai blocchi imposti dal Governo tra il 2008 ed il 2010, nel frattempo, non essendo riuscito ad ottenere giustizia nelle corti locali, faceva il suo iter: grazie al ricorso dei cittadini Serkan Cengiz, Yaman Akdeniz e Kerem Altıparmak, è giunto fino alla Corte di Strasburgo che si è così trovata per la seconda volta a condannare la Turchia per il blocco di un contenuto online considerato lesivo della memoria di Ataturk. Come in un analogo caso del 2012, scaturito dalla decisione da parte delle autorità locali di chiudere – insieme ad un sito accusato di ledere la memoria di Ataturk – anche l’intera piattaforma di blogging Google Sites, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha rilevato la violazione della libera manifestazione del pensiero.

Nella sentenza si legge inoltre che non vi è nessuna disposizione nella normativa nazionale che permetta alle autorità di bloccare una piattaforma intera in forza di un solo contenuto trovato in violazione della legge. Altresì si specifica che le restrizioni all’accesso di contenuti online sono considerate lecite solo nella misura in cui riguardino contenuti specifici e che non rispettino invece l’articolo 10 della Convenzione internazionale sui diritti dell’uomo quelle interdizioni generali che finiscono per colpire una piattaforma intera o comunque altri contenuti estranei a quelli accusati di violazione.

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Fonte: Punto Informatico

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